La Italia - Storia di due anni 1848-1849/Introduzione
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DUE PAROLE
Ho assistito alla rivoluzione di Parigi. — Vidi lo sviluppo rapido, complicatissimo di quella d’Italia. — Fui soldato, quindi ufficiale nella Colonna mobile de’ Modenesi, postasi a campo presso la cittadella di Mantova. — Durante lo armistizio pattuito col nostro continovo inimico, re Carlo-Alberto mi chiamò Capitano nel 23° reggimento di linea. — Nominato in seguito Rappresentante del Popolo per l’Assemblea Costituente di Roma dal suffragio dei miei conterranei della provincia di Ascoli, nelle Marche, tolsi la mia parte nella cosa politica del mio paese. — E allorchè quattro armate, con vario proclama e col medesimo intendimento, irruppero nel territorio della Repubblica, salito già da quel governo alle funzioni di Capitano di Stato Maggior Generale, ebbi l’onore di difendere in Roma, in Velletri e lungo lo assedio francese la inviolabilità della sacra terra italiana.
Sbandito per siffatte emergenze dal ristorato reggimento teocratico, dopo aver corso parecchie incresciose vicissitudini, trovai alla perfine asilo in Piemonte, all’ombra della nostra nazionale bandiera; della quale fortuna riferisco grazie a Dio ed agli uomini che me la procacciarono.
Ne’ due anni di politica rinascenza, io m’ebbi la ventura di veder molte cose, e di queste or mi piacqui, or mi dolsi, secondo che la bella e santa causa nostra onorassero, o deturpassero. La è mia mente che tutti per vario modo fallimmo, non intenzioni già, ma ne’ mezzi. E di essi farò mio studio nelle biennali memorie ch’evocai dal passato per confortare alcun poco la mia presente solitudine.
Scrivo da un posto, ove un esule illustre, chiedendo pace alla travagliata anima sua, disfogava l’atra bile contro i proprii nemici e della terra natia, collo inchiodare i lor nomi sulla gogna della immortalità. Quivi pure un altro grande poeta dettava canti sublimi pria che, soldato della liberta, muovesse ad aiutare coll’oro, colla sua fama e col braccio allo affrancamento di un popolo schiavo.
Non erede dello sovrumano genio di Dante, nè dello splendido ingegno di Byron, mostrerommi loro emulo nello ardente amore di patria, disceverando questo di ogni passionatezza di parte. Nè pure userò parole sdegnose ragionando di que’che caddero, o sursero; avvegnachè io ben mi conosca siccom’esse, ai pochi soddisfacendo, irritano i molti e non persuadono alcuno di quel vero che vuolsi a tutti chiarire.
Cercherò pormi tant’alto da osservar grandemente lo scopo nobile de’ generosi, e vedere come piccole macchie gli errori che alcun seppe commettere, e non perchè si addoppiassero i lutti e le vergogne d’Italia.
Terrommi beato, se qualche sincero amator della patria dirammi aver io raggiunto lo scopo.
Dalla Spezia, Novembre 1850.
C. Augusto Vecchj.