I - La bella fetta d’angùria

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Dedica II
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Capitolo Primo.

La bella fetta d’angùria.

I calzoni di Aquilino erano corti per quelle gambe che si facevano ogni anno più lunghe; ma quella sera riserbavano al giovinetto una piacevole sorpresa, perchè sentì alcunchè di solido dentro una tasca. E non era la medaglia della Madonna, che mamà gli cuciva tra gli abiti: non era un baiocco del papa, ma una moneta con l’effige del re.

Nel cielo splendeva la luna piena d’agosto; sulla terra la gente andava in processione a respirare la frescura del mare, e sentire la banda.

Aquilino, trovata che ebbe la moneta, si fermò. Lì, presso la barriera, c’era un venditore di angurie. Le spaccava con la coltella e, al lume di una candela, esponeva quella roridezza di fiamma. [p. 2 modifica]

— Angurie dai semi mondi — vociava l’omaccione: — si mangia e si beve.

Aquilino stette un po’ considerando se era cosa più saggia comperare con quel denaro una misura di brustolini, o forse anche entrare arditamente nel caffè dei signori e comperare un’offella: cose nutrienti e solide. Ma vinse l’anguria, benchè acquosa.

Che bontà, ma come sottile quella fetta! E stava intagliando sulla scorza gli ultimi vestigi del rosso, quando il venditore gli si appressò, e gli portò una nuova fetta, grande quasi un quarto di anguria.

— Ma questo cos’è?

— C’è quel signore che gliela paga.

Il giovinetto si accorse allora che, un poco discosto da lui, sedeva un signore che mangiava anche lui l’anguria.

Sorrideva, e faceva cenno di «no»!

Era proprio un signore! con una bella barba e due occhi dolci e luminosi: ma una faccia forestiera; di quei foresti che vengono pei bagni di mare: anche perchè un signore della sua città mai si sarebbe seduto sotto una frasca a mangiare angurie.

— Mangi senza scrùpolo la sua cocòmera — disse la voce di quel signore —, io non [p. 3 modifica]c’entro. È quest’onesto cocomeraio che è stato preso da un violento accesso di rimorso per la fetta troppo sottile che le ha dato. È vero, signor cocomeraio?

Quel signore parlava a sbalzi, a sfumature, con un certo accento che Aquilino non avrebbe saputo ben definire di qual paese, ma non era la gorgia melliflua e cascante dei signori della sua città: oh, un forastiero.

— Sai? — disse poi confidenzialmente — non te ne avere a male; ma mi è parso che tu stavi facendo come dicono a Napoli: si mangia, si beve e si lava la faccia.

— La faccia me la lavo con l’acqua tutte le mattine.

— Oh, guarda! E allora prendi....

E così dicendo, gli diede una manciatella di confetti, di cioccolatini, di quelli ravvolti nella stagnola d’oro e d’argento. Gli sonavano nelle tasche. Aquilino si voleva schermire, ma fu vano.

— E adesso te ne vai anche tu al mare, a sentire la banda, eh?

— È un po’ tardi oramai, signore, e mamà non va a letto se prima non vado a casa io.

— Ma tu sei l’araba fenice dei figliuoli. Lavori anche? [p. 4 modifica]

— Studio, signore.

— Oh, guarda! e cosa studi?

— Il liceo, signore!

— Il liceo? — E colui corrugò le ciglia.

— Il liceo, sì: oh bella! Perchè mi guarda così?

E parve ad Aquilino che gli occhi di quell’incognito lo fissassero stranamente. Ma fu un attimo. Attinse dalle tasche altre manciate di confetti, e a forza li insinuò nelle tasche di Aquilino. — Così ne porti anche alla mamma che aspetta, vero? Oh, puoi accettare senza scrupoli. Io sono il padrone delle cose dolci: io vivo sempre in mezzo alle cose dolci.

— Cosa?

— Sono un dolciere. Vai, vai!