La Colonia Eritrea/Conclusione
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CONCLUSIONE.
Ecco esposte sommariamente le vicende della nostra colonia, dalla sua origine fino al terzo anniversario della battaglia d’Adua, e dal loro esame superficiale appare subito evidente che se la nostra patria in questo suo primo esperimento di colonizzazione non ha fatto tutto di bene, non ha neppur fatto tutto di male.
Ora limitata da una linea che dal capo Kasar addentrandosi nel continente africano abbraccia le vaste regioni degli Habab, dei Beni Amer, dei Baria, dei Mensa e dei Bogos, e congiungendosi poi con quella del Mareb-Belesa-Muna rinchiude le regioni abissine dell’Amasen, del Seraè, e dell’Okule Kusai, e rasentando poscia l’orlo orientale dell’altipiano etiopico e il Sultanato dell’Aussa, taglia la costa Dancala, fin quasi presso lo stretto di Bab El Mandeb l’Eritrea ha una estensione di quasi 100000 kmq. di territorio ed una popolazione di circa mezzo milione di abitanti.
Se si dovesse considerare il breve tempo impiegato nell’impiantarla, l’importanza della sua posizione in relazione alla vita politica e commerciale che si svolge sul mar Rosso ed a quella che indubbiamente rinascerà e si farà grande nella valle del Nilo rientrata nel dominio della civiltà anglo-egiziana; se si dovesse considerare senza esagerato ottimismo, ma anche senza pessimismo preconcetto, la produttività agricola e commerciale che può sperarsi colle cure e col tempo da’ suoi terreni, e la sua suscettibilità di miglioramento, forse l’amor proprio della nostra Italia potrebbe esserne lusingato, nè vi sarebbe motivo di pentimento del passo fatto.
Tuttavia la memoria dei recenti sacrifici e disastri subiti ha prodotto nel paese un’avversione che è altrettanto ingiustificata, quanto era inopportuna l’eccessiva speranza e gli irrefrenati entusiasmi che per un lungo periodo di tempo accompagnarono i movimenti nostri di espansione coloniale.
Avviene così sempre nella vita umana di cui si scordano tanto facilmente i piaceri e le gioie, e dura invece il ricordo dei dolori e delle sventure specialmente quando a questi si connettono le sofferenze negli interessi.
Ma come degli individui, è pure dovere dei popoli forti e virili il non lasciarsi abbattere dall’avversità, ma di saperla dominare e riparare.
E per riparare ai danni già subiti non sarebbe certamente il miglior modo quello di propugnare ora, come fanno taluni, l’abbandono di una Colonia che se non è un Eldorado non è neppure un Sahara, mentre 14 anni or sono, quando l’impazienza e l’entusiasmo spronavano l’Italia alle imprese coloniali, essa avrebbe giocato quasi la sua unità per conquistare un sasso nel Mediterraneo o nel Mar Rosso.
Ma può invece convenire: prima di tutto assicurarsi quella frontiera che fu riconosciuta la più utile la più facilmente difendibile cioè quella del Mareb-Belesa-Muna, appoggiandosi più che alla speranza nei trattati, di una efficacia molto dubbia e sempre provvisoria, ad un buon sistema di fortificazioni per cui gli Abissini, e l’animo di Galliano informi, provano un sacro orrore; in secondo luogo dedicare molte cure alla colonizzazione interna, servendosi anche dell’opera degli stessi ascari che potrebbero trovare la loro paga naturale nello sfruttamento del terreno senza abbandonare il servizio delle armi; quindi aspettare che il commercio coll’Abissinia si ravvivi da sè al soffio potente della civiltà; e specialmente ora che gli inglesi sono padroni del Nilo promuovere quello da Kartum, per Kassala, a Massaua.
Forse per qualche tempo ancora l’Eritrea sarà un onere più o meno forte per la madre patria, ma non per questo è consigliabile l’abbandonarla ora che tanti interessi materiali e morali la tengono a noi avvinta.
Le popolazioni soggette si sono sacrificate per metà alla nostra causa e sarebbe un’empietà l’abbandonarle alle rappresaglie ed alle vendette feroci di nuovi signori; l’affiatamento tra dominanti e indigeni è completo, ed ormai dai matrimoni avvenuti, non pochi Eritrei novelli sanciscono i vincoli tra le due razze; numerosi lavori di costruzioni edilizie, stradali e fluviali, impianti di poderi, coltivazioni di campi, e seminagioni di piante rappresentano certi capitali che sebbene per ora diano pochi frutti, ne promettono indubbiamente per l’avvenire degli importanti, ed abbandonarli nelle mani del nemico costituirebbe un suo vantaggio ed un suo trionfo.
Ormai questa Eritrea ci costa quasi quattrocento milioni e più di 6000 vittime bianche e l’abbandono di essa dopo tali sacrifici imprimerebbe all’Italia nostra una tale taccia di debolezza o di viltà che prima o poi si dovrebbe scontare.1
Dunque non abbandonarla; ma curarla, aspettando che il tempo e gli eventi e le cure la rendano se non proficua alla patria almeno bastevole per sè, ciò che al dire di molti deve ritenersi tutt’altro che impossibile e neppure assai lontano; purchè le lezioni del passato servano di norma per l’avvenire, purchè l’Italia sappia approfittare di quel tanto di buono che i suoi sacrifici le arrecarono e non lo cementi con nuove imprese, con nuovi errori che dopo quelli del passato sarebbero imperdonabili.
Note
- ↑ Secondo un rendiconto consuntivo presentato dal Governo alla Camera, l’Italia dal 1882 al 1 Luglio 1898 avrebbe speso per l’Eritrea L. 368,921,832. Attualmente la spesa è ridotta intorno agli 8 milioni annui, oltre ai due milioni e mezzo circa di entrate che dà la Colonia. Con questo stanziamento si provvede ai bisogni di tutti i possedimenti coloniali, compreso Assab e il Benadir.