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cose di lingua 109

più volentieri col Torto e diritto del padre Bartoli e con Vincenzo Monti. Vedevo che di tutto quasi c’era esempio, e che la lingua non era un corpo morto che si potesse regolare con gli scrittori, come il latino. Nei casi dubbi davo una grandissima importanza all’uso vivo, e mi erano bene accette anche parole nuove non registrate nel vocabolario, ma sonanti nella bocca del massaio o del gastaldo. Né mi faceva orrore qualche parola o frase uscita dal dialetto; anzi mi pareva che i dialetti italici fossero per l’uomo di gusto fonte viva e fresca di buona lingua, specialmente per ciò che riguarda le frasi e le immagini e le figure. Il mio principio era che potesse entrare nella lingua comune quanto nei dialetti potesse esser capito e avesse una certa conformità di genio e di andamento con quella. La lingua comune era per me come l’aristocrazia, la quale sarebbe un corpo morto, ove non avesse la forza di assimilarsi e assorbire elementi di altre classi. — Quanto ai gallicismi, facciamo pur la guerra, — dicevo, — e purghiamo la lingua da questa infezione straniera, ritirandola verso l’antico; ma se l’uso si ostina a conservarne qualcuno, dobbiamo noi cozzare contro l’uso? — Questo linguaggio, in quell’atmosfera impregnata di purismo, sentiva già di ribelle, ed era riferito come uno scandalo al marchese Puoti. Io me ne difendevo vivamente; ma ero già un ribelle senza saperlo, e mi accusava il rossore del volto. Peggio poi quando venivo all’uso della lingua, e a quello che diceasi elocuzione. Sostenevo che l’importante era meno di scriver puro che di scriver proprio, ed al dogma della purità avevo sostituito il dogma della proprietà e della precisione. Volgendo l’attenzione più al contenuto che alla forma, veniva capovolta la base della grammatica e della lingua, e si riusciva a opinioni assolutamente diverse dalle correnti. Lo spirito, concentrato nella parola o nella frase, si avvezzava a guardare di sotto, a cercare il pensiero, a preferire non la frase più pura, ma la frase più propria e più esatta, che fosse, come dicevo io, lo specchio del pensiero. Perciò non mi piacevano i pleonasmi, i ripieni, le riempiture, le perifrasi, le circonlocuzioni, le parentesi, i lunghi e armoniosi giri del periodo, l’abuso delle congiunzioni e delle inversioni.