La donna forte (Goldoni)/Atto V
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ATTO QUINTO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di Fabrizio, con varie porte.
La Marchesa e Fabrizio.
Fabrizio. Come, signora mia?
Avete voi sospetto che un traditore io sia?
Per voi, per il padrone, per tutta la famiglia
Esponere la vita il dover mi consiglia.
So che azzardo moltissimo con quell’uom sì spietato;
Ma vo’ sperar buon fine, se mi seconda il fato.
Siete in albergo, è vero, povero, ma onorato;
Questa è la casa mia, la casa ove son nato.
L’abita ancor mia madre, e acciò non sappia niente,
L’ho mandata per oggi in casa di un parente.
Qui verrà don Fernando...
Non per timor di lui, che il traditor non temo.
Ma nel vedermi in faccia di quel fellon l’aspetto.
Trattener non mi fido lo sdegno ed il dispetto.
Fabrizio. Fate quel che vi ho detto, frenatevi per poco,
E sarete contenta al terminar del gioco.
Tal cosa ho macchinato, che se mi assiste il cielo,
Voi sarete contenta, io mostrerò il mio zelo.
Marchesa. E il Marchese?
Fabrizio. Il Marchese, anzi per meglio dire,
Il mio caro padrone non tarderà a venire.
Avvisar io l’ho fatto, che in casa mia voi siete;
Fra brevissimi istanti venir voi lo vedrete;
E toccherà con mano, se voi siete innocente,
E vedrà da se stesso chi è stato il delinquente.
Marchesa. Ed il Conte?
Fabrizio. Anche il Conte comparirà opportuno.
Marchesa. Non vorrei si dicesse...
Fabrizio. No, non vi è dubbio alcuno.
Sento gente. Celatevi là dentro in quella stanza.
State pur di buon animo.
Marchesa. Non manco di costanza.
Sono in via, non mi arresto. All’amor tuo mi affido,
E all’ultimo de’ mali nel mio valor confido.
(entra in una stanza laterale)
SCENA 11.
Fabrizio, poi il Marchese.
Contro di me infelice l’ha provocato a sdegno.
Marchese. Sei tu, vile ministro di quella donna ardita.
Che a vendicar miei torti contro d’entrambi invita?
Dov’è colei?
E dal cielo e da voi non merito perdono.
Ma della mia innocenza marche onorate io porto;
E voi, pria d’ascoltarmi, mi condannate a torto.
Eccomi a’ piedi vostri; s’io fossi un traditore,
Chi è che condur mi sforza dinanzi al mio signore?
Fuggirei dal castigo, s’io fossi un delinquente;
Ma il rigor, la giustizia, non teme un innocente.
Marchese. Alzati. (mostrandosi quasi convinto)
Fabrizio. Vi obbedisco.
Marchese. Dov’è la rea celata?
Fabrizio. La vedrete fra poco.
Marchese. Oh l’avess’io svenata!
Fabrizio. Quella povera dama rea tuttavia credete?
Marchese. Tu lo porresti in dubbio?
Fabrizio. S’ella è rea, lo vedrete.
Marchese. Rea la credei finora; ma l’ultimo furore
Rea vieppiù la dimostra, e perfida di cuore.
La sua colpa conosce; non cura il pentimento.
Cerca sfuggir la pena, si espone ad un cimento.
E di calmare invece l’ira mia provocata,
Con temerario ardire la colpa ha replicata.
Fabrizio. Favorite, signore, di trattenervi un poco.
Parto e ritorno subito. Calmate il vostro foco.
Vado al caffè vicino. Per carità, fermatevi...
(Cieli! è qui don Fernando). Presto, signor, celatevi.
Marchese. Perchè celarmi io deggio?
Fabrizio. Tutto da ciò dipende.
Necessario il consiglio al vostro onor si rende.
Per un momento solo fidatevi di me.
Marchese. Ah se m’inganni, il colpo cadrà sopra di te.
(si nasconde in un altra camera)
SCENA III.
Fabrizio, poi don Fernando e Prosdocimo.
Conoscerà il padrone, s’io sono un uom sincero.
Fernando. Quanto aspettar doveva? Ti hai di venir scordato?
Prosdocimo. T’insegnerò il trattare, servitor malcreato.
(a Fabrizio, e si nasconde dietro a don Fernando)
Fabrizio. Venivo in questo punto.
Fernando. Ma dov’è la Marchesa?
Di un mentitor mi aspetto qualche novella impresa.
Prosdocimo. Se manchi di parola!
(minacciando Fabrizio, e celandosi come sopra)
Fabrizio. Son galantuom, signore.
Ella è in camera chiusa; or or la chiamo fuore.
Fernando. Anderò io da lei.
Prosdocimo. Sì, ci anderemo noi.
Fabrizio. Voi, signor, moderatevi. Tu bada ai fatti tuoi.
La vedrete fra poco; ma parvi ch’ella sia
Cosa onesta il riceverla con simil compagnia?
(accennando Prosdocimo)
Fernando. In un luogo sospetto solo restar non deggio.
Fabrizio. Veramente con voi una gran scorta io veggio.
(ironico)
Prosdocimo. Se alcun vorrà insultarlo, tu lo vedrai chi sono.
Fabrizio. Parlami con rispetto. (minacciandolo)
Prosdocimo. Per ora io ti perdono. (ritirandosi)
Fabrizio. Signore, io vi consiglio usar la convenienza.
Che almeno della dama non resti alla presenza.
Può passar in cucina, dove gli ho preparato,
Perchè non stiasi in ozio, un boccon delicato.
Prosdocimo. Non dice mal Fabrizio. Potrebbe il mio cospetto
Far palpitar il cuore della signora in petto.
Andrò intanto in cucina. Se di me d’uopo avete,
Chiamatemi, son pronto; il mio valor vedrete, (parte)
SCENA IV.
Don Fernando e Fabrizio.
Ma avvertite, signore, non perderle il rispetto.
(va ad aprir la camera, ed entra dov’è la Marchesa)
Fernando. Costui che fa il politico, non ben capisco ancora.
M’irritò questa mane, fece l’onesto allora.
Ed or per me si mostra si docile e impegnato?
Credo che i sei zecchini lo abbiano lusingato.
È ver che anche stamane gli ho del danaro offerto;
Ma non sapea la somma, era il guadagno incerto.
Or, ch’io sia generoso, assicurarsi ei può.
Eh, che la chiave d’oro apre ogni porta, il so.
SCENA V.
La Marchesa e Fabrizio, ed il suddetto.
Io del padrone intanto vo a raffrenar lo sdegno.
(piano alla Marchesa)
Signor, accomodatevi. La dama, eccola qua.
(pone due sedie)
Sarò poco lontano. Vi lascio in libertà.
(entra dov’è il Marchese)
Fernando. Vi supplico, signora. (le fa cenno di sedere)
Marchesa. (L’ira con pena io celo).
(da sè. Siedono)
Fernando. Vi faceste voi male?
Marchesa. No, per grazia del cielo, (sostenuta)
Fernando. È ver che il quarto vostro sembra che sia poc’alto;
Ma pur per una donna è periglioso il salto.
Queste son della sorte rarissime mercedi.
Come cadeste al suolo?
Non so dir io medesima come la cosa è andata,
So che senza avvedermene mi ho per la via trovata.
Di misurare il salto allor non ebbi campo,
Pensai unicamente a procurar lo scampo.
E il ciel che gl’innocenti pietosamente aiuta,
Porsemi con prodigio la mano alla caduta.
Fernando. A voi nel vostro stato rimproverar non voglio
Gl’insulti che mi usaste, e il forsennato orgoglio.
Voi ancor mi potete impietosire il seno.
Quello ch’è stato, è stato; non ne parliam nemmeno.
Marchesa. Anzi vorrei, signore, se ciò non vi dispiace,
Che fra noi del passato si ragionasse in pace.
Convincetemi almeno, se ho da restar contenta.
(Vo’ che il marito ascoso sappia, conosca, e senta).
Fernando. No, non cerchiam, Marchesa, nuovi motivi acerbi,
Per riscaldarci entrambi, e divenir superbi.
Marchesa. Ditemi solamente, se di buon cor mi amate,
O se sol per capriccio voi l’amor mio cercate.
Fernando. Vana ricerca è questa; con tutto il cuor vi adoro;
Siete la mia speranza, voi siete il mio tesoro.
Marchesa. Ma se ciò è vero, adunque perchè tentare il Conte
Che l’amor mio cercasse, che mi venisse a fronte?
Fernando. Ah vi confesso il vero, mi ha consigliato amore
Scoprir per questa strada qual fosse il vostro cuore;
Debole vi sperai con un amante antico,
Sperai che voi cedeste al lusinghiero amico;
E allor che di una donna il cuore è indebolito,
Un incognito amante può divenir più ardito.
Marchesa. Dissi pur a Prosdocimo da voi perciò mandato...
Fernando. Non ne parliam. Marchesa, quello ch’è stato, è stato.
Marchesa. Soffritemi un momento. Gli dissi pur che audace
Meco non fosse il Conte, e mi lasciasse in pace.
Ed il messo bugiardo, ardito e scellerato,
Fece venire il Conte, credendosi invitato.
Da cavalier promette di riparar miei danni;
Salva dal rio periglio, salvo l’onore io credo,
Spero da voi sottrarmi, e comparirvi io vedo.
Pernando. Ma tralasciam. Marchesa...
Marchesa. Deh, terminar lasciate.
Vo’ veder se mentite, o se davver mi amate.
Vi ricordate avermi fatto sperare il modo
Di troncar col Marchese delle mie nozze il nodo?
Fernando. Me ne ricordo, e sono all’opera disposto.
Se voi non mi sprezzate, son vostro ad ogni costo.
E se altra via non resta per esservi consorte,
Posso ancor del Marchese accelerar la morte.
(Il Marchese si fa vedere sulla porta in atto di voler uscire furiosamente, e Fabrizio lo tira indietro, e serra la porta.)
Fernando. Parmi di sentir gente.
Marchesa. Niente, sarà Fabrizio.
(Sopra di te, inumano, caderà il precipizio). (da sè)
A un simile progetto io che risposi allora?
Fernando. Di ciò non mi sovviene.
Marchesa. Posso ridirlo ancora.
Dissi che dama io sono, che venero il marito;
Che chi l’onore insulta, è un temerario ardito.
E voi per la ripulsa d’alto furor ripieno,
Mi presentaste audace un ferro ed un veleno.
Fino un’arma da foco mi presentaste al petto.
Minacciaste di farmi violenza a mio dispetto.
Per non morir col nome di femmina infedele,
Fuggii col precipizio da un seduttor crudele.
Ora che salva io sono, cercato ho di parlarvi.
Sol delle vostre colpe desio rimproverarvi,
E replicarvi intendo, senz’ombra di timore,
Ch’io morirò fedele, che siete un traditore.
Fernando. Ti pentirai, superba, di favellarmi ardita. (s’alza)
SCENA VI.
Il Marchese e Fabrizio, e detti.
Il Marchese esce fuori furioso; vuol metter mano alla spada,
e Fabrizio lo trattiene.
Fernando. Qual tradimento è questo?
Marchesa. Tu, traditor malnato...
Marchese. Lascia ch’io lo ferisca. (scotendosi, e Fabrizio lo tiene)
SCENA VII.
Prosdocimo con un boccale in mano ed un bicchiere, e detti.
Marchese. Tutto è scoperto alfine, ed il tuo labbro istesso,
Perfido, me presente, ha l’error suo confesso.
(a don Fernando)
Lascia che al sen ti stringa, moglie onorata e saggia,
La gelosia perdona che il tuo bel core oltraggia.
Servo fedel, ti abbraccio. (a Fab.) Grazie, pietosi numi.
Tu pagherai la pena dei perfidi costumi.
(a don Fernando)
E tu, ministro indegno de’ profanati amori,
Il tuo castigo aspetta. (a Prosdocimo)
Prosdocimo. Schiavo di lor signori. (parte)
Marchesa. Ah sposo mio, perdono tutte le ingiurie e l’onte.
Se rivedervi io posso rasserenato in fronte,
Se l’onor mio trionfa, son consolata appieno...
Marchese. Perfido! alla mia sposa un ferro ed un veleno?
(a don Fernando)
Fernando. Deh, d’insultar cessate. Veggo, confesso il torto.
Il rossor, la vergogna mi toglie ogni conforto.
Vivere più non curo, e la mia morte aspetto.
Marchese. Sì, traditor. (minacciandolo colla spada)
Marchesa. Fermate. Quel barbaro inumano
Punire non si aspetta a voi di vostra mano.
Evvi giustizia in cielo, evvi giustizia al mondo,
Soccomberà l’audace delle sue colpe al pondo.
Se privata vendetta sopra di lui prendete,
Della ragione invece torto in giudizio avrete.
Quell’anima rubella non merta i vostri sdegni,
A consolar la sposa il vostro amor s’impegni.
Fernando. No, tollerar non posso che mi si vegga in faccia
Di mentitore i segni, di traditor la taccia.
E se da voi la morte posso sperare in vano,
Vivere più non voglio. L’avrò dalla mia mano.
(vuol ferirsi)
Fabrizio. In casa mia, signore, non vo’ di queste scene.
(trattenendolo)
Ite a morire altrove.
Marchesa. Farmi sentir....
Marchese. Chi viene?
SCENA ULTIMA
Il Conte, un Uffiziale con soldati, e detti.
Uffiziale. Rendetemi la spada, e obbedite al comando.
Fernando. Difendermi non curo. Cedo alla cruda sorte.
Cercherò da me stesso accelerar la morte.
Pietà nel duro caso non merta un traditore;
Questo è il fin che procaccia un sregolato amore.
(parte coll’uffiziale e soldati)
Fabrizio. E Prosdocimo indegno non sarà castigato?
Conte. Prosdocimo a quest’ora dai birri è carcerato.
Come tu consigliasti, fu la giustizia intesa;
Contro i rei sul momento risoluzion fu presa.
E per l’altro i ministri dovuti ad un suo pari.
Marchese. Conte, de’ rei pensieri contro di voi formati.
Imputate la colpa ai menzogneri ingrati.
E mia germana istessa...
Conte. Ella di tutto è intesa,
E di dolor si affanna, e di rossore è accesa.
Consolarla fa d’uopo.
Marchese. Sta in poter vostro il dono.
Conte. Se consentir vi piace, pronto a sposarla io sono.
Marchesa. Andiam, sposo diletto, a stabilir tal nodo.
Godo per l’altrui bene, qual per me stessa io godo.
Vieni, Fabrizio, a parte di quel piacer, cui diede
Onorata cagione l’amor tuo, la tua fede.
Grazie al poter de’ numi, grazie all’amica sorte,
Nelle sventure estreme ressi costante e forte.
Apprendete, o mortali, che l’innocenza oppressa
Dee trionfare un giorno della calunnia istessa.
Che in mezzo a’ suoi perigli, ogni periglio avanza
Chi serba fra i disastri l’intrepida costanza.
E la fortezza istessa, ch’empie un bel cuor di zelo.
Non è virtute umana, ma è puro don del cielo.
Fine della Commedia.