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quelli che l’imputavano a Cesare e ai suoi amici.

Su due opere minori soltanto, di polemica più che di vera storia, dobbiamo giudicare Sallustio; ma poiché sono innanzi tutto due opere d’arte, senza meraviglia poniamo, nella storia della storiografia romana, Sallustio come il primo storico romano, di cui ci resti qualche opera, che sia stato sin dall’antichità e giustamente considerato un grande scrittore. La sua brevità ora lodata, ora biasimata, già celebre presso gli antichi, tanto che fu ricordata tra gli altri da Seneca (« obscura brevitas ») e da Quintiliano (« vitanda illa Sallustiana brevitas »), e la sua abitudine di collezionare arcaismi, adoprandoli a fare una tessitura preziosa e ricercata di prosa, in cui si sente il compiacimento dell’autore, che, quando si rileggeva, doveva divertirsi a certi effetti di simmetria e alle trovate architettoniche delle frasi ben composte, lascia trasparire una preoccupazione stilistica, che è del tutto nuova, e riesce bene, se non cade nell’artificio.

«Sallustio — scrive un francese, che aveva profondo il senso della bellezza letteraria1 — non cerca tanto di far conoscere i fatti, quanto di ostentare il suo ingegno, e ambisce più la lode che l’istruzione del lettore. Si diverte ogni momento a trovare delle antitesi riuscite, delle frasi simmetriche, delle metafore e delle rassomiglianze. Quando i congiurati stanno per essere condannati a morte, ferma il

  1. Taine, Essai sur Tite Live. Paris 1874, pag. 343 e sg.