La fine di un Regno (1909)/Prefazione

Prefazione

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La fine di un Regno (1909) Parte I

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Della prima e della seconda edizione di questo libro nessun altro esemplare si trova in commercio, onde nell’accingermi a pubblicarne una terza, arricchita di nuovi e copiosi documenti, rivelazioni e aneddoti, ho fede che ad essa arrida una sorte non diversa. Più fugge il tempo, e più si acuisce il desiderio di conoscere quei giorni della storia nostra, nei quali era tanto fervore di idealità e di speranze; e cadendo pregiudizi e convenzionalismi, la verità apparisce nella sua piena luce.

La parte più interessante di questa terza edizione è nella maggior copia di notizie nuove, e più ancora di documenti, i quali vedono la luce per la prima volta. Di certo non son tutti, perchè nessuno ha ancora consultato quei numerosi “fasci„ della corrispondenza diplomatica esistente nell’archivio di Stato di Napoli; nè, adoperandosi pretesti e sotterfugi, a me fu concesso di esaminarli. Nicomede Bianchi trasse di là, appena un anno dopo la rivoluzione, la corrispondenza che [p. vi modifica]seguì al Congresso di Parigi, e ne fece buono e mal governo, com’egli soleva. Altra parte della corrispondenza diplomatica, e singolarmente quella della legazione di Napoli a Torino, andò distrutta per interessi e cause diverse, durante la triste baraonda, che imperversò nella reggia di Napoli e negli archivi segreti della polizia, dopo la partenza di Francesco II. E quei documenti, che il decaduto re portò a Gaeta, chiusi in parecchie casse, non si può affermare dove siano andati a finire. La legge, che impone non potersi pubblicare nulla che dopo più di mezzo secolo dagli avvenimenti, è certo di grave ostacolo alle oneste indagini storiche; nè pare che sia poi applicata con imparzialità, poichè si trova modo di farvi non infrequenti strappi.

Ho raccolto il maggior numero dei nuovi documenti in un terzo volume, perchè non mi sarebbe stato possibile inserirli tutti nella narrazione, senza toglierle efficacia e turbarne l’ordine. Alcuni sono, potrei dire, a mia difesa, a proposito di quanto scrissi circa la luogotenenza del principe di Satriano in Sicilia. Mi fu rimproverato di aver voluto offendere l’amor proprio dei siciliani, affermando che essi si sottomisero all’autorità del Filangieri, senza più resistenza, dopo la resa di Catania. Non mi sembra d’aver scritto nulla contro la verità, e ne fanno fede i numerosi indirizzi, mandati al re dai municipi dell’Isola, e più dalla maggioranza dei membri del Parlamento, appena compiuta la restaurazione; da quei medesimi deputati e pari, che pur avevano votata la decadenza della dinastia borbonica, e appartenevano alle classi dirigenti di Sicilia. Quegl’indirizzi, caduti in oblìo, è bene conoscerli nella loro caratteristica e [p. vii modifica]spesso comica integrità. Del resto, se i siciliani fecero così, a consiglio del Filangeri, i napoletani fecero peggio, a consiglio del ministro Giustino Fortunato, sottoscrivendo la petizione al re, perchè abolisse lo Statuto. Sono aberrazioni, è vero, ma perchè nasconderle o attenuarle? Appartengono alla storia.

Fra le carte lasciate dal marchese Emidio Antonini, ministro di Napoli a Parigi dal 1848 al 1860, e messe gentilmente a mia disposizione dalla nipote di lui, marchesa Antonietta Cappelli, ho rinvenuto alcune istruzioni originali, mandate dal re Ferdinando II al suo ministro, le quali rivelano il principe e l’uomo, e il suo modo di vedere rispetto alle cose di Francia, dopo l’assunzione al trono di Luigi Filippo; e alle cose di Spagna, dopo la morte di Ferdinando VII; e nuovamente a quelle di Francia, dopo che Luigi Napoleone Bonaparte fu assunto alla presidenza della repubblica. Sono interessantissime; e assai caratteristico e curioso è il diario, che l’Antonini scrisse a Napoli nel 1852, nei giorni che vi stette, quando il re lo chiamò per dargli a voce le istruzioni, circa il pronto riconoscimento del Bonaparte come imperatore. Ferdinando II voleva esser primo a compier questo atto, vedendo nell’Impero una garanzia per l’ordine politico e sociale in Europa; e per il re di Napoli non vi era più dubbio, dopo il colpo di Stato del 2 dicembre, che la repubblica fosse finita. Altri documenti del carteggio dell’Antonini non si riferiscono al periodo da me trattato; e quelli concernenti la guerra di Crimea, il Congresso di Parigi e la guerra del 1859, che sarebbero stati interessantissimi, anche per controllare i [p. viii modifica]documenti pubblicati dal Bianchi, mancano; ma vi è qualche cosa, che confermerebbe quanto fu asserito circa alcuni consigli, mandati dalla legazione di Francia al governo di Napoli, nell’estate del 1854, quando si preparava la guerra contro la Russia: ne fanno fede alcune lettere intime, che scriveva all’Antonini, allora a Vichy, l’addetto diplomatico Antonio Winspeare: lettere, delle quali pubblico la più interessante.

Uno dei maggiori avvenimenti dell’agitato regno di Ferdinando II fu l’attentato di Agesilao Milano. Per i liberali il regicida fu un eroe; per la Corte e i legittimisti un fellone; e come tale, torturato e giustiziato. Si volle cercare una cospirazione che non v’era, perchè il Milano agì di sua testa e oramai non se ne dubita più. Ho indagato circa le cause morali, che spinsero il soldato albanese ad uscir dalle righe, a vibrare al re due colpi di baionetta e a morire eroicamente. Ritengo che le vere cause, con la gran copia di particolari raccolti e pubblicati per la prima volta, sian quelle che narro. Ma il maggior servizio che rendo alla storia, circa quell’avvenimento, è la pubblicazione integrale del carteggio riservato del rappresentante sardo a Napoli, il giovane marchese Giulio Figarolo di Gropello, il quale, nella qualità di segretario, sostituiva l’incaricato di affari. I suoi rapporti rivelano una non comune penetrazione. Nulla gli sfugge; anche le cose minime e trascurabili hanno valore per lui; e perciò, sotto alcuni riguardi, rammentano quelli degli ambasciatori veneti. Egli pareva posto da Cavour quasi come sentinella avanzata, con la missione di far proseliti alla causa italiana, rappresentata [p. ix modifica]dal Piemonte e dalla monarchia liberale, cercando di radicare nelle classi dirigenti la convinzione, che non ai dovesse sperar salute per l’Italia dal mazzinianismo, o dal murattismo e assai meno dai Borboni, ma solo da una più sicura e intima intesa col Piemonte. Non è ancora l’unità, ma è l’egemonia giobertiana, che vagheggia il grande ministro.

A meglio riuscirvi, e a renderai sempre più degno di tanta fiducia, il Gropello seppe penetrare, non solo nella più eletta società napoletana, ma nel circolo di quel conte di Siracusa, uno dei più irrequieti principi frondisti, che la storia ricordi, e marito di una principessa di Savoja Carignano. Il Gropello era divenuto l’amico di Giuseppe Fiorelli e di Alfonso della Valle di Casanova, nel cui carteggio famigliare il nome di lui ricorre sovente, come può vedersi da una parte di esso, che pubblico o riassumo, e ch’è a me pervenuto dal mio carissimo Giovanni Beltrani. In quel carteggio si rispecchia nitida e viva gran parte dell’ambiente napoletano di allora. Il giovane diplomatico era persuaso, e i fatti gli dettero ragione, che la dinastia dei Borboni doveva mutare indirizzo o perire; ma una mutazione non sembrava verosimile finchè era vivo Ferdinando II; onde il carteggio del Gropello, durante la malattia del re, assume un’importanza singolare, anche per le circostanze veramente drammatiche di quel periodo. Moriva il maggior tiranno d’Italia, come lo chiamavano i suoi nemici, nel tempo stesso che s’iniziava felicemente in Lombardia, col concorso delle armi francesi, la guerra dell’indipendenza; e Cavour, alleato della rivoluzione, si serviva di questa e della propria diplomazia, per minare i deboli troni dei vecchi principi assoluti della Penisola. [p. x modifica]

Altra parte nuova di questa edizione si riferisce alle burlesche concessioni ferroviarie, alla vita intima delle maggiori città di provincia, a tutta la vita sociale del Regno, economica, artistica, teatrale e politica; e infine allo sconfinamento delle truppe italiane al Tronto. Le due edizioni precedenti si chiudono con l’ingresso di Garibaldi a Napoli; ma se col 7 settembre finiva potenzialmente il regno dei Borboni, undici giorni dopo era sbaragliato l’esercito pontificio a Castelfidardo, e il 29 capitolava Ancona. Dal 7 settembre al plebiscito del 21 ottobre, corsero giorni ben tempestosi per le due Sicilie. Si fu alla vigilia della guerra civile, e sul punto di veder compromesso quanto la rivoluzione aveva compiuto. Frequenti e sanguinose le reazioni; ancor forte l’esercito regio, padrone delle fortezze di Capua, Gaeta, Messina e Civitella; lo Stato era sciolto; nasceva il brigantaggio, e le pavide popolazioni abruzzesi invocavano l’intervento delle truppe italiane, con Vittorie Emanuele alla testa. Non vi era dichiarazione di guerra; mancava ogni pretesto che giustificasse innanzi al mondo l’intervento armato; il plebiscito non era ancor fatto; ma Cavour, facendosi forte degli indirizzi delle popolazioni di Abruzzo e della città di Napoli al nuovo re d’Italia: indirizzi promossi dai suoi amici ed emissarii, ruppe gl’indugi e fece varcare la frontiera; onde gli Abruzzi divennero la regione storica per l’ingresso di Vittorio Emanuele, come erano state le Calabrie per il paesaggio di Garibaldi. Di quella famosa marcia, che, iniziata a Torino, si compì a Napoli il 7 novembre, vi sono ancora dei superstiti: vi [p. xi modifica]è Emilio Visconti-Venosta, che col Farini, ministro dell’interno, accompagnava il re; e vive a Pescara il marchese Francesco Farina, onorato avanzo della deputazione abruzzese, che andò in Ancona per spingere Vittorio Emanuele a passare il Tronto. Ho raccolto inoltre io stesso, nei paesi di frontiera dell’Abruzzo teramano, una miniera di particolari e aneddoti, interrogando i superatiti. Questo periodo si congiunge all’altro mio libro: Roma e lo Stato del Papa; e l’uno e l’altro si completano.

Non dirò altro; ma non rinunzio ad esprimere il mio rammarico, che questa terza edizione venga in luce dopo la morte della duchessa Teresa Ravaschieri, alla quale dedicai la seconda1, e che mi fu preziosa collaboratrice nel rievocare le vicende della società napoletana e siciliana dei suoi giorni. Povera e cara duchessa, che dette a Napoli il suo cuore, le sue sostanze e le migliori energie della sua anima, e già così dimenticata! Se fosse concesso frugar nelle sue carte, quanta maggior luce balzerebbe fuori per una più completa intelligenza dei tempi, e specialmente dal suo ricco e interessante epistolario. Non posso, da ultimo, senza venir meno a un debito di riconoscenza, ristarmi dal ringraziare di gran cuore i tanti amici, i quali, cortesemente e pazientemente, mi soccorsero di notizie, rivelazioni e documenti intimi e forse anche indiscreti, ma la storia si fa anche con le indiscrezioni. Quasi tutti son ricordati nel corso delle presenti cronache, poichè io tengo ad affermare che queste mie sono cronache vissute; e però non [p. xii modifica]montino in cattedra i nuovi pedanti della storia, per dire ch’io voglia loro rubare il mestiere: mestiere che non invidio, nè tento di portar via, poichè soltanto ciò che ha un qualche valore può esser argomento di furto. Cronache vissute, dico, e lo dimostrai nel proemio alla prima edizione, come vedrà il lettore dei brani che ne ripubblico. Di molte cose fui testimone io stesso, e altre mi furono rivelate da uomini di gran nome e rispettabilità, dei quali ho l’orgoglio di aver avuto l’amicizia e le confidenze.

Città di Castello, Capodanno del 1909.

R. DE CESARE.


  1. Alla fine del terzo volume è ristampata la lettera di dedica alla duchessa.