La lettera smarrita
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LA LETTERA SMARRITA
STORIA VERA
raccontata dal sagrestano della chiesa di...
E così, voi volete ch’io vi narri ancora qualcosa su mio nonno? Sia pure. Perchè rifiutarvi lo svago di una storiella? Ah, il buon tempo antico! Il buon tempo antico! Che gioia, che delirio invade il cuore a sentir raccontare qualcosa di quel che avveniva nel mondo al tempo de’ tempi, al tempo tanto lontano ch’è impossibile dirne l’anno e il mese! E se poi si tratti d’un parente, nonno o avo che sia, cantando la gloria a Santa Barbara Martire, se non mi pare che il fatto sia avvenuto proprio a me stesso e ch’io sia entrato addirittura nella pelle di mio nonno o che sia l’anima sua a palpitarmi dentro....
No. E, quel ch’è peggio, eccoti le nostre ragazze, i nostri giovinotti, appena vengo loro avanti:
— Foma Grigorevic! Foma Grigorevic! Via, una fiaba paurosa, tanto paurosa, orsù via!
E ta ra ta ta ta, e questo e quello...
Certo, non mi costa molto raccontar loro qualcosa; ma se vedeste poi come diventano quando si mettono a letto... so di sicuro che ogni ragazza trema sotto le coperte come avesse la febbre, e sarebbe contenta se potesse tirarsi il tulupe sulla testa. Se un topo gratta un paiolo, o se la ragazza stessa fa con un moto del piede l’attizzatoio, oh, signore!... lei ne resta tutta agitata di spavento; ma la dimane, come se non fosse avvenuto un bel niente, torna a importunarvi di nuovo: raccontate una fiaba paurosa, e lei non cerca di meglio.
Orsù: cosa devo dunque raccontarvi adesso? Subito, non mi viene a mente. Ah, sì! Ora vi dirò come le streghe giocarono con mio nonno al durak1. Solo vi pregherei, signori, di non prevenirmi con domande, altrimenti verrà fuori un manicaretto farcito da non potersi gustare.
Devo dirvi che la buon’anima di mio nonno era molto più su de’ semplici cosacchi. Sapeva dove metter i segni di abbreviatura nella lingua slavona. Durante le feste, vi salmodiava le epistole con tanta rapidità, da dar de’ punti a un figlio di pope de’ nostri giorni. Eppure, come sapete, nei tempi andati, se avessero raccolti tutti i letterati della città di Baturina, non c’era bisogno di tendere un berretto per metterveli dentro; bastava il cavo della mano. Perciò, non è da far le meraviglie se tutti che incontravano il nonno gli s’inchinavano sino alla cintura.
Un giorno, il serenissimo etmano ebbe l’idea di mandare una lettera alla zariza. Lo scrivano del reggimento... (il diavolo se lo porti!) ne ho scordato il nome... Era Viskriak o no? Motuzoska o no? Golopuzek o no? Qualunque sia, so che il suo nome era molto difficile. Insomma, lo scrivano del reggimento chiamò mio nonno e gli disse che l’etmano lo incaricava di portar una lettera alla zariza.
Mio nonno non si curava di far lunghi preparativi. Cucì la lettera nel berretto, sellò il cavallo, abbracciò la moglie e, come lui li chiamava, i suoi due porchetti, uno de’ quali era mio padre, e via, sollevandosi dietro tanta polvere che meno ne avrebber levata quindici bravacci che avesser giocato di sbarra nel mezzo della strada.
La mattina appresso, il gallo non aveva cantato ancora per la quarta volta e già il nonno si trovava a Konotop. C’era lì, a quell’ora, una fiera, e tal moltitudine di gente ingombrava le vie da averne male agli occhi nel guardarla; ma siccome era prestissimo, tutta quella folla dormiva ancora stesa per terra. Vicino a una vacca, stava coricato un parobok buontempone dal naso vermiglio come un fringuello marino; più in là russava, seduta innanzi al suo spaccio, una mercantessa di pietre focaie, di turchine, di piombo da fucile e di babliki. Sotto una telega2 era sdraiato uno zingaro; sopra una carretta, carica di pesce, era steso un cumak3, e sulla strada maestra, a gambe aperte, restava accovacciato un moscovita barbuto con mucchi di cintole e di guanti a sacco. A dirla breve, v’era ogni sorta di gente, come appunto se ne trova nelle fiere.
Il nonno si fermò per guardarsi attorno. Le tende cominciavano a poco a poco ad animarsi; gli ebrei mettevano in fila i loro barattoli; il fumo saliva qua e là, a spirali, e l’odor delle cialde calde si spandeva per tutto l’accampamento.
Il nonno si avvide di non aver capecchio e tabacco, e si mise a cercarne per la fiera. Aveva fatto appena venti passi, che incontra un Zaporogo, un vero crapulone: bastava guardarlo per accorgersene.
Ampi calzoni rossi come fuoco, un caffettano azzurro, cintola scarlatta, sciabola a lato, pipa corta con catenella di rame penzoloni fino a’ piedi: in una parola, un vero Zaporogo. Un fior di giovinotto! E come si piantano, come si lisciano i bravi mustacchi con la mano, e come fanno risonare il ferro de’ calcagni e poi si mettono a ballare! Le loro gambe girano con la fretta con la quale giran le conocchie delle donne. Simile a turbine fanno schioccar tutte le corde delle loro bandure, poi, con le mani ai fianchi, si slanciano alla prisadka4 e intonano un canto da rapirvi l’anima... No; quel tempo è passato. Non si vedranno più mai Zaporoghi!
Mio nonno dunque incontrò uno di questi Zaporoghi. Da un motto all’altro, non ci volle gran tempo per diventare amici. Si misero a ciarlare, a ciarlare tanto, che il nonno dimenticò affatto il suo viaggio. E bevettero pur tanto, quanto a nozze prima della quaresima grande.
Alla fine si stancarono di romper cocci e di seminare spiccioli tra la folla; e poi, la stessa fiera non poteva durare eterna. I due novelli amici convennero allora di non lasciarsi e di far la strada insieme. La sera era già inoltrata quando si trovarono in aperta campagna. Il sole se ne andò a riposare lasciandosi dietro qua e là frappe rossastre. La campagna con le praterie screziate somigliava alle vesti di festa delle fanciulle dalle sopracciglie nere. Un terribile prurito di lingua prese il nostro Zaporogo; il nonno e un altro buontempone che si era unito con loro, pensavano già che avesse un diavolo in corpo. Dove andava a trovar lui tutte quelle storie e quelle fiabe stravaganti così che il nonno si teneva sulle costole stava per scoppiarne? Ma più si inoltravano e più cresceva il buio, mentre le ciarle del giovane perdevano brio. Alla fine, il narratore non fiatò più e cominciò a trasalire a ogni brusio.
— Ah! Ah! Compare! Vedo che ti metti sul serio a contare gli assioli. Tu pensi di scappar via a casa appena ti venga in taglio e saltar sulla stufa.
— Orsù; non voglio nascondervi la faccenda, — disse ad un tratto il Zaporogo volgendosi ai compagni e fissandoli negli occhi. — Sappiate che da un pezzo l’anima mia è venduta al Maligno.
— Oh, cosa fa codesto? Chi mai nella vita non ha avuto matassa da strigar cogli impuri? E appunto allora bisogna, come si dice, darsi bel tempo sino al più non posso.
— Eh, compagni; io farei baldoria volentieri; ma avviene che proprio questa notte scadono i termini. Ah, fratelli, — soggiunse, picchiando sulle loro mani, — venitemi a soccorso; non dormite stanotte; non scorderò il favore per tutta la vita, campi mille anni.
Come non venire in aiuto ad un uomo in sì grande sciagura? Il nonno dichiarò lì per lì che si sarebbe fatto mozzare le orecchie dalla testa prima di permettere che il diavolo annusasse un’anima cristiana col suo musaccio da cane.
I nostri cosacchi avrebber forse seguitata la via se la notte non avesse avvolto tutto il cielo come di un velo nero e se nei campi non ci fosse stato buio peggio che sotto un gabbano di pelle montonesca. Solo di lontano scintillava un fioco lume, e i cavalli, odorando prossima la stalla, affrettavano il passo a orecchio teso e con gli occhi intenti all’oscuro. Il fioco lumicino pareva venir da sè loro incontro; e davanti ai cosacchi apparve la casetta d’una taverna, china sul fianco come una donna reduce da un giocondo battesimo.
Di quel tempo, le taverne non erano come sono oggi. Un galantuomo non solo non aveva spazio per mettersi a bell’agio e di ballare il hopak, ma persino di coricarsi quando il vino gli gravava la testa e le gambe gli scherzavano all’andirivieni.
Tutto il cortile era ingombro di carretti da cumaki. Sotto le tettoie, nelle stalle, per il vestibolo, tutti russavano come gatti, l’uno accosciato, l’altro disteso. Solo il tavernaio faceva delle tacche a una stanghetta per segnare quanti boccali avevano vuotati le teste dei cumaki.
Mio nonno, dopo di aver ordinato un terzo di secchio di acquavite, per tre, si recò sotto la tettoia, dove lui coi compagni si allungarono l’uno accanto all’altro. Egli non aveva avuto il tempo di voltarsi, quando si accorse che i suoi compaesani dormivano sodo già, di un sonno di piombo. Svegliando il terzo cosacco che si era unito a loro durante la strada, il nonno gli ricordò la promessa data al compagno. Costui si sollevò, si tropicciò gli occhi e si addormentò di nuovo. Che fare, se non rassegnarsi a montar la guardia da solo?
Per bandire il sonno, il nonno andò guardando tutti i carretti ad accertarsi di quello che facevano i cavalli, accese la pipa, tornò e sedette di nuovo accanto ai compagni. Tutto era così calmo che si sarebbe udito il volar di una mosca. Ed ecco ad un tratto egli vede qualcosa di grigio mostrar le corna su a un carretto vicino; nello stesso tempo gli occhi cominciarono a umidirglisi così che egli dovette ad ogni momento stropicciarli col pugno e lavarli con l’acquavite che restava; ma appena gli occhi gli si schiarivano, tutto scompariva. Però, poco dopo, il mostro appariva di nuovo dietro la carretta. Mio nonno spalancò gli occhi per quanto potette, ma il maledetto sonno gli velava tutto dinanzi. Sentì rattrappir le braccia, la testa gli posò sul petto e fu invaso da un sonno tanto profondo, che cadde come corpo morto.
Il nonno dormì lungamente e solamente quando il sole aveva già riscaldato la sua casacca di pelliccia, egli si levò di un balzo sulle gambe. Dopo essersi stirato due buone volte e grattata la schiena, notò che le carrette eran meno di prima: i cumaki probabilmente eran partiti sull’alba. Guardò dalla parte dei compagni: il cosacco era lì, che dormiva tuttora; ma il zaporogo era scomparso; si mise a domandare alla gente, ma nessuno sapeva dir niente. Solo la svitka del zaporogo era rimasta là dov’egli s’era coricato.
Spaventato, il nonno riflettè un momento. Andò a vedere i cavalli, ma non trovò nè il suo nè quello del zaporogo. «Cosa poteva esser mai quella? Supponiamo: la forza maligna si è impadronita del zaporogo; ma chi ha preso i cavalli?».
Dopo aver pensato e ripensato a lungo, il nonno concluse ch’era venuto il diavolo, e, siccome di lì all’inferno c’era una gran galoppata da fare, gli aveva rapito il cavallo. Intanto, provava molta pena di non aver mantenuta la sua parola di cosacco.
— Ebbene — pensò — non c’è che fare. Andrò a piedi. Forse troverò sulla mia strada qualche cozzone di ritorno dalla fiera e potrò comperare da lui un cavallo.
Volle mettersi il berretto, ma anche il berretto era scomparso. Il nonno defunto si torse le mani per disperazione, ricordando che la sera avanti lo aveva scambiato con quello del zaporogo. Il rinnegato dunque aveva rubato anch’esso. Aveva un bel figurarsi oramai! E che bei regali dall’etmano!... si trovava proprio in piena corsa per recar la lettera alla zariza!... E allora il nonno prese a bestemmiare il diavolo con tanta foga, che giù, nel fondo dell’inferno, lui ne dovette starnutire parecchie volte5.
Ma le parole non metton gamba agli affari: il nonno ebbe un bel grattarsi la nuca; non trovò niente di niente. Che fare? ricorse allora alla intelligenza degli altri. Riunì tutta la buona gente che si trovava nella bettola, cumaki e altri passeggeieri, e raccontò la propria disgrazia. I cumaki restarono lungamente pensosi; col mento poggiato alle fruste, tentennarono il capo, e finirono col dire che essi non avevan mai sentito parlare in tutto il mondo cristiano neppur dell’ombra di una lettera di etmano rubata dal diavolo; altri aggiunsero qualmente se un diavolo o un moscovita rubano alcuna cosa, non c’era più speranza di sorta. Solo, il tavernaio se ne stava zitto, nel suo cantuccio. Il nonno si rivolse a lui: «Quando un uomo sta zitto è segno che ha molto da dire». Però il tavernaio non era molto prodigo di parole, e se mio nonno non avesse tratti di tasca cinque scudi, non gli avrebbe cavata sillaba di bocca.
— Ora t’insegnerò come potrai ritrovar la tua lettera — disse l’oste, tirando il nonno in disparte.
Il nonno si sentì come alleggerito d’un peso.
— Ti vedo già negli occhi che tu sei un cosacco e non una femmina; su via, ascolta. Qui, vicino vicino, una stradicciola gira a dritta nella foresta. Appena cadrà la sera per i campi, trovati pronto a metterti in cammino. Nella foresta vivono zingari che non escono mai dai loro rifugi se non per lavorare il ferro nelle ore della notte dove girano solo le streghe a cavallo de’ loro tizzoni. Qual’è, in fondo, la loro arte vera? Ciò non ti riguarda. Vi sarà molto strepito nella foresta; solo, tu non andar verso il luogo d’onde esso ti viene. Ti troverai dinanzi un sentierino che passa vicino ad un albero arso dal fulmine; prendi quel sentiero e cammina, cammina, cammina... I cespugli spinosi ti graffieranno; dense macchie d’avellani ti sbarreranno il passo; tu cammina sempre, e quando giungerai vicino a un ruscelletto, solo allora potrai fermarti e vedrai quel che vuoi. Nè dimenticar di metterti nelle tasche la cosa per la quale esse son fatte. «Tu capisci»: uomini o diavoli, tutti la vogliono...
Il mio defunto nonno non era un vile. Se gli avveniva di incontrarsi in un lupo, lo afferrava per la coda; quando coi pugni si apriva un varco fra i cosacchi, tutti gli stramazzavano intorno come pere. Tuttavia sentì scorrersi per la schiena un brivido quando entrò durante una notte così nera nella foresta. Non una stella in cielo. Era buio, deserto come in uno speco. Non si udiva che lassù, lassù, al di sopra della testa, il vento freddo stormir sulle cime degli alberi, e gli alberi, come tante teste di cosacchi briachi, vacillavano, simili a crapuloni, mormorando dal fogliame parole senza senso. Or proprio sul punto nel quale, sentendo già vivo il freddo, si pentiva di non aver preso con sè il pelliccione di agnello, ecco, d’un subito, la foresta gli appare chiarita come dall’aurora, e nell’un tempo un frastuono pari a quello di cento magli risuonò sì forte alle sue orecchie che credette averne la testa fracassata.
Il nonno scorse allora dinnanzi a sè un sentieruzzo che serpeggiava fra i cespugli; l’albero arso dalla folgore comparve anch’esso come gli arbusti spinosi. Ogni cosa era là, appunto come gli avevan detto. No; il taverniere non lo aveva ingannato. Ma non era poi tanto facile e piacevole l’aprirsi un varco traverso le prunaie. Mai, in tutta la vita, aveva egli visto spine e ramaglie graffiar così spietate; quasi a ogni passo, egli soffocava un grido. Non di meno, a poco a poco, usci da quell’angustia, e giunse in luogo più aperto, a quanto potè vedere, gli alberi diventavan più radi bensì, ma in pari tempo così enormi da non averne mai incontrati di simiglianti neppur dall’altra banda della Polonia.
A un tratto, di mezzo agli alberi, apparve il ruscello dai riflessi d’acciaio d’un nero bluastro. Il nonno restò a lungo sulla riva, guardando d’ogni parte. Sulla riva opposta brillava un fuoco, il quale ora pareva spegnersi, or ravvivarsi, facendo lampeggiar la fiamma nel ruscello che tremava là sotto come un polacco sotto la presa d’un cosacco.
Alla fine, comparve il ponticello: Ah, si canzona? Lì sopra, ti dico io, non poteva passare che la carrozza del diavolo.
Eppure, mio nonno mise piede coraggiosamente sul ponticello e in meno che un metta a levar una presetta dalla tabacchiera e portarsela al naso, era già sull’altra sponda. Allora soltanto poté scorgere distintamente che intorno al fuoco si trovavan uomini da’ grugni così attraenti, che in ogni altro caso avrebbe dato Dio sa cosa per non far loro conoscenza. Ma in quel momento non ci era da dar indietro; bisognava attaccar discorso.
Mio nonno saluto chinandosi quasi fino alla cintola, e disse:
— Dio sia con voi, buona gente.
Non uno rispose, neppur con un cenno del capo. Sempre muti, essi versaron qualcosa sul fuoco. Vedendo un posto vuoto, mio nonno l’occupò senza tante cerimonie. Restarono così un bel pezzo senza profferir parola. Il nonno cominciava già ad annoiarsi. Si mise a frugar nella tasca, traendone la pipa, e tranquillamente esaminò le facce de’ compagni. Nessuno gli badava.
— Vorreste esser tanto cortesi?... Come dire?... da... (il nonno conosceva la creanza e sapeva trovar la frase giusta: anche al cospetto dello stesso zar non si sarebbe perso di mente) da... accomodarmi e da non recarvi offesa. Ho tabacco a iosa, ho la pipa, ma niente per accendere.
E niente neppure fu ancora risposto a quelle parole. Solo un gruppo gli cacciò un tizzo sul viso in tal guisa, che se il nonno non avesse scostata la testa, avrebbe dovuto dire addio per sempre a un occhio.
Vedendo alla fine che perdeva inutilmente il suo tempo, risolse, l’ascoltasse o no quella genìa d’impuri, a narrar il fatto suo. Allora quei gruppi tesero le orecchie e sporsero le zampe. Mio nonno comprese: raccogliendo in una sola manciata tutto il denaro che aveva indosso, lo gettò nel mezzo della cerchia, come a’ cani. Appena gittato il denaro, tutto gli girò dinanzi; tremò la terra, e, come mai avvenisse lui non ha saputo mai spiegare, eccolo cadere giù, giù fino all’inferno.
Or quali mostri non vide? Non vide che musi, musi, musi, come suol dirsi. V’eran là tante streghe quanti fiocchi di neve scendon di Natale, tutte adorne e impiastricciate; parevano ragazze alla fiera; e tutte quante ve n’erano ballavano come inebriate non so che sarabanda del diavolo, sollevando turbini di polvere. Un cristiano avrebbe inorridito solo a veder quei salti!
Mio nonno, con tutta la paura che aveva in corpo, non potè trattenersi dal ridere nel vedere in qual guisa i diavoli con quei musi da cani, con le lunghe gambe da tedeschi, la coda penzoloni, giravano intorno alle streghe, come giovinetti intorno alle fanciulle, mentre i musicanti, battendosi le guancie coi pugni, come su tamburelli baschi, facevan fischiare i loro nasi a mo’ de’ flauti.
Appena scorsero il nonno, tutti in folla gli si precipitarono contro. Musi di porci, di cani, di becchi, di ottarde, di cavalli, tutti tendevano il collo e tentavan di baciarlo. Il nonno ne provò tanta nausea, che crasciò per terra. Alla fine, lo afferrarono e lo fecero sedere innanzi a una tavola così lunga che andrebbe benissimo da Konotop a Baturina.
— Via! La non va poi tanto male, finora! — pensò il nonno, vedendo, sulla tavola, del maiale, delle salsicce e cipolle e cavoli trinciati insieme e molte altre leccornie. — Si vede che quel crapulone del diavolo non osserva la quaresima punto.
Devo dirvi che mio nonno coglieva sempre l’occasione, quando poteva, di metter sempre qualcosa sotto i denti; il defunto aveva buon appetito; onde, senza perder tempo, si tirò innanzi il piatto ove eran lardo e prosciutto, prese una forchetta quasi grande come quella che serve al villano pel fieno, infilò il pezzo più grosso, si poggiò con la mano una bella crosta di pane sotto il mento, e, mentre faceva l’atto di ingoiare il boccone, lo mandò, contro sua voglia, in altra bocca, e là, proprio vicino all’orecchio, sentì masticare un muso, e lo stritolar delle mascelle giungeva a’ due estremi della tavola.
Mio nonno non fiatò; infilò un altro pezzo; e l’aveva già sulle labbra quando di nuovo il boccone andò in gola ad un altro. Fu così del terzo. Allora il nonno montò in furore. Scordando la paura e fra quali artigli si trovava, irruppe minaccioso contro le streghe:
— Orsù! genia di Erode! credete dunque di potervi sempre pigliar giuoco di me? Se non mi recate qui su due piedi il beretto di cosacco, io diventi cattolico se non vi rovescio il grugno alla nuca...
Aveva appena finito di dir queste parole, quando tutti quei mostri digrignarono i denti e dettero in tal scoppio di risa che il nonno sentì gelarsi il cuore.
— Siamo intesi — miagolò una delle streghe, che mio nonno credette la presidentessa, giacchè il suo muso era più brutto di quel delle altre: — noi ti renderemo il berretto... solo quando però tu avrai giuocato con noi tre partite in fila di durak.
Che fare? Un cosacco giuocare al durak con le femmine? Mio nonno si schermì sulle prime, ma poi dovette cedere. Portarono carte unte e bisunte più di quelle che la figlia del pope usa nel divinar chi le sarà promesso.
— Ascolta ora — abbaiò la seconda volta la strega: — se tu vinci almeno una volta sola, il berretto è tuo; ma se perdi, se resti durak le tre volte, non devi prendertela con noi; non solo non rivedrai mai più il berretto, ma forse mai più anche il mondo.
— Dà pure le carte, strega: avvenga che può.
Furon date le carte; mio nonno prese le sue fra mano, ma non valeva la pena neppur di guardarle; ce ne fosse stata, almeno per burla, una sola buona! Tutti colori da scarto, fra cui il dieci, che era il più forte; non una figura; mentre la strega gettava sempre carte maggiori. Mio nonno dovette restare durak; e appena compiuta la prima partita, eccoli d’ogni parte i musi mettersi ad abbaiare, a guaiolare, a nitrire, a grugnire: durak, durak, durak. Vi scoppi la pelle, razza di dannati! esclamò il nonno turandosi le orecchie.
Via, — pensò, — la strega ha barato nel dar le carte; ora tocca a me.
Le dette, volse la carta da presa; guardò il suo giuoco che era buono; vi eran anche delle maggiori. Sulle prime si andò di bene in meglio; ma la strega gettò cinque carte, fra cui dei re. Il nonno non aveva in mano fortunatamente che carte maggiori; e senza badarci su più che tanto, strisciò con esse i mustacchi dei re.
— Ah, ah! codesto non è un giuocar da cosacco! Con che cosa copri tu le mie carte, compare?
— Come, con che? Con carte maggiori!
— Forse da voi son maggiori, ma non da noi.
Mio nonno guardava, e davvero, i suoi son colori comuni. — Che truffaldina! — Dovette restare per la seconda volta durak e godersi di nuovo le strida degli impuri, che gridavano a squarciagola:
— Durak! durak! durak!
Ne tremava la tavola e balzavano le carte.
Il nonno si scaldava sempre più. Dette partita per la terza volta. Come dianzi, la briga andò sulle prime d’incanto. La strega gettò cinque carte; mio nonno le coperse, e prese dal mazzo tutta una mano di maggiori.
— Maggiori — gridò il nonno picchiando con la carta sulla tavola, quasi al punto di rovesciarla. La strega senza far motto, la coperse con un semplice otto.
— Or con che copri tu, vecchia diavolessa?
La strega sollevò la carta ed egli vide che la sua carta era un semplice sei.
— Oh ve’! che batteria d’inferno! — disse mio nonno, e per dispetto battè il pugno sulla tavola con tutte le sue forze.
Fortunatamente la strega aveva solo carte dispari, mentre il nonno le aveva pari. Egli le gettò, e prese di nuovo altre carte dal mazzo; ma tutte eran tanto cattive che gli caddero le braccia; e quel che è peggio, esse erano le ultime. In atto indifferente, lui lasciò cader sulla tavola un semplice sei. La strega lo raccolse.
— Ah, che vuol dire codesto? gatta ci cova.
Allora il nonno mise furtivamente le carte sotto la tavola e le segnò col segno della croce. D’un tratto ecco si vide fra la mano l’asso, il re, il valletto maggiore; ciò che egli aveva preso per sei era la donna di picche.
— Ah, sciocco che io m’era! e il re, lo vuoi? ah, ah! lo raccogli.
— Ah, ah! fior di canaglia, l’asso lo vuoi, lo vuoi l’asso e il valletto?
Il tuono echeggiò nell’inferno. La strega si contorceva in convulsioni, e non si sa donde, paf! il berretto piomba in faccia al nonno.
— No; ciò non mi basta ancora! — gridò il nonno che aveva ripreso animo e s’era rimesso il berretto in testa; — se, immediatamente, non mi appare davanti il mio buon cavallo, il fulmine mi stenda d’un colpo su questa terra impura, ov’io non vi schiaffeggi tutti con la croce.
E già stava per levar il braccio, quando d’improvviso gli crocchiò dinanzi lo scheletro del suo cavallo.
— Ecco il tuo cavallo.
Il poveretto pianse come un fanciullo guardando quello scheletro rimpiangendo il forte compagno.
— Datemi allora un altro cavallo per uscire da quest’antro.
Il diavolo fece schioccar la frusta; un cavallo di fuoco comparve sotto il nonno e lo trasse via come un uccello verso le nuvole. Intanto egli fu colto da spavento a metà strada, quando il cavallo, sordo alle sue grida, non obbedendo alle briglie volò sopra abissi e paludi. Che contrada non vide egli mai? Tremavano solo a sentirlo raccontare. Quando osava di guardarsi sotto ai piedi, vedeva uno sprofondo a picco, mentre quella bestia satanica, senza punto badarvi, vi starnazzava su di filato. Mio nonno si sforzava ad ogni modo di tenersi saldo; ma ci fu un momento nel quale venne meno e fu precipitato in un baratro, battendo il corpo così forte a terra che egli credeva già di rendere l’anima, o, almeno, non ebbe più alcun sentimento di quel che avvenisse; ma quando tornò in sè e si guardò intorno, già spuntava il giorno ed egli riconobbe i luoghi che gli eran famigliari: era steso sul letto della propria khata.
Discese e si segnò.
— Che stregoneria! Che strane venture posson capitare agli uomini!
Si guardò le mani: erano insanguinate; chinò la faccia sopra un tino d’acqua, e pur la faccia era insanguinata.
Dopo essersi lavato a dovere per non metter paura ai suoi, entrò pian piano nella khata e vide i figliuoli camminare a ritroso e mostrarsi a dito la mamma, dicendo:
— Ve’, ve’, la mamma che salta come una pazza.
E davvero, la moglie stava seduta, dormente, innanzi al filatoio con la conocchia fra mano, e nel sonno trasaliva dal banco.
Mio nonno la prese dolcemente per mano e la destò.
— Buon dì, donna, stai bene?
Costei, cogli occhi spalancati, guardò a lungo trasognata; alla fine, ravvisando il marito, gli raccontò che in sogno lei vedeva la stufa camminar per la khata, cantando con la pala, i paioli, i mastelli e altre diavolerie.
— Via, disse il nonno: — le diavolerie tu non le hai viste che in sogno, mentre io le ho viste per davvero. Credo che bisogna addirittura far esorcizzare la khata. Intanto, io non ho neppure un minuto da perdere.
Dopo un buon riposo, il nonno inforcò un cavallo, e questa volta, senza fermarsi nè giorno nè notte, giunse alla méta e consegnò la lettera alla zariza.
A Pietroburgo il nonno vide tante meraviglie che non la finiva più nel raccontarle; come qualmente lo condussero in un palazzo così alto che se si fossero messe dieci khate, l’una sull’altra, allora... no, neppure allora sarebbero giunte a quell’altezza; come passò per una stanza e non vi trovò nessuno; un’altra, nessuno, una terza... nessuno; nessuno neanche nella quarta, e solo nella quinta guardò e vide lei, proprio lei seduta con la corona d’oro in un svitka grigia nuova, con stivali rossi, che mangiava galuski d’oro; come lei comandò gli riempissero zeppo di biglietti azzurri da cinque rubli; come... ma chi può ricordarsi di tutto?
Circa le brighe del diavolo, il nonno dimenticò finanche di pensarvi; e se avveniva che qualcuno gliele rammentasse, egli restava muto come se si trattasse di lui; e si durava fatica per indurlo a raccontare com’era andata l’avventura.
Or per punirlo forse del non aver fatto, come aveva promesso, esorcizzare la casa, proprio nell’anniversario dell’avventura stessa, ogni anno, accadeva alla moglie il fatto stravagante di ballare non volendo. Non c’era per lei via d’impedirlo. In qualunque cosa stesse intenta, ella cominciava a sgambettare, e, Dio mi perdoni, arrivava sino alle capriole più... bizzarre.
Note
- ↑ Giuoco di carte, nel quale chi perde resta durak, cioè imbecille.
- ↑ Carretta.
- ↑ Vetturino.
- ↑ Ballo, durante il quale i danzatori si accoccolano e curvano rapidamente or l’uno or l’altro piede; il che è molto difficile.
- ↑ Frase russa che corrisponde, alla nostra: zufolare o tintinnare le orecchie; anche, corneamento.