La maestrina degli operai/VII
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VII.
La Varetti uscì dalla scuola assai tranquillata. La sua classe era meno peggio di quello che si fosse immaginata; c’eran dei visi di galantuomini, che le parevan disposti a tenere in briglia i ragazzacci; e la confortava sopra tutto l’immagine di quel Perotti, sul cui viso onesto essa aveva visto quasi una promessa di protezione paterna. Chiese poi notizie di lui al Garallo, che raggiunse per la scala, e le ebbe eccellenti. Era un buon operaio e un ottimo padre di famiglia, che aveva lavorato da falegname prima d’entrare alla conceria, e fatto due o tre piccoli mobili assai graziosi per il museo pedagogico che il maestro si proponeva di mettere assieme. Avevan tanta buona volontà d’istruirsi, lui e il suo figliuolo, che appena usciti dalla conceria, andavano alla scuola senza mangiare, restando così digiuni per dieci ore; e il piccino, che aveva fatto la seconda elementare, correggeva ancora i lavori al padre, dopo cena. — Vedrà — concluse il Garallo — che col popolo si sta bene. Se poi seguiranno dei disordini, lei mi manderà a chiamare dal cantoniere, e non avrò che da affacciarmi all’uscio: tutti rientreranno nel dovere.
La maestra si ripresentò dunque alla scuola, benchè turbata sempre dal timore di Saltafinestra, con assai miglior animo che non si fosse presentata tre giorni avanti. Ma s’accorse pur troppo fin da principio che, non più distratti dalla curiosità ch’essa aveva destata la prima sera, e anche perchè avevano indovinato la sua indole timida, i ragazzi non si sarebbero più frenati come l’altra volta. Ella sentì delle risate represse, e capì che qualcuno doveva far dei gesti sconvenienti alle sue spalle, mentre stava alla lavagna a scriver le sillabe. I ragazzi cominciarono a parlar forte; alcuni si addormentavano; uno russava, e lo dovette svegliare. Fu costretta due o tre volte a interrompersi, sgomenta, aspettando che i grandi, stizziti d’esser disturbati, imponessero silenzio. Il piccolo Maggia distraeva i vicini con una ginnastica continua delle mani e dei piedi, di sotto al banco, e quando essa lo guardava, le fissava gli occhi in viso con una espressione di finto stupore, così impertinente, che le faceva voltare il capo da un’altra parte.
Ammutolirono tutti quando, terminata la lettura della prima sezione, videro Saltafinestra uscir dal suo banco col quaderno in mano per salir sul palco a chiedere spiegazioni sul suo lavoro.
La maestra tremò, presa dal presentimento di qualche atto di audacia.
Il giovane le si avvicinò perfettamente tranquillo, simulando anzi una grande serietà, e messole davanti il quaderno aperto, le rivolse una domanda intorno a una frase. Vinta la ripugnanza che sentiva a stargli così vicino, tremando, e quasi restringendosi in sè come per scansare il suo contatto, ella chinò il viso sul quaderno, e lesse le prime righe del componimeiìto: una lettera a una sorella.
Tutt’a un tratto, mossa da uno sdegno più pronto d’ogni timore, afferrò il foglio con due mani, lo fece in due pezzi, e respinse il quaderno da sè.
Aveva letto il principio d’una dichiarazione amorosa.
Il giovane riprese il quaderno e tornò al suo posto, col capo basso, sorridendo sinistramente. La maestra rimase qualche momento bianca come un cencio. Poi, con molta fatica, ricominciò la lezione.
Quell’avvenimento misterioso, commentato subito da un vivo mormorio, valse a tenere nella scolaresca un breve silenzio di curiosità e di aspettazione. Ma verso la fine, mentre la maestra voltava un’altra volta le spalle alla classe per scrivere le sillabe col gessetto, fu riscossa dal colpo d’una grossa palla di carta masticata che battè nel mezzo della lavagna e ricadde ai suoi piedi.
Si voltò con una fiamma nel viso, per cercare il colpevole; il quale non poteva essere il Muroni, poichè la palla era venuta d’in mezzo alla scuola. Guardò il piccolo Maggia, ma aveva una faccia impassibile. Guardò gli altri ragazzi; eran tutti come statue.
— Chi è stato? — domandò con voce commossa.
Nessuno rispose.
Cercò il viso dei tre o quattro uomini più attempati, che credeva disposti a proteggerla; quello del Perotti, fra gli altri; ma tutti abbassarono il capo. Allora, scoraggiata, fece uno sforzo per rimandare indietro le lacrime, e continuò la lezione.
Quel nuovo affronto che le era stato fatto in faccia a tutti le stringeva il cuore più di quell’altro, che pure l’aveva offesa più addentro come donna; e la sua commozione visibilissima giovò a tenere in certo riserbo gli alunni, eccetto il piccolo Maggia, che tentò due o tre volte di far rider la classe. Ma i grandi, indignati, lo zittirono. Triste, ella seguitò a far leggere, non guardando più il Muroni che verso la fine della lezione. Ma gli occhi ch’ella gli vide in quel punto le rimescolarono il sangue: non era più lo sguardo tra curioso e beffardo della prima sera: era uno sguardo acuto e freddo, lampeggiante fra le palpebre socchiuse, nel quale traspariva l’orgoglio offeso, un proponimento risoluto di vendetta, una aperta minaccia. Sull’atto ella si vide assalita, percossa, ferita, distesa sulla neve, e si sentì correre il sangue caldo giù per il fianco, e le tremaron le ginocchia come per febbre.
All’uscita, vide molti alunni affollarsi nel corridoio intorno al Muroni per domandargli la rivelazione del mistero. Uno degli ultimi a uscire fu il Perotti.
La maestra lo chiamò.
Quegli le si accostò in atto rispettoso, col cappello in mano.
— Lei ha visto — disse la maestra con voce ancora tremante — l’affronto che m’hanno fatto, alla lavagna. Se non faccio punire il colpevole, faranno di peggio. Perchè non mi dice chi è stato, lei che è un galantuomo?
Il Perotti abbassò il viso, un po’ vergognato, senza rispondere.
— Perchè non mi denuncia il colpevole? — ripetè la maestra.
— Eh, cara signora — rispose francamente l’operaio — per non buscarmi una coltellata.
La maestra fece un atto di ribrezzo.
— Ma non può essere stato che un ragazzo! — disse.
— Giusto — rispose l’altro — quelli sono peggio dei grandi.
La maestra non disse più nulla, e il Perotti se n’andò col capo basso.