La Fontana di Bakcisarai/Testo
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Traduzione dal russo di Louis Delâtre (1856)
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Ghirei siede con gli occhi fisi al suolo; la pipa d’ambra fuma nella di lui bocca. La calma regna nel palazzo; i vili cortigiani s’affollano silenziosi intorno al minaccioso Khan.1 Tutti con rispettosa attenzione spiano su quella fronte accigliata i segni della rabbia e del dolore. Il monarca altero fa un cenno colla destra impaziente e tutti riverenti si ritirano.
Solo nella sua stanza, respira più liberamente, e i moti del suo cuore si riflettono con maggiore energia sulla sua fronte. Così il cristallo ondoso d’un golfo riproduce fedelmente l’imagine delle procellose nubi. Che cosa mai sconvolge quell’anima superba? Che progetto assorbe i pensieri di Ghirei? Forse vuol muover guerra ai Russi, imporre leggi alla Polonia? Forse lo divora la sete di sanguinosa vendetta? Oppure scopri una congiura nell’esercito? O finalmente lo inquietano l’odio dei suoi popoli e le insidie dello scaltro Genovese?
No: egli è sazio ormai di gloria militare. La sua mano micidiale si riposa dalle fatiche bèlliche, e la passione della guerra non gli infiamma più la mente.
Forse penetrò il tradimento nel suo harem, e qualche odalisca educata nella schiavitù e nella mollezza, diede il cuore a un giaur?
No: le timide spose di Ghirei non ardiscono nė pensare nè desiderare, e sebbene oppresse da una tetra noia, esse non concepiscono idea di tradimento. Rinchiuse in un carcere invigilato da custodi assidui e inesorabili, ivi splendono in voluttuosa quiete come fiori esotici sotto le vetrine di una stufa. Per esse, i giorni, i mesi, gli anni fuggono in monotona fila, portando via seco a mano a mano la gioventù e l’amore. I dì passano tutti simili fra loro, e le ore sembrano lente. L’ozio e la pigrizia sono gli arbitri dell’harem; ben di rado vi s’insinua il piacere. Quando le giovani recluse provano l’angoscia e il tedio, lo dissipano cambiando abbigliamento, giocando, chiacchierando, oppure passeggiando in leggiadra schiera al mormorar delle acque zampillanti, al rezzo dei platani fronzuti. Un malizioso eunuco le segue in ogni parte; non possono sottrarsi alla sua vista. Il di lui sguardo scorge tutto, il di lui orecchio ode tutto. Per sua cura fu stabilita una regola di vita invariabile. Sua unica legge è il volere del Khan, e l’adempie colla stessa scrupolosità che i precetti del Corano. L’eunuco non sa che sia amore; impassibile come una statua, egli accoglie con indifferenza le beffe, la rabbia, le mortificazioni, gli oltraggi d’una petulanza impudica, il disprezzo, le preghiere, i languidi sguardi, i flebili sospiri, le timide lagnanze. Egli conosce bene l’indole delle donne, sa quanta sia l’astuzia femminile in libertà e in cattività. Nè le tenere occhiate, nè le mute rampogne, nè le lacrime hanno potenza su lui; egli ormai più non ci crede.
Quando le belle prigioniere, spargendo i lunghi crini al vento, vanno, durante i calori dell’estate, ad attuffarsi nel ruscello e spandono sulle rosee membra l’onda argentea della fonte, l’eunuco testimone eterno delle loro azioni fa sentinella al bagno. Mira senza emozione quelle elette forme nude. Quando spiega la notte il nero suo manto, l’eunuco schiude una porta obediente, s’avanza a passi taciti sui tappeti morbidi, striscia quatto quatto di letto in letto; agitato da continua tema, osserva attentamente le belle addormentate, e ascolta il loro bisbiglio notturno; nota i sospiri, gli aliti, i minimi fremiti; di tutto fa tesoro, e guai a colei che sognando proferisse un nome straniero! Guai a colei che confidasse alla benevola compagna qualche sfrenata e matta cupidigia!
Qual mai sarà dunque la causa dell’ira di Ghirei? La pipa gli s’è spenta fra le mani, il servo aspetta immobile sulla soglia gli ordini del suo signore e osa appena respirare. Il regnante pensieroso si rizza in piedi; la porta s’apre avanti a lui. Silenzioso egli s’avvia alla dimora delle donne altre volte a lui sì care.
Esse, aspettando il Khan, si sono assise in vari gruppi attorno a una fontana gorgogliante. Con infantile gaudio, mirano il pesce che guizza in quello specchio liquido o rasenta il fondo della marmorea vasca. Alcune di esse vi gettano per diletto i loro orecchini d’oro. Frattanto le ancelle portano in giro i sorbetti odoriferi; poi intuonano un canto sonoro e gaio che fa echeggiar le sale.
canzone tartara.
I.
Largisce il cielo agli uomini il compenso delle pene e delle lacrime: beato il Fachir2 che vede la Mecca nei tristi anni della sua vecchiaia.
II.
Beato colui che s’illustra morendo sulle gloriose sponde del Danubio: una celeste fanciulla gli volerà incontro, sorridendo d’amore.
III.
Ma più beato assai, o Zarema, colui che ebro di calma e di mollezza ti accarezza come rosa, nel recinto dell’harem.
Esse cantano. Ma dov’è Zarema la stella dell’amore, la perla dell’harem? Afflitta e pallida non ode le sue lodi; come una palma rabbuffata dai venti, essa piega la giovine testa; più niente può piacerle. Ghirei è cambiato! Ghirei non l’ama più.
Ma qual è la donna che ti si possa anteporre, o Zarema? I bruni capelli ti cingono due volte la nivea fronte; gli occhi tuoi son più chiari del giorno, più neri della notte. Qual voce sa meglio della tua esprimere gli slanci delle focose passioni? Qual bacio tenero è più vivo delle tue carezze? Come mai un cuore pieno della tua imagine può palpitare per una altra amante? Eppure, l’indifferente e feroce Ghirei disdegna i tuoi favori, e consuma le gelide ore della notte nella mestizia e nella solitudine, dacchè una principessa polacca abita il suo harem.
Non è molto che la giovane Maria vive sotto estranio clima: poco fa, essa fioriva nella propria famiglia accanto a un padre affettuoso che la chiamava sua consolazione e sua gloria. La di lei fanciullesca volontà gli era legge. Una sola cura lo occupava: ambiva che la sorte della diletta figlia fosse splendida come un dì di primavera; che nè anche il minimo duolo conturbasse il di lei petto, e che dopo maritata, si ricordasse con delizia il tempo dell’adolescenza, quelle ore festose e gioconde che si dileguano come lieve sogno. Ogni cosa in lei destava maraviglia: l’indole gentile, i moti graziosi, vivaci, gli occhi d’un azzurro cupo. Ai doni della natura univa quelli dell’arte e allegrava i banchetti domestici coi suoni melodici dell’arpa. Molti potenti e ricchi signori chiedevano la di lei mano, e molti giovani timidi sospiravan per lei di secreto amore. Ma la vergine tranquilla e candida non conosceva ancora le passioni, e nel castello del padre dedicava l’ore dell’ozio a scherzare colle care compagne.
Non durò molto quella felicità. Una orda di Tartari si sparse per la Polonia, colla rapidità d’un torrente che invade le pianure, o d’un incendio che divora le mèssi. Le fiorenti contrade devastate dalla guerra, divengono un deserto; cessano gli innocenti sollazzi e i giuochi; spariscono i villaggi e i querceti. Il magnifico castello è desolato, la camera di Maria è vuota e muta. — Nella cappella del palazzo ove in lunga riga dormono le fredde reliquie degli avi con intorno corone e stemmi nobiliari, ora s’inalza una nuova sepoltura. Il padre è morto, la figlia è schiava. Un avaro straniero possiede il castello e spreme con estorsioni tiranniche gli infelici abitatori della campagna.
La corte di Bakcisarai accoglie la giovane principessa; ma la bella vi si strugge in pianto e in gemiti, nè può assuefarsi alla prigionia cui è ridotta. La di lei disperazione, le lacrime, i sospiri, turbano il sonno breve del Khan, il quale fa di tutto onde lenir la doglia della sua captiva, e mitiga per essa l’austerità delle leggi dell’harem. Essa entra nel bagno senza altri testimoni che una serva. Il truce custode delle odalische non penetra da lei nè di giorno nè di notte; non la pone egli in letto con quelle sue mani effeminate, nè osa neppure fissarle gli occhi in volto. Il principe medesimo non ardisce turbare il riposo della vergine prigioniera: le concesse di vivere sola nella più estrema parte della reggia, e diresti che in quel misterioso ricetto s’annida qualche ente più che mortale. Ivi perpetua arde una lampada davanti all’imagine della Madre di Dio; ivi la speranza, ultimo conforto degli afflitti, dimora colla fede e l’umiltà; ivi la sventurata fanciulla si pasce delle rimembranze della patria vicina e così cara, e si lamenta e chiama le dolci compagne che l’invidiano forse. Mentre in tutto il palazzo domina la mollezza e la follia, un angolo di quello diviene, o miracolo d’amore! il santuario della castità e della virtù. Così, anche in mezzo all’ebrezza d’una vita dissoluta, il cuore talvolta riman puro e serba intatto il suo sacro deposito: il sentimento della divinità....
Sorge la notte. Le amene campagne della Tauride si vestono di tenebre; in lontananza, fra le fronde immote degli allori, io odo il gorgheggiar del rosignolo... La luna spunta nel ciel sereno attorniata d’un coro di stelle, e tinge d’un color ceruleo le valli, le colline, le selve. Le donne agili e snelle come ombre passano per le vie di Bakcisarai, e vanno nelle case degli amici a spendere le ore disoccupate della sera.
La reggia tace; l’harem giace immerso in pacifico sonno; nessuno strepito interrompe la quiete notturna. Il fido e vigilante eunuco ha adempito la ronda nel dormitorio. Adesso egli riposa, ma l’ansia assidua gli amareggia quella breve requie. Il sospetto atroce del tradimento non cessa un istante di aizzarlo. Gli pare sentire ora un calpestío, ora un bisbiglio, ora un grido; ingannato dall’orecchio incerto, si solleva spaventato, tremante e ascolta con orrore.... ma ogni cosa tace intorno, e nessun suono s’ode in vicinanza, fuori quello delle acque zampillanti che scaturiscono dalla loro prigione di marmo, e l’inno che il rosignolo modula nella oscurità alla rosa sua compagna diletta e inseparabile. L’eunuco sta attento un buon pezzo, ma invano.... poi finalmente di nuovo socchiude le palpebre.
Quanto son belle le chiare notti del voluttuoso Oriente! Quanto soavi scorrono quelle ore per gli adoratori del Profeta! Che lusso splende nelle loro magioni, nei giardini incantati, ne’ silenziosi e impenetrabili harem, ove sotto il candido raggio della luna, par ch’ogni cosa si bei di mistero, di silenzio e d’amore!
Le donne dormono. Una sola veglia; respirando appena essa balza da letto; con mano frettolosa schiude la porta, e con passo snello s’inoltra nelle ombre della notte. Sopito in lieve e trepido oblio, il vecchio eunuco giace davanti alla soglia. Egli è inesorabile e astuto; il suo riposo non è che apparente.... essa passa leggera come spettro.
Titubante e sbigottita, arriva ad una porta, gira lentamente la maniglia della serratura; entra, guarda intorno, un secreto terrore s’insignorisce d’ogni suo sentimento. Scorge nella camera la fiammella dubbiosa d’una lucerna, un armadio fievolmente lumeggiato da quella lampada, una piccola imagine della Beata Vergine, e un crocifisso, simbolo sacrosanto di carità.... Questi oggetti destano nell’animo della Georgiana la grata rimembranza e il dolce eco dei giorni remoti. S’arresta innanzi al letto della bella Maria. Il colore d’un sonno giovenile inostra quelle guance ove rifulge un melancolico sorriso, sebben tuttora vi appaiano i vestigi di lacrime recenti. Così talvolta il riflesso della luna imbrillanta un fiore affogato dalla pioggia. E Zarema, curva presso all’infelice, sembrava un angelo dell’Eden, sceso in terra a consolare la misera prigioniera del serraglio. Il di lei cuore si stringe angosciosamente; i di lei ginocchi si piegano a suo malgrado; essa prega: “Abbi pietà di me; non respingere i voti miei....”
Quelle parole, quella agitazione, quelli aneliti, risvegliano la principessa. Vede con timore la giovine incognita prostrata al suolo; tutta confusa, la rialza da terra, dicendo: “Chi sei? perchè sola, a questa ora, in queste mura? Che brami?...”
“Io cerco di te, mi puoi salvarla vita, ogni mia speranza è in te riposta.... Fui felice un tempo.... viveva in sicurtà e in gioia.... ma svanì ormai ogni mio bene; io muoro. Ascoltami.
“Io nacqui lontan di qui.... ma le ricordanze dei miei primi anni sono altamente impresse nella mia memoria, ed io rimembro tuttora i monti alzati al cielo, i tepidi ruscelletti delle pendici, i querceti impenetrabili, altre leggi, altri costumi; ma per che decreto della sorte io lasciassi il patrio lido, non so; soltanto mi sovviene del mare e d’un uomo ritto sopra un albero di nave sopra le vele.... Fin adesso la paura e l’ambascia mi furono incognite; soffriva in pace all’ombra dell’harem, e aspettava i primi diletti d’amore con paziente ansia e trepidazione. I miei secreti desiderii vennero esauditi. Ghirei rinunziò alla guerra sanguinosa, per addarsi alla dolce voluttà; cessò le sue tremende spedizioni, e tornò nelle mura dell’harem. Venimmo tutte al cospetto del nostro signore, con un palpito di incerta speranza. Egli fissò sopra di me il suo sguardo tranquillo e sereno.... Da quel giorno in poi, godevamo una felicità perfetta e continua, e nè la calunnia, nè il sospetto, nè la gelosia crudele, nè il disgusto, avevano interrotto la nostra unione.... Ma tu gli apparisti, o Maria!... da quell’istante, l’anima sua cova un empio disegno.... Ghirei non pensa che a tradirmi, chiude l’orecchio alle mie rimostranze; i sospiri miei lo molestano, non mi degna più delle sue attenzioni nè del suo amichevole consorzio. Non sei complice della sua perfidia; non sei partecipe del suo tradimento, io lo so; quindi ascoltami.... io son bella; tu sola in tutto l’harem, potresti gareggiar meco; ma io son nata alle passioni, mentre tu non puoi amare come amo io; perchè, dunque o fredda vergine, martiri un debol cuore? Non mi contender Ghirei: egli è mio; le sue carezze mi ardono come fiamma; egli s’unì a me con solenne giuramento; da gran tempo, egli ed io, non abbiam che un consiglio, che un pensiero. La sua infedeltà mi uccide.... io piango!... io sto ginocchione innanzi a te. Io ti supplico, non osando accusarti.... ah rendimi la gioia e la pace; rendimi il mio Ghirei, qual era prima.... Non replicar parola.... egli è mio; egli delira per te.... rispingilo, disgustalo col disprezzo, coi prieghi, colle lacrime.... con quel che vorrai; giurami.... sebben io ora adori il Corano, crebbi nella tua fede, che era la fede di mia madre.... giurami per il tuo Dio, che riconcilierai Zarema con Ghirei.... Ma senti.... se io dovessi!... ricordati ch’io nacqui a piè del Caucaso, e so adoprare lo stiletto.”
Disse e sparve. La principessa non ardì seguirla. L’innocente giovinetta ode per la prima volta il linguaggio delle passioni tormentose, l’ode con maraviglia e con spavento. — Che lacrime, che preghiere potranno salvarla dall’opprobrio? Che sorte la minaccia? Passerà essa i suoi giorni in quella vergognosa condizione? Se Ghirei potesse dimenticarla per sempre nel di lei longinquo carcere, o se volesse troncare innanzi tempo il sottile stame della di lei vita! Con che giubilo Maria abbandonerebbe questa valle di dolore! Le sue ore di beatitudine svanirono e non torneranno più! Che farebbe essa nel deserto di questo mondo? È tempo di partire; Maria è aspettata in cielo, nel seno della calma e del sorriso eterno.
Alcuni giorni passano. Maria è spenta. L’orfanella è sparita in un momento; novello angelo di Dio, essa splende ora nel tanto sospirato paradiso. Chi la precipitò nel sepolcro? Forse il rammarico della sua disperata prigionia o qualche altro dolore?... Nessuno può dirlo. — Solo è certo che la gentil Maria cessò di vivere. — L’orrendo serraglio è vuoto. Ghirei l’ha derelitto, e alla testa d’una turma di Tartari egli ha invaso una terra vicina. Spietato, sitibondo di sangue come prima, s’abbandona di nuovo al turbine della guerra, ma serba aperta nel cuore la piaga d’un amore insanabile; spesse volte in mezzo alla battaglia, il suo brando alzato per ferire, a un tratto s’arresta; Ghirei volge gli occhi intorno sbalordito e attonito, impallidisce come côlto da subito terrore, susurra alcune parole indistinte, e versa un torrente d’amare lacrime.
Ghirei sdegna e dimentica il suo harem; le sue donne sventurate invecchiano e languono in quelle triste soglie sotto la custodia dell’eunuco. La Georgiana più non trovasi in mezzo ad esse; già da un pezzo le guardie del Khan la sommersero nell’abisso delle onde. Nella notte in cui morì la principessa finirono gli strazi della di lei gelosa rivale. Qualunque fosse la colpa della bella Georgiana, atroce, immane fu il castigo.
Dopo che Ghirei ebbe messo a ferro e a fuoco le circostanti valli del Caucaso e le tranquille campagne della Russia, tornò nella Tauride, e fece edificare, in onore di Maria, una fontana marmorea in un angolo recondito della reggia. Una mezza luna d’argento vi splendea sotto l’ombra d’una croce, empia confusione dei due riti, e segno manifesto di ignoranza. Fece incidere sopra al frontispizio una iscrizione che il tempo edace non ha ancora consunta. Dietro a questa fabbrica bizzarra, l’acqua mormora in una vasca di marmo dalla quale risale in lucide stelle che mai non vengono meno, e sembran piangere la sorte di Maria. Tale una madre inconsolabile spande perenne tributo di pianto sulla lapida del figlio estinto nelle pugne. Le fanciulle del paese conoscendo l’antica tradizione, chiamano quel funebre monumento la fontana delle lacrime.
Esule dal settentrione, e dai giocondi divertimenti della capitale, io visitai il palazzo di Bakcisarai sepolto nell’oblio. Errai per le silenziose sale, ove risiedeva il feroce Khan flagello dei popoli, e ove reduce dalle sue incursioni depredatrici dedicava i giorni ai banchetti e all’ozio voluttuoso. La mollezza tuttora respira nelle stanze e nei giardini inabitati: le acque scherzano, le rose rosseggiano, i grappoli s’avviticchiano alle spalliere, l’oro scintilla sulle pareti. Vidi le grate antiche dietro a cui le donne prigioniere consumavano il fior degli anni loro, gemendo in secreto, e contando i grani delle loro corone d’ambra.3 Vidi il cimitero dei Khan, ultima dimora dei dominatori del mondo. Quelle stele funebri, cinte d’un turbante di sasso, pareva che mi dichiarassero apertamente i decreti del fato. Ove sono i Khan? Ov’è l’harem? Tutto tace all’intorno, tutto sparì, tutto cangiò. Ma poco a poco, un altro pensiero soggiogò il mio cuore: l’olezzo delle rose, il rombo delle fontane m’immerse in una involontaria meditazione, in mezzo a cui scorsi un’ombra di fanciulla che spaziava nel lucido azzurro....
Chi era quello spettro, amici miei? Dite, che imagine era quella che m’inseguiva nell’harem deserto, e ch’io non poteva respingere, nè evitare? Forse la casta anima di Maria, o l’anima iraconda e gelosa di Zarema? Sempre ho presente all’idea quell’occhiata tenera, e quelle forme ancora terrestri.
Adoratore delle Muse e della quiete, dimentico della gloria e dell’amore, io in breve vi rivedrò, o gaie spiagge del Salghir. Perlustrerò di nuovo le falde amene dei monti marittimi, e i flutti cerulei della Crimea rallegreranno ancora la mia vista. Regione incantata, delizia dei cuori! Colà tutto vive e sente: i colli, i boschi, le vigne onuste di rubini e di topazi, le valli ombrose e fresche, i ruscelletti garruli, fiancheggiati di pioppi.... tutto eccita l’ammirazione del viandante, il quale scorrendo a cavallo la strada in riva al mare, a piè dei poggi, vede, per un bel mattino d’estate, davanti a sè le onde verdeggianti dell’Eusino che lampeggiano al sole, e spumano e mugghiano intorno alle radici dell’Aiu-dagh....