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110 la giovinezza

Tutto questo era roba da esser gittata a mare. Naturalmente la pratica non rispondeva per l’appunto alla teoria. Non era facile svezzarci da molte radicate abitudini, e bruciare oggi gl’idoli adorati ieri. Ne nasceva una disuguaglianza, non so che di grottesco: il vecchio uomo non era ancora cancellato, l’uomo nuovo non era ancora formato, e mal vivevano insieme. Cosi nella scuola i mercoledì erano puristi, e sentivi non di rado, nelle correzioni del Marchese, il «perché», «consiossiaché», «manifesta cosa è»; nelle letture ti venivano all’orecchio molti riboboli e anticaglie, che avevano la loro condanna nella critica e nelle teorie. Il pensiero era libero; la pratica era ancora servile.

Dotato d’una certa misura intellettuale, che non mi consentiva nessuna esagerazione, le mie novità erano in tali termini, che se non appagavano puristi e lassisti, neppure gl’irritavano. Io era un juste milieu. E non pensavo a questi o a quelli, pensavo a dire il vero. La mia mira non era punto a surrogare il Puoti ed a porre innanzi il mio personcino; anzi io avevo sempre il suo nome in bocca, e avevo l’aria di spiegare le sue dottrine, di essere il suo interprete. Però volevo che quelle dottrine fossero purgate da quelle esagerazioni che si attribuivano al Marchese, e, così facendo, credevo difenderlo dai suoi avversarii. Perciò le mie temerità mi erano perdonate volentieri, e io mi applaudivo di aver trovato modo di piacere al vero senza dispiacere a lui. In questo c’era un po’ di malizietta inconscia, ma anche la mia natura lontana dalle piccole passioncelle di pensiero e di linguaggio. Una sera feci una lunga lezione sul modo di arricchir la lingua senza corromperla, dove i puristi pretendevano che la lingua fosse già ricca, anzi troppo ricca, e non si dovesse pensare che a purificarla. Io chiamava costoro falsi puristi, che guastavano la loro causa, e difendeva e glorificava il vero purismo. Cosi più tardi ci furono anche i veri e i falsi liberali. Terminai quella lezione con un panegirico del vero purismo, che non si arresta al Trecento, e non mette le parole in cima al pensiero, e non imita gli arcadi e i retori. Andavo innanzi, tonando contro i calunniatori, che accagionavano i puristi di quello che si potea dire al più degli ultra-puristi o falsi puristi.