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la capanna dello zio tom
avea veduto la pallida figura della madre sollevarglisi d’accanto al letto, avea sentito intorno alle dita la stretta di quei capelli, finchè innorridito, e colla fronte cospersa d’un freddo sudore, si precipitava dal letto. Nè dobbiamo meravigliarcene; lo stesso Vangelo non ci dice che Dio è amore, e che Dio è un fuoco consumatore, per significare che all’anima incallita nel male, l’amore perfetto è una tortura terribile, il sigillo, la sentenza della più atroce disperazione?
«Maledetto! — mormorava Legrée fra se stesso, nel sorseggiare il suo punch — donde ebbe egli mai queste cose? Se quella ciocca di capelli non somigliasse affatto! credea di averla dimenticata. Possa morire se ne capisco un’acca — voglio essere impiccato se riesco a sbrogliar questo affare! Sono solo; chiamiamo Emmelina. Ella mi odia — la monachella! Che me ne importa? deve venire!»
Legrée, uscito dalla camera, si trovò in uno spazioso vestibolo, donde si spiccava una scala a chiocciola, che, anticamente, doveva esser magnifica; ma ora era guasta, sudicia, ingombra di casse e di ogni genere di rottami. I gradini, dileguando per l’oscurità, parea mettesser capo in luogo ignoto a tutti! Il lume pallido della luna entrava per un’imposta sovresso l’uscio; l’aria era fredda, malsana, simile a quella d’un sotterraneo.
Legrée fermossi ai piedi della scala, e udì una voce a cantare. Nella sua febbrile agitazione di nervi, gli parve quel suono qualche cosa di strano, di fantastico, nella solitudine dell’antico edifizio. Chi è mai?
Una voce incolta, ma patetica, cantava un inno che è comune tra gli schiavi.
Oh fia un terribil giorno, |
— «Maledetta fanciulla! — esclamò Legrée — voglio strozzarla — Emmelina — Emmelina!» chiamò furiosamente; ma non gli rispose che un eco beffardo da quelle mura disabitate. Intanto quella voce soave proseguiva.
Parenti e figli saran disgiunti, |
E una strofa intercalare ripercosse acutamente tra le vôlte deserte.
Oh fia un terribil giorno, |