La Nascita della Tragedia/Capitolo XVI
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Capitolo XVI.
Dall’esempio storico addotto abbiamo cercato di chiarire, che con l’estinguersi dello spirito della musica è tanto certo che la tragedia va in rovina, che non può avere avuto altro nascimento se non da questo spirito. Per mitigare la singolarità di tale affermazione e per chiarire d’altra parte l’origine della nostra dottrina, bisogna che ora ci rappresentiamo con occhio spregiudicato i fenomeni analogici dei tempi presenti; bisogna che ci addentriamo tra quelle lotte che, come ora dicevo, vengono combattute nelle più alte sfere del nostro mondo moderno tra l’insaziabile conoscenza ottimistica e la tragica esigenza artistica. Qui intendo di prescindere da tutti gli altri avversi istinti, che in ogni tempo fermentano contro l’arte e precisamente contro la tragedia, e che anche oggigiorno si espandono vittoriosamente in tal misura, che tra le arti del teatro la farsa, per esempio, e il balletto gittano con un rigoglio abbastanza lussuriante i loro fiori, il cui olezzo forse non è gradito a tutti. Io intendo di parlare soltanto della più illustre opposizione alla concezione tragica del mondo, e tale penso essere la scienza, che nella sua più profonda essenza è ottimisticala scienza, con a capo il suo progenitore Socrate. Chiamiamo subito a raccolta le forze, che a me sembrano garantire una rinascita della tragedia, e quali altre felici speranze pel genio tedesco!
Prima di lanciarci nel mezzo di coteste lotte copriamoci con l’armatura delle cognizioni acquistate tino a questo punto. All’opposto di tutti coloro che si sono industriati di derivare le arti da un unico principio, come dalla necessaria fonte vitale di ogni opera d’arte, io ho fermato lo sguardo sulle due divinità artistiche dei greci. Apollo e Dioniso, e riconosco in essi i viventi ed evidenti rappresentanti di due mondi artistici, differenti nella loro essenza più profonda e nei loro fini supremi. Apollo mi sta davanti come il genio illustratore del principium individuationis, solo per mezzo del quale è dato raggiungere veramente la liberazione nell’apparenza; laddove nel grido di giubilo di Dioniso vien rotto il corso dell’individuazione, e rimane aperta la via alle cause madri dell’essere, all’intimo nucleo delle cose. Questo enorme divario, voraginosamente aperto tra l’arte plastica come apollinea e la musica come arte dionisiaca, si è palesato a un solo tra i grandi pensatori, in tal modo, che, anche senza cotesta iniziazione della simbolica teurgica ellenica, egli aggiudicò sopra tutte le altre arti alla musica un carattere e un’origine differenti, come quella che, diversamente da tutte le altre, non è un riflesso o copia del fenomeno, sibbene è il riflesso immediato della stessa volontà, e dunque rappresenta in tutta l’apparenza fisica del mondo l’essenza metafisica, tra tutti i fenomeni la cosa in sé (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, § 310). Su questa nozione, la più importante di tutta l’estetica, e che anzi è quella con cui l’estetica, presa in un senso più serio e filosofico, ha il suo vero inizio, Riccardo Wagner, in corroborazione della sua eterna verità, ha impresso il proprio suggello, quando nel «Beethoven» ha stabilito, che bisogna giudicare la musica secondo principii estetici affatto diversi da quelli di tutte le arti figurative, e in generale non bisogna giudicarla secondo le categorie della bellezza; quantunque un’estetica errata, al servigio di un’arte traviata e degenere, partendo da quell’idea della bellezza per sé stessa, valida pel modo figurativo, si sia abituata a pretendere dalla musica un effetto simile a quello nascente dalle opere dell’arte figurativa, vale a dire la suscitazione del piacere per le belle forme. Spinto dalla conoscenza di quell’enorme contrasto, io mi sentii fortemente costretto ad appressarmi all’essenza della tragedia greca e quindi alla più profonda rivelazione del genio ellenico; ché solo così credei d’impadronirmi del filtro incantato, che mi desse la virtù di rappresentarmi vivo e concreto davanti all’anima il problema originario della tragedia, passando sulla fraseologia della nostra estetica usuale; filtro, che mi permise di contemplare il mondo ellenico con uno sguardo così singolarmente mio proprio, da dovermi poi sembrare, che la nostra scienza classico-ellenica atteggiata a si orgogliosa impostatura, in sostanza sui punti capitali avesse finora saputo pascersi non d’altro che di ombre colorate ed esteriorità.
Cotesto problema originario potremmo forse riassumerlo con la domanda: Qual è l’effetto estetico che nasce, quando le facoltà artistiche separate del senso apollineo e del senso dionisiaco concorrono in un’azione l’una accanto all’altra? O più brevemente: Come si comporta la musica con l’immagine e col concetto? Schopenhauer, di cui Riccardo Wagner loda proprio su questo punto una chiarezza e una lucidità non troppo, a dir vero, eccessiva di esposizione, si esprime in proposito nel modo più ampio nel luogo seguente, che riporto integralmente: {Il mondo come v. e r., I, § 309) «In conseguenza di tutto ciò, noi possiamo considerare il mondo fenomenico, o natura, e la musica come due espressioni diverse della stessa cosa, la quale appunto per questo è la sola mediatrice della analogia delle due, ed è necessario conoscerla per intendere cotesta analogia. Perciò la musica, riguardata come espressione del mondo, è un linguaggio universale in sommo grado, il quale anzi sta all’universalità del concetto come l’universalità del concetto sta alle singole cose. Ma la sua universalità non ò affatto la vuota universalità dell’astrazione, bensì di natura tutta diversa, ed è legata a uua determinatezza più generale e più chiara. Esso somiglia in ciò alle figure geometriche e ai numeri, i quali come forme universali sono applicabili a tutti gli oggetti possibili dell’esperienza e a tutti gli a priori, eppure non sono astratti, sibbcne sono intuitivamente e genericamente determinati. Tutti i possibili impulsi, commovimenti e manifestazioni della volontà, tutte quelle vicissitudini intime dell’uomo, che la ragione getta sotto il vasto e negativo concetto di sentimento, trovano espressione nelle innumerevoli infinite melodie; ma sempre nell’universalità della pura forma, senza materia; sempre unicamente secondo l’in sé, non già secondo il fenomeno; vale a dire, conformemente alla loro intima anima, senza corpo. Con questo intimo rapporto, che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si spiega altresì, che quando una melodia ritrae coi suoni una scena, un’azione, un avvenimento, un aspetto di vita, essa sembra aprircene il senso più segreto ed esserne il commento più esatto e più chiaro; del pari come chi si abbandona interamente all’impressione di una sinfonia, crede quasi di vedersi trascorrere davanti tutte le possibili vicende della vita e del mondo; eppure, quando rientra in sé stesso, non può stabilire nessuna somiglianza tra quelle armonie e le cose evocategli davanti. Giacché, come ho detto, la musica si distingue da tutte le altre arti per questo, che essa non è l’immagine del fenomeno, o, più propriamente, dell’adeguata obiettività della volontà, ma è l’immagine immediata della stessa volontà, e perciò su tutta la feuomenologia fisica del mondo rappresenta l’essenza metafisica, su tutti i fenomeni rappresenta la cosa in sé. Conseguentemente il mondo si potrebbe chiamare con egual proprietà tanto musica fatta corpo quanto volontà fatta corpo, materializzazione della musica o della volontà: e in questo modo si spiega il perché la musica fa subito risaltare in più alta significazione ogni quadro, ogni scena della vita reale e del mondo; ed è evidente, che tanto più li fa risaltare, quanto più la sua melodia è analoga all’intimo spirito del fenomeno dato. Su ciò si fonda il fatto, che ad essa può appropriarsi una poesia come canto, o una rappresentazione visibile come pantomima, o l’una e l’altra come opera in musica. Tali singoli aspetti della vita umana che vengono sottoposti al linguaggio universale della musica, non sono ad essa legati o rispondenti per necessità generica; sibbene stanno rispetto ad essa solamente nel rapporto di un esempio arbitrario con un concetto universale: tali singoli aspetti rappresentano nella determinatezza della realtà quello che la musica esprime nella universalità della forma pura. Giacché le melodie, del pari che i concetti universali, sono in certo modo un’astrazione della realtà. Vale a dire questa, ossia il mondo delle singole cose, offre il visibile, il particolare, l’individuale, il caso singolo tanto alla universalità dei concetti, quanto all’universalità delle melodie; le quali due universalità sono sotto un certo aspetto opposte l’una all’altra; in quanto che i concetti comprendono solamente le fiume appena astratte dall’intuizione, e per così dire gl’involucri esterni tratti dalle cose, e sono dunque astratti nel senso vero e proprio, laddove la musica all’opposto offre il nucleo preesistente, intimo di ogni formazione, ossia il cuore delle cose. Cotesto rapporto può esprimersi esattamente col linguaggio degli scolastici, dicendo, che i concetti sono universalia post rem, la musica invece dà gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re. Ma che in generale sia possibile il rapporto tra una composizione musicale e una rappresentazione visibile, ciò si fonda, come si è detto, sul fatto, che l’una e l’altra espressione, per quanto diverse interamente tra loro, sono però espressioni della stessa intima essenza del mondo. Quando nel singolo caso una tale connessione tra la musica e la rappresentazione esiste realmente, vuol dire che il compositore ha saputo esprimere nel linguaggio universale della musica i moti della volontà che costituiscono il nocciolo di un dato avvenimento, allora la melodia del canto, la musica del melodramma è piena di espressione. Ma l’analogia scoperta dal compositore tra quelle due manifestazioni dell’essenza del mondo, bisogna che sia nata dalla conoscenza immediata della medesima essenza, all’insaputa della sua ragione; non deve essere minimamente un’imitazione condotta per disegno cosciente e prestabilito, mediata per mezzo di concetti; altrimenti la musica non esprime l’intima essenza, non esprime la stessa volontà, sibbene imita insufficientemente non altro che i suoi fenomeni, come fa la musica propriamente descrittiva».
Seguendo la teoria dello Schopenhauer, noi dunque intendiamo la musica come linguaggio immediato della volontà, e sentiamo la nostra fantasia stimolata a configurare quel mondo di spiriti che a noi parla, che è invisibile, eppure si move con tanto fervore, e a concretarcelo in un modello conforme. D’altra parte l’immagine e il concetto, sotto l’influenza di una musica davvero rispondente, raggiungono una più elevata significazione. L’arte dionisiaca suole dunque esercitare sulla facoltà artistica apollinea due specie di effetti: la musica incita alla visione allegorica propria dell’universalità dionisiaca; la musica eleva alla suprema significazione l’immagine allegorica. Da questi fatti per sé comprensibili e che non ammettono un più profondo esame, io inferisco la capacità che ha la musica di generare il mito, vale a dire l’allegoria più significativa, e propriamente il mito tragico: il mito, che della conoscenza dionisiaca parla per similitudini. Discorrendo del fenomeno del lirico ho mostrato, che nel lirico la musica tende a palesare la propria essenza in immagini apollinee: se ora riflettiamo, che la musica nella sua manifestazione suprema deve anche cercare di raggiungere una suprema figurazione, siamo indotti a tenere possibile, che essa abbia la facoltà di trovare anche l’espressione simbolica per la sapienza dionisiaca che è la propria; e dove mai troveremo cotesta espressione, se non nella tragedia e in generale nel concetto del tragico?
Il tragico, rettamente, non si può punto dedurlo dall’essenza dell’arte, quale è comunemente concepita secondo la sola categoria dell’apparenza e della bellezza: la gioia dell’annullamento dell’individuo noi la intendiamo solo quando venga ricavata dallo spirito della musica. Giacché solamente i singoli esempi di tale annullamento ci mostrano chiaro l’eterno fenomeno dell’arte dionisiaca, la quale conferisce l’espressione alla volontà, nella sua onnipotenza; volontà, che al disotto, per così dire, del principium individuationis, lavora alla eternità della vita di là da ogni fenomeno e nonostante ogni annullamento. La gioia metafisica del tragico è un trasferimento della sapienza dionisiaca istintivamente inconscia nel linguaggio dell’immagine: l’eroe, la manifestazione suprema della volontà, è annientato pel nostro diletto, perché esso non è altro che un fenomeno, e la eterna vita della volontà non viene punto toccata dal suo annientamento. «Noi crediamo all’eternità della vita», proclama la tragedia, mentre la musica è l’idea immediata di cotesta vita. Invece l’arte plastica ha uno scopo affatto diverso: qui Apollo supera il dolore dell’individuo con la luminosa glorificazione della eternità dell’apparenza; qui la bellezza trionfa del dolore insito nella vita; qui il dolore viene, in un certo seuso, espulso dal sembiante della natura. Nell’arte dionisiaca e nella sua simbolica tragica la stessa natura con la propria voce vera, schietta, ci ammonisce: «Siate come sono io! Io, che nella vicenda incessante dei fenomeni sono la madre primordiale eternamente creatrice, eterna impositrice dell’esistenza, che in questa vicenda dei fenomeni trova il suo eterno appagamento!».