La guerra nelle montagne/Podgora
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II.
Podgora
«Per un po’ di tempo, abbiamo finito con le pietre», disse l’ufficiale — «ora andiamo ad una montagna di fango. Adesso è asciutta e ferma; ma quest’inverno non stava mai tranquilla».
Un tratto di strada, che si arrampicava sulla montagna, rimaneva ancora incerto ed era scivolato, ripiegandosi su di un lato, in un’amalgama di terriccio e di radici d’alberi, che alcuni soldati stavano portando via a palate.
«Questa è una strada di costruzione piuttosto recente; in complesso noi abbiamo tracciato circa quattromila miglia di nuove strade — oltre ad aver migliorato le vecchie — sopra un fronte di seicento chilometri. Ma, come vedete, i nostri chilometri non sono piani».
Il paesaggio, svolgentesi in tutti i toni verdi della primavera, era quello delle primitive pitture sacre italiane — con le medesime colline isolate, fatte a scarpata, che si ergono da praterie smaltate o da cumuli fioriti; con le stesse cornici frastagliate della roccia, coronate da un campanile o ornate, in cima, da scuro fogliame. Sulle bianche strade sotto di noi le file di automobili e di carriaggi, tirati da muli, si allungavano con velocità uniforme, procedendo verso i vari depositi.
Ad un certo punto ne vedemmo passare per una lunghezza di almeno venti miglia: tutti procedevano regolarmente e nessuno, come potemmo constatare, ebbe ad arrestarsi per guasti. Il sistema italiano di locomozione è stato perfezionato dalla guerra.
Più la strada digradava verso la pianura e più si aveva l’idea dell’altezza delle montagne che ci dominavano tutto all’intorno. Podgora, la montagna di fango, è una piccola Gibilterra, di circa ottocento piedi di altezza, posta quasi a picco da un lato e dominante la città di Gorizia, la quale, in tempo di pace, era un specie di afosa Cheltenham per ufficiali austriaci in ritiro. In qualunque altro paese il monte di Podgora sarebbe un punto assai notevole ma voi potreste poggiare anche una mezza dozzina di Gibilterre qui, tra queste balze di monti, e già in un mese le percorrerebbero piane strade italiane, come viticci che si arrampicano sui cumuli di macerie.
I veri padroni della situazione militare intorno a Gorizia sono i monti di quattro e di cinquemila piedi, ammassati uno dietro l’altro, ciascun angolo più remoto dei quali, ciascun altipiano, e ciascuna vallata presenta o nasconde la morte.
Le montagne sono località assai difficili per incursioni di aeroplani, poichè non v’ha luogo ove si possa atterrare con sicurezza, ciò nonostante, i velivoli si accaniscono su di esse, da ogni lato, ed i cannoni antiaerei, che non producono grande impressione sulle pianure aperte, riempiono le gole delle montagne con i loro colpi di tosse, moltiplicati all’infinito, che rassomigliano più al ruggito del leone che al rombo del tuono. Il nemico vola alto sui monti e i velivoli appariscono netti, sullo sfondo azzurro del ciclo, come ceneri di un fuoco campestre turbinanti in aria. Il nemico fa cadere le sue bombe abbondantemente, il resto lo compie poi il destino, sia che risuonino numerosi scrosci sull’arida roccia, o innocui stridii di pietra spaccata, o sia piuttosto che si oda uno sconquasso enorme: e allora è la volta che materiale, uomini e muli sono stati colpiti in pieno.
Se tutto l’ambiente non fosse così simpatico: se alle luci, al fogliame, alla fioritura e alle farfalle accoppiantesi sui cigli verdeggianti di vecchie trincee non fosse lecito — direi quasi — di insultare i lavoratori viventi della morte, le loro opere si potrebbero descrivere più facilmente e senza digressioni.
Quando ci fummo arrampicati sempre più in su per la montagna di fango, giungendo quasi entro le sue stesse viscere, attraverso gallerie ed incroci di gallerie, fino ad un posto di osservazione discretamente nascosto, Gorizia rosea, bianca e turchina ci apparve, quasi addormentata, sotto di noi, in mezzo al verde dei suoi castagni, presso l’Isonzo mormorante. Essa era in mani italiane, guadagnata dopo furiose battaglie; ma i cannoni nemici potevano ancora bombardarla a piacere dalle montagne. «E la nostra prossima mossa — disse l’ufficiale — consisterà appunto nello spazzare alcune di quelle alture. Potete voi distinguere le nostre trincee strisciare in su, fin verso gli Austriaci, minacciandoli? In quel punto ed in quell’altro — egli additò — le nostre truppe dovranno arrampicarsi e trascinarsi; mentre in questo modo ed in quest’altro, il fuoco dei nostri cannoni le proteggerà, fino a che esse non saranno giunte a quella duna brulla. Di là esse dovranno slanciarsi da sole e tale slancio non può farsi che con l’arrampicarsi. Se lo slancio fallisse, esse dovranno scovarsi dai ripari fra le roccie e nascondersi dietro l’ampia linea del ciclo. Poichè tale è la guerra fra le montagne, dove le vallate sono trappole mortali e ciò che conta è la sola altezza».
Allora ci volgemmo ai monti conquistati, che erano dietro di noi. Questi avevano vissuto assai oscuratamente fin da quanto erano stati creati; ma da ora in poi, a causa del caro prezzo pagato per il loro riscatto, resteranno memorandi fino a quando il nome d’Italia vivrà nella storia. Altre montagne pagane, di fronte a noi, dovevano ancora essere battezzate e inscritte nell’albo d’onore; nessuno avrebbe potuto dire in quel momento quali di esse sarebbe stata la più gloriosa, o da quale aggruppamento di rustiche capanne là giacenti i pastori avrebbero tramandato, attraverso i secoli, il nome di una battaglia che dovrà avvenire e forse anco durare un mese.
La calma voluta, che è foriera di una grande avanzata, si addensava sulle due linee. Nessuno fiatava, eccezion fatta di alcuni pezzi di artiglieria, che recavano a compimento qualche loro lavoro particolare. Gli Austriaci, anch’essi, erano intenti ai loro ultimi ritocchi e stavano aggiustando il tiro contro un convento, inerpicato sul versante del monte; ciò che facevano metodicamente, sparando granata su granata. Un grosso pezzo sotto di noi entrò allora pigramente in giuoco dalla nostra parte, scuotendo tutta la montagna di fango, come avesse voluto interrogare il suo ufficiale osservatore al di là della valle.
Improvvisamente, in mezzo all’oscurità, si udì ai nostri piedi la voce di un giovane che aveva rilevato alcune correzioni di tiro; parlava, in gergo non ufficiale, entro il ricevitore del telefono.
«Oh! congratulazioni — disse — allora voi pranzerete con noi questa sera, e pagherete da bere».
Una risata generale accolse queste parole. «Sarà una passeggiata alquanto lunga» — disse il nostro ufficiale. — «L’ufficiale osservatore, che sta giù presso Gorizia, ha telefonato in questo momento che è stato promosso aspirante — sottotenente direste voi; — egli dovrà arrampicarsi fin qui stasera, alla mensa degli ufficiali di artiglieria, e dovrà pagar da bere in onore della sua promozione».
«Scometto che verrà», disse qualcuno. Ma nessuno accettò la scommessa. «Come vedete, la gioventù è sempre immutabilmente uguale».