La grande proletaria si è mossa
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GIOVANNI PASCOLI
LA·GRANDE·PROLETARIA
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DISCORSO TENUTO·A·BARGA “PER·I·NOSTRI·MORTI·E·FERITI„ |
SI·E’·MOSSA |
GIOVANNI PASCOLI
LA GRANDE PROLETARIA
SI È MOSSA...
DISCORSO
TENUTO A BARGA “PER I NOSTRI MORTI E FERITI„
SECONDA EDIZIONE
BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
Firenze - Roma - Milano - Pisa - R. Bemporad & F.
Napoli - Fratelli Treves
Torino - S. Lattes & C. — Palermo - Alberto Reber
La grande Proletaria si è mossa.
Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada.
Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava. Diceva Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos!
Erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, e si linciavano.
Lontani o vicini alla loro patria, alla patria nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare la nazione, a non essere più d’Italia.
Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Sì, come Dante, a dir Terra, come Colombo, a dir Avanti!, come Garibaldi.
Si diceva: — Dante? Ma voi siete un popolo d’analfabeti! Colombo? Ma la vostra è l’onorata società della camorra e della mano nera! Garibaldi? Ma il vostro esercito s’è fatto vincere e annientare da africani scalzi! Viva Menelik! —
I miracoli del nostro Risorgimento non erano più ricordati, o, appunto, ricordati come miracoli di fortuna e d’astuzia. Non erano più i vincitori di San Martino e di Calatafimi, gl’italiani: erano i vinti di Abba-Garima. Non avevano essi mai impugnato il fucile, puntata la lancia, rotata la sciabola: non sapevano maneggiare che il coltello.
Così queste opre tornavano in patria poveri come prima e peggio contenti di prima, o si perdevano oscuramente nei gorghi delle altre nazionalità.
Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto.
Là i lavoratori saranno, non l’opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; non dovranno, il nome della patria, a forza, abiurarlo, ma apriranno vie, coltiveranno terre, deriveranno acque, costruiranno case, faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall’immenso palpito del mare nostro il nostro tricolore.
E non saranno rifiutati, come merce avariata, al primo approdo; e non saranno espulsi, come masnadieri, alla prima loro protesta; e non saranno, al primo fallo d’un di loro, braccheggiati inseguiti accoppati tutti, come bestie feroci.
Veglieranno su loro le leggi alle quali diedero il loro voto. Vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà una continuazione della terra nativa, con frapposta la strada vicinale del mare. Troveranno, come in patria, ogni tratto le vestigia dei grandi antenati.
Anche là è Roma.
E Rumi saranno chiamati. Il che sia augurio buono e promessa certa. Sì: Romani. Sì: fare e soffrire da forti. E sopra tutto ai popoli che non usano se non la forza, imporre, come non si può fare altrimenti, mediante la guerra, la pace.
— Ma che? — Il mondo guarda attonito o nasconde sotto il ghigno beffardo la sua meraviglia. — La Nazione proletaria, la nostra fornitrice di braccia a prezzi ridotti, non aveva se non il piccone, la vanga e la carriola. Queste le sue arti, queste le armi sue: le armi, per lo meno, che sole sa maneggiare, oltre il coltello col quale partisce il pane e si fa ragione sulle risse. Si diceva bensì che era una potenza; e invero aveva avuto un cotal risveglio che ella chiama risorgimento. Qual risorgimento? Dalla vittoria d’un benefico popolo alleato aveva ottenuto Milano; da quella d’un altro, Venezia. In un momento che questi due alleati si battevano fieramente tra loro, ella aveva ghermito Roma. Così la nazione era risorta. E risorta, volendo dar prova di sè, era stata vinta da popoli neri e semineri. E ora... —
Ecco quel che è accaduto or ora e accade ora.
Ora l’Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all’umanamento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno coi secoli augusti delle sue due Istorie, di non esser da meno nella sua terza Èra di quel che fosse nelle due prime; si è presentata possente e serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare per terra e per cielo.
Nessun’altra nazione, delle più ricche, delle più grandi, è mai riuscita a compiere un simile sforzo. Che dico sforzo? Tutto è sembrato così agevole, senza urto e senza attrito di sorta! Una lunghissima costa era in pochi giorni, nei suoi punti principali, saldamente occupata. Due eserciti vi campeggiano in armi. O Tripoli, o Beronike, o Leptis Magna (non hanno diritto di porre il nome quelli che hanno disertato o distrutta la casa!), voi rivedete, dopo tanti secoli, i coloni dorici e le legioni romane!
Guardate in alto: vi sono anche le aquile!
Un altro popolo ai nostri giorni si rivelò a un tratto così. Dopo non molti anni che si veniva trasformando in silenzio, eccolo mettere per primo in azione tutte le moderne invenzioni e scoperte, le immense navi, i mostruosi cannoni, le mine e i siluri, la breve vanga delle trincee, e il tuo invisibile spirito, o Guglielmo Marconi, che scrive coi guizzi del fulmine; tutti i portati della nuova scienza e tutto il suo antico eroismo; e coi suoi soldatini...
O non sono chiamati soldatini anche i classiarii e i legionari d’Italia? Non ha l’Italia nuova in questa sua prima grande guerra messo in opera tutti gli ardimenti scientifici e tutta la sua antica storia? Non ha per prima battuto le ali e piovuto la morte sugli accampamenti nemici? Non ha, a non grande distanza dal promontorio Pulcro, rinnovato gli sbarchi di Roma? Non si è già trincerata inespugnabilmente, secondo l’arte militare dei progenitori, con fossa e vallo; per avanzare poi sicura e irresistibile?
Eccoli là, e sono pur sempre quelli e attendono al medesimo lavoro, i lavoratori che il mondo prendeva e prende a opra. Eccoli con la vanga in mano, eccoli a picchiar col piccone e con la scure, i terrazzieri e braccianti per tutto cercati e per tutto spregiati. Con la vanga scavano fosse e alzano terrapieni, al solito. Coi picconi, al solito, demoliscono vecchie muraglie, e con le scuri abbattono, al solito, grandi selve.
Ma non sono le solite strade, che fanno per altrui: essi aprono la via alla marcia trionfale e redentrice d’Italia.
Fanno una trincea di guerra, sgombrano lo spazio alle artiglierie. Stanno lì sotto i rovesci d’acqua, sotto le piogge di fuoco; e cantano. La gaia canzone d’amore e ventura è spesso l’inno funebre che cantano a sè stessi, gli eroi ventenni. Che dico eroi? Proletari, lavoratori, contadini.
Il popolo che l’Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo appello, al suo invito, al suo comando, è là. O cinquant’anni del miracolo! I contadini che spesso furono riluttanti e ripugnanti, i contadini che anche lontani dal Lombardo-Veneto chiamavano loro imperatore l’imperatore d’Austria, e ciò quando l’imperio di Roma era nelle mani del dittatore ultimo, i contadini che Garibaldi non trovò mai nelle sue file.... vedeteli!
È l’ora dell’insidia e del tradimento. La trincea è in qualche punto sorpassata. I nostri sono fucilati al petto e pugnalati a tergo. Sopraggiunge al galoppo vertiginoso una batteria appena appena sbarcata. La rivoltella in pugno, gli occhi schizzanti fuoco, anelanti sui cavalli sferzati e spronati a sangue, vengono... i contadini italiani. In tre minuti i cavalli sono staccati, gli affusti tolti, i cannoni appostati; e la tempesta di ferro e fuoco tuona formidabilmente.
Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cinquant’anni fa l’Italia non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di sè, non aveva ricordo del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell’avvenire. In cinquant’anni è parso che altro non si facesse se non errori e anche delitti; non si cominciasse se non a far sempre male e non si finisse se non col non far mai nulla. La critica era feroce e interminabile e insaziabile. Era forse un desiderio impaziente che la animava.
Ebbene in cinquant’anni l’Italia aveva rifoggiato saldamente, duramente, immortalmente, il suo destino.
Chi vuol conoscere quale ora ella è, guardi la sua armata e il suo esercito. Li guardi ora in azione. Terra, mare e cielo, alpi e pianura, penisola e isole, settentrione e mezzogiorno, vi sono perfettamente fusi. Il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l’alto granatiere lombardo s’affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri (chi vorrà assegnare ai bersaglieri, fiore della gioventù panitalica, una particolare origine?), gli artiglieri della nostra madre terra piemontese dividono i rischi e le guardie coi marinai di Genova e di Venezia, di Napoli e d’Ancona, di Livorno, di Viareggio, di Bari. Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici della loro luminosa ferita: voi avrete agio di ricordare e ripassare la geografia di questa che appunto era tempo fa, una espressione geografica.
E vi sono le classi e le categorie anche là: ma la lotta non v’è o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore. A questo modo là il popolo lotta con la nobiltà e con la borghesia. Così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca.
Non si chiami, questa, retorica. Invero nè là esistono classi nè qua. Ciò che perennemente e continuamente si muta, non è. La classe che non è per un minuto solo composta dei medesimi elementi, la classe in cui, con eterna vicenda, si può entrare e se ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un’altra classe. Qual lotta dunque può essere che non sia contro sè stessa?
E lottiamo, dunque, bensì; ma sia la nostra lotta come quella che si vede là, della nostra Patria, per così dire, scelta, della nostra Patria, che vorrei dire in piccolo, se non dovessi aggiungere: no: in grande! Lotta d’emulazione tra fratelli, ufficiali o soldati, a chi più ami la madre comune, che ne li rimerita con uguali gradi, premi, onori, e li avvolge morti nello stesso tricolore.
O voi che siete la più grande, la più bella, la più benefica scuola che abbia avuta nel cinquantennio l’Italia, armata ed esercito nostri!
Dicono che in codesta scuola s’insegna a oziare! E no: s’insegna a vigilar sempre. S’insegna a godere! E no: s’insegna a patire. S’insegna a essere crudeli! A ogni incendio, a ogni inondazione, a ogni terremoto, a ogni peste, accorrono questi crudeli a fare da pompieri, da navicellai, da suore di carità, da governanti, da infermieri, da becchini. S’insegna a uccidere! S’insegna a morire.
Questa è la scuola che, oltre aver distribuito tanto alfabeto, ci ammaestra esemplarmente nell’umano esercizio del diritto e nell’eroico adempimento del dovere. Essa risponde ora a quelli che confondono l’aspirazione alla pace con la rassegnazione alla barbarie e alla servitù.
— Noi — dicono quei nostri maestri — che siamo l’Italia in armi, l’Italia al rischio, l’Italia in guerra, combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro non è quello dei Turchi. La nostra è dunque, checchè appaiono i nostri atti singoli di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per sè e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti, case, all’intera collettività che ne abbisogna. A questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.
Così risponde l’Italia guerreggiante ai fautori dei pacifici Turchi e della loro benefica scimitarra; degli umani Beduini-Arabi che non usano violare e mutilare soltanto cadaveri; degli industriosi razziatori di negri e mercanti di schiavi.
Così risponde con un fatto di eroica e materna pietà, che ha virtù di simbolo. Il bersagliere, di quelli fulminati di fronte e pugnalati alle spalle, raccoglie di tra i cadaveri una bambina araba: la tiene con se nella trincea, la nutre, la copre, l’assicura. Tuonano le artiglierie. Sono il canto della cuna. Passano rombando le granate. La bambina è ben riparata, e le crede, chi sa? balocchi fragorosi e luminosi. Ella è salva: crescerà italiana, la figlia della guerra. O non è ella la barbarie, non decadente e turpe, ma vergine e selvaggia; la barbarie nuda famelica abbandonata? E colui che la salva e la nutre e la veste non è l’esercito nostro che ha l’armi micidiali e il cuore pio, che reca costretto la morte e non vorrebbe portar che la vita?
O esercito calunniato! Eppur tra lo sdegno e lo schifo, nel leggere le diffamazioni dei giornali stranieri, noi abbiamo sorriso! Chi non ha visto qualche volta i nostri bei ragazzi armati dividere la gamella e il pan di munizione con qualche vecchio povero? Chi non ha visto qualche volta uno dei nostri cari fanciulloni soldati con un bambino in collo? Chi non li ha visti accorrere a tutte le sventure, prestarsi a tutte le fatiche, affrontare tutti i pericoli per gli altri? Ora ecco che in pochi giorni sono divenuti masnadieri...
Sì: noi sorrideremmo se l’accusa, per quanto assurda, ma immonda, non toccasse ciò che abbiamo di più caro e di più sacro. Hanno detto, rivolgendosi al tuo esercito, turpi parole contro te, o pura o santa madre nostra Italia! Per quanto elle non giungano all’orlo della tua veste, noi non possiamo perdonare, o madre d’ogni umanità, o madre tanto forte quanto pia!
Noi ce ne ricorderemo. Ricorderemo che voi, o stranieri, avete voluto prestare i fermenti di barbarie che forse ancora brulicano nel vostro cuore, al popolo che con San Francesco rese più umano, se è lecito dirlo, persino Gesù Nazareno; che coi suoi soavi artisti fece dell’inaccessibile cielo una buona tiepida raccolta casa terrena piena d’amore; che col Beccaria abolì la tortura; che, quasi solo nel mondo, non ha più la pena di morte; che in Garibaldi ebbe un portentoso guerriero che odiava la guerra e preferiva la vanga alla spada e piangeva sul nemico vinto e sceso dal trono e perdonava al suo tortòre e non faceva distruggere un campo di grano, dove i nemici potevano nascondersi, perchè il grano era quasi maturo e vicino a divenir pane.
O santi martiri nostri, o Pellico e Oroboni, o Tazzoli e Tito Speri, che vi faceste del duro carcere sotterraneo un tempio, e del patibolo un altare!
Ma noi sappiamo da che furono mosse le inique accuse. Da questo: l’esempio che aveva a restar unico, del Giappone, si era, dopo poco tempo rinnovato. Le opre del mondo erano, a suo tempo e luogo, soldatini formidabili. La grande Proletaria delle nazioni (laboriosa e popolosa questa dell’occidente appunto come quell’altra dell’oriente estremo) scendeva in campo, si mostrava, per mare per terra e per cielo, potenza tanto più forte quanto più semplice, più lavoratrice, più avvezza a soffrire che a godere, più consapevole del suo diritto conculcato, più ispirata dal sublime pensiero che ella, pur mo’ redenta, doveva a sua volta divenir redentrice.
Così l’Italia si è affermata e confermata. Ora è incrollabile. Può (perdonate la bestemmia; chè in verità ella non può!) essere ricacciata al mare, essere costretta ad abbandonare l’impresa, essere invasa, corsa, calpestata, divisa e assoggettata ancora: ella è e resterà. Non può morir più una nazione in cui le madri raccomandano ai figli che partono per la guerra, di farsi onore, in cui tutti i bambini delle scuole rompono per i feriti il loro salvadanaio, in cui (udite: è cosa accaduta in un borghetto qui presso: ai Conti) il più povero mezzaiuolo dei dintorni, che ha un figlio nelle trincee di Tripoli, dà ai cercatori della Patria i suoi unici due soldi: l’obolo che la Patria ha riposto nel suo seno, vicino al suo gran cuore, come inestimabile tesoro1.
I nostri feriti non trascineranno per le vie le mutile membra e la vita impotente. No. Saranno quello che per la madre e per i fratelli è il figlio e fratello nato o fatto infelice. Saranno i careggiati, i meglio riguardati, i più amati. Essi ci ricorderanno la prima ora che abbiamo avuta, dopo tanti anni, di coscienza di noi, di gloria e vittoria, d’amore e concordia.
Non tenderanno la mano. La tenderemo noi a loro per averne una stretta che ci faccia bene al cuore. Non picchieranno alla porta. Le apriremo noi, a due battenti, le porte, per farli assidere al nostro focolare e alla nostra mensa, e udirne i semplici e magnifici racconti, e consacrare la nostra casa e i nostri figli a quella, che ci ispira ogni bene, ci tien lontani da ogni viltà, ci accompagna sempre, e non muta mai: alla Patria a cui quando si rende, e così volentieri, così giocondamente, così sorridenti, la vita che ci diede, ella, ella piange.
Benedetti voi, morti per la Patria! Riunitevi, eroi gentili, nomi eccelsi, umili nomi, ai vostri precursori meno avventurati di voi, perchè morirono per ciò che non esisteva ancora!
Voi l’Italia già grande ha raccolti nelle braccia possenti.
Qual festa vi faranno i morti vincitori di S. Martino e di Calatafimi! Il gigantesco Schiaffino, morto impugnando la bandiera dei Mille, come accoglierà i piccoli fucilieri dell’84º conquistatori della bandiera del Profeta! Ma non vi fermate troppo con loro; o bersaglieri di Homs coi bersaglieri di Palestro, o cavalleggeri di Tripoli coi cavalleggeri di Montebello. La vittoria rende felice anche i morti.
Andate a consolare i vinti! O Bianco, santa primizia della guerra, o Grazioli, o De Lutti, o marinai di Tripoli e Ben-Ghazi, consolate i morti di Lissa! O Bruchi, o Solaroli, o Granafei, o Faitini, o Flombert, o Orsi, o Bellini, o Silvatici, o trecento caduti in un’ora, consolate i morti di Custoza!
Oh! Non dimenticate i più dolorosi, e, se si può dire, anche più valorosi, morti di Amba Alage e Abba Garima. Sono, essi, gli ultimi martiri d’Italia: sono ancora sulla soglia. Abbracciate il maggior Toselli così degno di guidare un’avanzata audace su Ain-Zara! Baciate il maggior Galliano, così degno di difendere le trincee di Bu-Meliana e Sciara-Sciat2!
O capitano Pietro Verri che nel momento più periglioso guidasti al contrattacco, fuori delle Trincee, i mozzi di sedici e diciassette anni, i ragazzi del nostro mare, o sublime capitan Verri, tu va direttamente a Caprera, va a narrar la cosa a Giuseppe Garibaldi. Ripeterà esso a te il tuo appello: Garibaldini del mare! E ti ricorderà che egli aveva il suo battaglione di speranzini, ragazzi raccolti per le strade, i quali a Velletri, divini fanciulli, lo salvarono.
Benedetti, o morti per la Patria! Voi non sapete che cosa siete per noi e per la Storia! Non sapete che cosa vi debba l’Italia! L’Italia, cinquant’anni or sono, era fatta. Nel sacro cinquantennario voi avete provato, ciò che era voto de’ nostri grandi che non speravano si avesse da avverare in così breve tempo, voi avete provato che sono fatti anche gl’italiani.
Note
- ↑ [p. 29 modifica]Ricordiamo il nome di questo povero tra i poveri che dà alla Patria il suo fiorente figlio e il suo ultimo soldo. Si chiama Carlo Castelli. Il suo figlio, Giovanni, è nel 40º fucilieri, 7ª compagnia.
- ↑ [p. 29 modifica]Uno di quei meravigliosi Maggiori della Brigata Indigeni mi scrive queste parole che ogni italiano deve ora accogliere con rinnovato amore e dolore, e con un po’ di rimorso: «Felicitazioni; ed anche ringraziamenti, giacchè finora era quasi un demerito l’aver preso parte a quel titanico combattimento, ove in quattromila, per ore e ore, si tenne testa a centomila Abissini».