La cieca di Sorrento/Parte prima/III

III. Il commesso di notaio

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III.


il commesso di notaio.


Da questo giorno in poi erasi operata una compiuta trasformazione nei sentimenti e nella condotta degli studenti rispetto a Gaetano. La sua presenza nella classe mettea subitamente il silenzio e il raccoglimento più che noi facesse l’aspetto medesimo del professore; le parole di lui erano attentamente ascoltate come quelle in cui scorgeasi un fondo di dotte investigazioni e di sottile analisi; oltre che nei suoi detti arguti, cinici e incisivi era sempre qualche cosa che toccava profondamente le fibre del cuore, e che faceva vibrare certe ascose corde nei penetrali dell’anima. Raramente ei muoveva la parola a qualcuno, e raramente il sorriso gli balenava sulle labbra, se non era il ghigno dello sprezzo. [p. 19 modifica]

L’anno scolastico volto era al suo termine; la stagione estiva chiuder facea le sale anatomiche; ed i giovani studenti calabresi, delle Puglie e di altre provincie del Regno, traevano a visitare le loro famiglie; ovvero rimanevansi nella capitale a menare bel tempo e spendere in sollazzi il denaro che lor veniva dalle industrie dei loro onesti genitori.

Gaetano non avea nè padre, nè madre, nè parente alcuno, rimoto che fosse, che gli mandasse, dal fondo della sua provincia, non direm già di bei quattrini onde darsi anch’ei tempone e gavazzare in allegre brigate, ma quel tanto nemmanco che ai primi bisogni della vita basta a supplire. Orfano da molti anni, il disgraziato giovane, dopo la morte di suo padre, mosso avea dalla sua terra nativa in giovanissima età, in compagnia della sorella, fanciullina di sei anni appena, e della vecchia nonna zeppa d’infermità. Pochi ducati, frutto della vendita delle vecchie suppellettili rimasegli dalla casa paterna, accompagnò i tre calabresi fino a Napoli, scemandosi a seconda che il loro viaggio progrediva, e rimanendo alla cifra di pochi carlini allorchè, giunsero nella capitale. Gran tratto del viaggio era stato fatto a piedi.

Qual’era lo scopo del giovanetto Gaetano nell’abbandonare il suo natio villaggio e trasferirsi a Napoli? Niente altro che lo studio della medicina, cui trascinato ei sembrava da una forza indicibile. Difficile era oltremodo la sua posizione. All’età di 15 anni, con una vecchia ed [p. 20 modifica]una fanciulla in sulle spalle, senza conoscere anima vivente in Napoli, egli trovavasi nella necessità di dover tra poco tempo provvedere alla sua sussistenza, non meno che a quella delle due compagne che la natura gli avea date; oltre a ciò, era mestieri comprar libri, pagar maestri, ed attendere allo studio. Come fare? Per colmo di sventura, egli aveva un aspetto che a prima vista ispirava ripugnanza e avversione.

Gli è vero che nella sua patria il tapinello erasi veduto nella medesima posizione di dover provvedere, ancor fanciullo, alla vita giornaliera della sua famigliuola; perciocchè suo padre, due anni prima di morire, aveva abbandonata la sua famiglia, e avea tratto a Napoli, dove per lo appunto trapassò. Non è questo il momento di dire quali circostanze accompagnarono la costui morte, e quale si fu il motivo, per cui postergò i suoi. Avremo, nel corso di questa storia, l’occasione di tornar parecchie volte su tali avvenimenti.

Che cosa fece Gaetano, venendo in Napoli, per avere mezzi da vivere e da studiare? Egli si presentò, dopo alquanti giorni, ad un vecchio notaio che poco discosto dall’abitazion di lui avea la sua curia, e propriamente al cantone di una stradella appartata della vecchia Giudecca. Questo notaio in sua giovinezza goduto non avea certamente un’ottima fama; e ora nell’esercizio della sua professione, immune non andava di alcune tacce di cui giammai non avea pensato a scolparsi, e che però, presso la [p. 21 modifica]plebe sempre facile a suggere il fiele delle cattive lingue, preso aveano un carattere di verità.

Quest’uomo, nomato Tommaso Basileo, di aspetto ignobile e alcun po’ feroce, spingea la sordida passione dell’avarizia fino all’eccesso, vivendo come il più misero ebreo, ed ammazzandosi di fatica per non dare ad altri una benchè scarsa parte dei suoi lucri.

Ognun vede che in peggior creatura imbattersi non potea l’infelice Gaetano; ed in fatti alle prime offerte di servigio fu risposto brutalmente non esservi uopo di altre braccia; e finalmente non fu ammerso come scribente nella curia notariale, che contentandosi del ricco salario di grana dieci al giorno. Gaetano dovea portarsi alla curia alle otto del mattino per uscire alle undici, e quindi alle due dopo il mezzogiorno per uscirne alle otto. Nove ore al giorno d’indefesso lavoro per un carlino!

Sarebbe stato impossibile di viver tre persone con quella infima moneta, se Caterina, la sorella di Gaetano, non avesse da parte sua sovvenuto alle spese giornaliere, mercè l’opera da lei prestata in casa di una sarta in via di S. Giovanni a Carbonara. Gracile, leggiero e diafano, il corpo di questa disgraziata giovanetta pareva ad ogni istante volersi disfare e allargar la sua trama per isprigionare un’anima candida e pura. Un lavoro assiduo, faticoso, congiunto alle più amare privazioni ed agli stenti di una vita infelice, dovean bentosto gittar nel seno della sventurata il germe di quel funesto [p. 22 modifica]male onde fu tratta alla tomba nel breve giro di diciotto anni, quando lo stame della esistenza sembra per lo appunto più vigorosamente tessito e più difficile a rompersi.

Orrendo colpo fu pel povero Gaetano la infermità della sorella, in quanto che neanche il sollievo aver potea di tenersela in casa e curarla coi più efficaci mezzi dell’arte, o almeno alleggerirle il male con tutta quella espansione di tenerezza fraterna, che è pure un balsamo pei sofferenti; e più orrendo colpo fu anche la morte di lei, come quello che, squarciandogli il petto pel dolore di tanta perdita, accrescer dovea la sua miseria, privandolo dell’aiuto che Caterina portava alla famiglia.

Da molti anni i giorni di Gaetano scorrevano tra gli studi ardentissimi della sua professione e le durissime fatiche cui assoggettavalo il sordido notaio. Dalla curia allo spedale, da questo alla curia, e quindi, la sera fino a notte avanzata la lettura o le scientifiche lucubrazioni; era questo il viver che faceva Gaetano, interrotto solamente da poche ore di sonno, e sostenuto da scarso e malsano nutrimento.

Tommaso Basileo, il notaio, era una di quelle tante varietà dell’uomo tigre, di cui abbonda sciaguratamente la razza umana. Questa specie maledetta di esseri abortivi prende suo sviluppo ogni di vie più in mezzo alla pretesa civiltà dei tempi. Era quel notaio un curioso impasto di diversi animali, tanto nel fisico [p. 23 modifica]quanto nel morale, ma supremazia sugli altri istinti aveva quello del tigre. È impossibile d’immaginare un essere più perfidamente vile, più vilmente brutale, più brutalmente e bestialmente sordido. Nè si creda che ci piacciamo di esagerare a talento un personaggio creato dalla nostra fantasia; imperocchè nella storia naturale dell’uomo, siccome testè dicemmo, un tal tipo è ovvio e frequente, e massime in seno delle popolose incivilite capitali.

Ben può facilmente immaginarsi che sorta di vita avesse a passare il giovin calabrese nella soggezione di quest’uomo, e come amaramente ad ogni boccone che tracannasse ricordar dovesse del come sa di sal lo pane altrui. Non direm quindi, per rispetto che abbiamo all’alta origine umana, non direm dei maltrattamenti fatti subire al povero scribentuccio ogni qual volta trascorreva l’ora consueta in che trovar si doveva al suo posto; un velo gitteremo sulle turpi nefandezze di quel servo dal danaro. Altre cose più importanti alla nostra storia chiamano altrove la nostra attenzione, benchè del pari tristi e miserevoli.

Non induca però maraviglia di sorta alcuna il vedere siccome nell’animo dilacerato di Gaetano queste continuate stille di piombo rarefatto, congiunte al sentimento della propria deformità, non meno che al peso d’indicibile oppressione, derivatagli da un orribil segreto, che il traeva continuamente a maledir la sua esistenza, ingenerar dovessero in lui il più gran [p. 24 modifica]disprezzo dell’uman genere, e la più mortale apatia ai mali ed alle sofferenze altrui. Non è questo il momento di dire perchè sì fortemente erasi dato questo giovane allo studio dell’arte salutare, mentre al converso avrebbe dovuto trovare un certo tal quale sollievo ne’ tormenti e nella morte de’ suoi simili.

Nel tempo in cui comincia questa istoria, cioè nell’anno 1840, Gaetano fatto avea passi giganteschi nella sua professione. I suoi compagni, dopo che egli ebbe parlato così dottamente alla cattedra di anatomia, il teneano già in concetto di esperto medico, ed i suoi professori gli affidavano varie cure d’infermi, cui egli trasse a guarigione perfetta. L’oculatezza, la somma penetrazione, la fredda disamina del morale dell’infermo erano le principali qualità di Gaetano nell’esercizio della sua arte. Il rumore della sua valentia giunto era all’orecchio del notaro, il quale, per quella specie di rancore che gl’ignoranti serbano sempre contro gli uomini d’ingegno, non iscemava niente affatto de’ suoi maltrattamenti verso il giovane suo commesso; anzi vie più accrescevali, quando in ispezialità di pochi minuti indugiava la venuta di lui all’ufficio.