La capanna dello zio Tom/Capo XXXV
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CAPO XXXV.
I pegni d’amore.
La gran sala dell’appartamento di Legrée era un camerone amplissimo, munito di un camino anch’esso vastissimo. Anticamente le pareti erano state rivestite di una carta risplendente, che ora, sbiadita e logora, pendea a brani tutt’all’intorno. Vi si respirava quell’atmosfera malsana, impregnata di umidità e di miasmi maligni che suole condensarsi ne’ luoghi chiusi. Oltracciò la tappezzeria era stata qua e là macchiata da spruzzi di vino e di birra, e tempestata di note, di cifre colla somma in calce, come se taluno si fosse preso lo spasso d’imparare l’aritmetica su que’ muri. Nel camino ardeva un mucchio di carbone, perchè, sebbene non facesse più freddo, le serate eran sempre umide e rigide in quella gran sala; e d’altronde Legrée avea bisogno di fuoco per accendere i sigari e fare riscaldar l’acqua per il punch. Il chiarore tremolante del carbone tingea in rosso gli utensili qua e là ammonticchiati nella camera — selle, briglie, arnesi di ogni sorta, fruste, coperte e diversi generi di vestimenta, gettate anch’esse a fascio. I mastini, di cui abbiamo parlato, si erano accovacciati tra questo miscuglio di oggetti, come tornava loro di maggior comodo.
Legrée stava appunto allora preparando il suo punch, e versava acqua bollente da una cocoma fessa e mozza del becco.
— «Maledetto Sambo! — mormorava tra i denti; — viene a seminar la zizzania tra me e i miei nuovi schiavi. Quell’uomo non potrà più lavorare per una settimana, e siamo nel forte del ricolto.»
— «E ben vi sta» disse una voce dietro la sedia di lui. Era Cassy che avea rotto per tal modo il soliloquio.
— «Ah! sei tu, demonio? sei tornata dunque?»
— «Son tornata — rispose ella freddamente — son tornata a fare ciò che mi piace.»
— «Ti inganni, donna svergognata. Io terrò parola. O prenderai il partito di comportarti bene, o andrai là basso ad abitar nel quartiere e a lavorare come li altri schiavi.»
— «Meglio le mille volte — disse la donna — abitare nella buca più immonda in que’ quartieri, che viver qui sotto i tuoi artigli.»
— «E sei pure sotto i miei artigli — diss’egli, volgendosi verso la donna con un sogghigno feroce; e ciò mi consola. Ora siedi qui, cara mia, e discorriamo tranquillamente.»
— «Simone Legrée, bada a te! — riprese la donna, mentre i neri suoi occhi lampeggiavano di una luce sinistra che mettea sgomento. — Hai paura di me, Simone — diss’ella, risolutamente — e ne hai ben donde! Bada a’ fatti tuoi, perchè il diavolo e dentro di me.»
Queste ultime parole le sibilò all’orecchio di lui.
— «Va via! Credo veramente che tu abbi il diavolo in corpo! — disse Legrée respingendola e guardandola con occhio smarrito. Insomma, Cassy — riprese egli — perché non vuoi trattarmi amichevolmente, come hai fatto per l’addietro?»
— «Trattarti amichevolmente!» diss’ella con amarezza. Si interruppe — chè un tumulto di affetti cozzantisi le troncò la parola.
Cassy avea sempre esercitata sull’animo di Legrée quell’influenza che una donna di forte ed appassionato sentire suole esercitar sempre sull’uomo più brutale; ma era divenuta ogni dì più irrequieta, più irritata sotto il giogo abbominevole della schiavitù; e questa irritabilità si convertìa talvolta in delirio, in pazzia. E ciò atterriva Legrée, il quale avea per i pazzi quell’orrore superstizioso che suole allignare in animi rozzi ed ignoranti. Quando Legrée condusse a casa Emmelina, il sentimento della dignità oltraggiata, che è proprio della donna, risorse più che mai vivo nel cuore affranto di Cassy, ed ella prese le parti della giovinetta, talchè nacque fiera contesa tra lei e Legrée. Questi, nell’impeto della collera, giurò che se ella non si acquetava, l’avrebbe mandata a lavorar nei campi; e Cassy giurò a sua volta, con superbo disdegno, che sarebbe andata.
Difatti, quella giornata andò, come abbiamo descritto, a lavorar ne’ campi, per dimostrare a prove come si beffasse della minaccia.
Legrée era rimasto segretamente inquieto tutto quel giorno, perché Cassy esercitava su di lui un’influenza di cui non sapea liberarsi. Mentre ella presentò al peso il suo canestro, Legrée sperava che sarebbe venuta a transazione, e le indirizzò la parola tra il beffardo e il conciliativo: ma ella rispose col più amaro disprezzo.
I maltrattamenti fatti a Tom non fecero che maggiormente inasprirla; ed ella tenne dietro a Legrée non per altro che per rinfacciargli la sua stupida brutalità.
— «Bramerei, Cassy — cominciò Legrée — che ti diportasse con maggior decenza.»
— «E avete coraggio di parlar di decenza? Che bell’esempio me ne avete voi dato? Non aveste nemmeno il buon senso, spinto dall’infernale vostra tempra, di risparmiarvi uno dei migliori schiavi che verrebbe utilissimo nell’urgenza del ricolto.»
— «Ho fatto male a lasciarmi trasportare per una bagattella — disse Legrée; — ma quel negraccio mise in campo le sue opinioni, e fu giuocoforza domarlo.»
— «E credete di averlo domato?»
— «Se l’ho domato! — esclamò Legrée levandosi impetuosamente. — Vorrei un po’ vedere se ardisse ancora resistermi. Sarebbe questo il primo negro che osasse contrariarmi! Gli romperò le ossa, ma dovrà cedere!»
In quel punto si aprì l’uscio ed entrò Sambo, facendo mille inchini grotteschi e presentando un involto di carta.
— «Che hai tu là, sozzo cane?» chiese Legrée.
— «Qualche cosa di magico, padron mio.»
— «Cosa?»
— «Qualche cosa che le streghe danno ai negri, acciò non sentano le battiture. L’aveva sospeso al collo per mezzo di un cordoncino nero.»
Legrée, come gli uomini crudeli ed atei, era superstizioso. Prese l’involto, e lo spiegò non senza ripugnanza.
Ne uscirono fuori un dollaro di argento ed una lunga ciocca di capelli splendissimi — capelli che, quasi fossero animati, si attortigliarono alle dita di Legrée.
— «Dannazione! — gridò egli, battendo il pavimento coi piedi, e strappandosi furiosamente dalle dita quella ciocca di capelli quasi lo abbruciassero. — Donde gli hai presi? gettali via; abbruciali! abbruciali! — soggiungeva ansiosamente, e li gettava sui carboni ardenti. — Chi ti ha detto di portarmeli qui?»
Sambo rimase attonito, a bocca aperta; e Cassy, che stava per uscir dalla camera, soffermossi anch’essa a riguardarlo con gran maraviglia.
— «Bada bene a non portarmi mai più di queste cose diaboliche!» disse egli, mostrando il pugno a Sambo, il quale si ritrasse frettoloso verso l’uscio; preso quindi il dollaro di argento, lo slanciò impetuosamente fuori della finestra, di cui ruppe un vetro.
Sambo credette buon partito svignarsela. Legrée, rimasto solo, sentì vergogna della paura che avea mostrata. Si adagiò, digrignando i denti, sopra la seggiola, e cominciò a sorseggiare lentamente il suo punch.
Cassy, inosservata, uscì di camera e corse a sollevare il povero Tom, come poc’anzi abbiamo descritto.
Donde mai proveniva il turbamento di Legrée? E che vi era in quella semplice ciocca di capelli per atterrire un uomo brutale, uso ad ogni sorta di crudeltà? Per ispiegare questo fenomeno, dobbiam narrare al lettore alcuni fatti della vita anteriore di Legrée. Per quanto aspro e scellerato ci paia adesso quest’uomo senza fede, fu pure un giorno allattato dal petto di una donna; cullato tra pie canzoni e preghiere affettuose; la sua fronte, segnata dalla riprovazione, fu pur cospersa colle sante acque battesimali. Nato da un padre crudele, al quale una pia donna avea consacrato, inutilmente, un tesoro di amore, Legrée avea seguito le costui vestigia. Stizzoso, tirannico, intrattabile, avea sempre deriso i materni consigli, li affettuosi suoi rimproveri; e fanciullo ancora, era fuggito di casa, per andare a cercar fortuna sul mare. Non tornò che una sola volta; ed allora sua madre, con quell’amore che non si stanca mai, che non ha più se non un oggetto ad amare, gli fu intorno con ogni sorta di preghiere, di sollecitudini, per richiamarlo dal malvagio suo vivere, in riguardo almeno all’eterna salvezza dell’anima sua.
Quel giorno, fu il giorno di grazia per Legrée. I suoi buoni angeli lo chiamavano; egli era già quasi convertito, e la misericordia divina gli stendea la mano. Una lotta interna fervea nel suo cuore — il suo mal genio la vinse, ed egli rivolse le forze tutte della rozza sua natura contro la convinzione della propria coscienza. Si diede a bere, a bestemmiare, più dissoluto, più feroce che mai. Una notte, mentre sua madre, prostrata a terra, gli abbracciava le ginocchia, collo spasimo della disperazione, quel tristo la cacciò svenuta per terra, e corse, fieramente bestemmiando, al suo bastimento. Legrée non ebbe mai più notizia di sua madre; finchè una notte, mentre stava giuocando tra compagnoni avvinazzati, gli venne presentata una lettera. L’aperse, ne uscì fuori una ciocca di capelli che gli si avviticchiarono intorno alle dita. Quella lettera gli annunziava che sua madre era morta, e che, morendo, lo avea benedetto, gli avea perdonato.
Vi è una magia del male, potenza tremenda, profonda, che converte in fantasmi di orrore e di paura i ricordi più cari e più sacri. La pallida sembianza di quella madre affettuosa — le sue preghiere di moribonda, il suo amore, il suo perdono, non produssero in quel cuore infernale altro effetto che prodotto non vi avrebbe una sentenza di dannazione, la paura di un tremendo giudizio finale. Legrée abbruciò quei capelli, abbruciò quella lettera; e quando la vide contorcersi, scomparir nelle fiamme, rabbrividì al pensiero del fuoco eterno. Si provò di bere, di darsi buon tempo, per iscacciare quelle memorie; ma spesso, nel profondo della notte, quando una tranquillità solenne costringe l’anima del malvagio a rientrare in se stessa, avea veduto la pallida figura della madre sollevarglisi d’accanto al letto, avea sentito intorno alle dita la stretta di quei capelli, finchè innorridito, e colla fronte cospersa d’un freddo sudore, si precipitava dal letto. Nè dobbiamo meravigliarcene; lo stesso Vangelo non ci dice che Dio è amore, e che Dio è un fuoco consumatore, per significare che all’anima incallita nel male, l’amore perfetto è una tortura terribile, il sigillo, la sentenza della più atroce disperazione?
«Maledetto! — mormorava Legrée fra se stesso, nel sorseggiare il suo punch — donde ebbe egli mai queste cose? Se quella ciocca di capelli non somigliasse affatto! credea di averla dimenticata. Possa morire se ne capisco un’acca — voglio essere impiccato se riesco a sbrogliar questo affare! Sono solo; chiamiamo Emmelina. Ella mi odia — la monachella! Che me ne importa? deve venire!»
Legrée, uscito dalla camera, si trovò in uno spazioso vestibolo, donde si spiccava una scala a chiocciola, che, anticamente, doveva esser magnifica; ma ora era guasta, sudicia, ingombra di casse e di ogni genere di rottami. I gradini, dileguando per l’oscurità, parea mettesser capo in luogo ignoto a tutti! Il lume pallido della luna entrava per un’imposta sovresso l’uscio; l’aria era fredda, malsana, simile a quella d’un sotterraneo.
Legrée fermossi ai piedi della scala, e udì una voce a cantare. Nella sua febbrile agitazione di nervi, gli parve quel suono qualche cosa di strano, di fantastico, nella solitudine dell’antico edifizio. Chi è mai?
Una voce incolta, ma patetica, cantava un inno che è comune tra gli schiavi.
Oh fia un terribil giorno, |
— «Maledetta fanciulla! — esclamò Legrée — voglio strozzarla — Emmelina — Emmelina!» chiamò furiosamente; ma non gli rispose che un eco beffardo da quelle mura disabitate. Intanto quella voce soave proseguiva.
Parenti e figli saran disgiunti, |
E una strofa intercalare ripercosse acutamente tra le vôlte deserte.
Oh fia un terribil giorno, |
Legrée si fermò. Avrebbe arrossito a confessarlo; ma grosse stille di sudor freddo bagnavano la sua fronte; il suo cuore battea per paura; gli parve travedere un non so che di bianco che gli sorgeva a rincontro in Abbruciali! Abbruciali! e li gettava sui carboni ardenti. Capo XXXV.
quella sala, e tremò tutto in pensare che lo spettro di sua madre gli potea comparire improvvisamente.
«Io non so che una cosa — disse tra se stesso, mentre, vacillando, rientrava nella sua camera per siedersi; — lascerò in pace quel negro. Che bisogno aveva io di quella carta maledetta? Credo davvero di esser stregato! da quel momento, io tremo e sudo tutto! Donde ha tolti egli mai quei capelli? sarebbero forse quelli.....? mali ho abbruciati io stesso! Sarebbe curioso che una ciocca di capelli dovesse rivivere!»
Ah Legrée! quella ciocca di capelli dorati era incantata; ciascun filo aveva in sè una punta di rimorso, di terrore per te, ed una mano più potente della tua se ne serviva per rattenerti dal fare uno strazio peggiore di quell’infelice!
— «Or su — disse Legrée, battendo i piedi e fischiando ai cani — venite qua, qualcuno di voi, vegliate e tenetemi compagnia!» ma i cani non apersero, trasognati, che un occhio, e nuovamente si addormentarono.
— «Chiamerò Sambo e Quimbo a cantare, a ballare una di quelle loro danze infernali, per cacciar via queste idee spaventevoli» disse Legrée; e preso il cappello, andò alla verenda, e soffiò nel corno con cui soleva, comunemente, chiamare i due ispettori.
Legrée quando era di buon umore, ed avvenìa spesso, chiamava quei due galantuomini nella sala, e dopo averli riscaldati con liquori, si divertiva a farli cantare, ballare, azzuffarsi tra loro, come meglio gli talentava.
Tra l’una e le due ore della mezzanotte, Cassy, tornando da consolare il povero Tom, udì il suono, le strida selvaggie, i canti, li strepiti che si facean nella sala, misti. all’abbaiar dei cani e ad altri segni di confusione generale.
Salì la scala della verenda e guardò nella sala. Legrée e i due satelliti, in uno stato di furiosa ubbriachezza, stavano cantando, strillando, rovesciando le seggiole, e facendosi a vicenda ogni genere di smorfie le più grottesche.
Cassy posò leggermente la sua mano sopra i regoli delle finestre, e li guardò fisa. Il cupo suo sguardo esprimeva un misto di angoscia, di sprezzo e di feroce amarezza. «Sarebbe forse un delitto liberare la terra da un miserabiie come costui?» disse fra se stessa.
Si allontanò rapidamente, e, passando per una porta di dietro, salì la scala e bussò alla porta di Emmelina.