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CLXVI. — A tanto dice lo conto, che quando l’Amorat intese le parole di monsignor Lancialotto, disse: «Per mia fé, Lancialotto, io vi so dire che monsignor T. è lo migliore cavaliere, a cu’ io unqua m’abattesse e con cu’ io unqua combattesse, ned io non credo che sia al mondo neuno cavaliere che co lui potesse durare, che al diretano egli non fosse morto da lui. Imperciò ch’egli sí è lo migliore feritore di spada ched io unqua vedesse; ned egli non ferirae alo primo assalto se non molte rade fiate, ma quando voi avrete menato lo terzo [p. 218 modifica] assalto, ed egli allora incomincierae a dare sí grandi colpi, che al mondo non ha neuno cavaliere, che co lui potesse durare. E quant’egli piú combatte, tanto dae maggiori colpi; ned io non credo che al mondo sia neuno cavaliere, che a lui potesse durare, se non voi solamente. Ed io voglio che voi sappiate ch’egli è tanto cortesisimo, che voi vi ne maravigliereste della sua cortesia». Ma quando monsignor Lancialotto intese queste parole, fue tanto allegro che neuno altro piú di lui. E disse: «Per mia fé, io vorrei imprima vedere monsignor T., che io non vorrei avere neuna altra cosa che sia al mondo. Ond’io vi piego, che se voi vedete monsignor T. che sí lo dobiate salutare mille fiate dala mia parte, e ditegli ched io sí abo troppo grande volontade di vedere lui». E quando l’Amoratto intese queste parole, sí rispuose e disse: «Certo, monsignor Lancialotto, questo farò io volontieri». E a tanto sí si domandarono congedo l’uno dall’altro, e incominciarono a cavalcare ciascheduno per suo cammino. Ma ora vi lascio lo conto di parlare di monsegnor Lancialotto e torno al’Amorat, imperciò che bene lo saperemo trovare, quando luogo e tempo sarae.