La Chioma di Berenice - Discorsi e considerazioni (1913)/Considerazione quinta - Giuramento

Considerazione quinta - Giuramento

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CONSIDERAZIONE QUINTA

Giuramento.

* «Ne’ soli giuramenti non istá la giustizia».
Minerva presso Esch., Eumenidi, alt. IV, se. 1. *

          40.... Adiuro teque tuunmqnue caput.
          Digna ferat, quod si quis inaniter adiurarit.

Gli stoici prescrivono che si ricusi il giuramento a tutto potere (Epitteto, cap. 44); e, se pur è da giurare, si giuri soltanto o per trarre l’amico di manifesto pericolo, o per i parenti e la patria (Simplicio, Coment, ad Epitt., ibid.). * Anche tra le reliquie di Menandro:

Ὄρκσον δε φεῦγε, κᾷν δικαίος ὀμνύης..

«Schiva il giuramento, quand’anche sia giusto»: religione dei quacheri. * L’accusatore di un omicida giurava all’areopago ch’ei diceva il vero. Se l’accusa non era provata, non era punito, ma consecrato per lo spergiuro all’ira divina. «Quantunque egli siasi obbligato al sacramento, non però gli si crede. Convinto di calunnia, chi vorrá redarguirlo? Ma sé ed i figliuoli, e l’intera famiglia avrá di nefando e sterminatore sacrilegio contaminati». Demostene Contro Aristocrate. So d’avere letto nell’antico scoliaste di Pindaro, sebbene or non mi torni a mente il testo, che gli antichi, per timore dello spergiuro, si contentavano della sola formola del giuramento, omettendo il nome degli dèi. Essendo la religione de’ greci incorporata negli affari politici, gli spergiuri consecrati all’ira de’ numi erano oppressi ad un tempo dalla pubblica infamia. * La giurisprudenza nostra ha molte leggi sul giuramento e su lo spergiuro, ma si contraddicono tutte. Vedi Digesto, De iureiurando; ma la giurisprudenza

          diruit, aedificat, mutat quadrata rotundis,

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perché non v’è verace filosofia, che possa praticamente gittare basi sicure del giusto e dell’ingiusto. All’etá d’Abramo si giurava veritá toccandosi i genitali; uso restato agli arabi moderni. «Sollevò l’egizio la sua camicia, ed, impugnandosi il pene, stava nell’atteggiamento di un iddio giurante per lo Stige. Non intendeva io le sue parole; ma l’atto e il suo volto mi dicevano: — Questo mio terribile sacramento non ti prova la mia innocenza?». — Lettre de l’adjutant-général Jullien, de Rosette en Egypte, le 20 vendèmiaire an VII, iuserita nella Decade egiziana, vol. vii, n° 2; e Genesi, cap. xxiv e xlvii, ove vedi Caimet e Sacy. * Questa formola «Adiuro teque tuumque caput» era famigliarissima a’ greci; onde Giovenale, satira vi, v. 16:

               ... Noncium graeci iurare parati
               per caput allerius.

Ma a torto il satirico morde i greci, ch’ei doveva mordere e gli ebrei (Matth., v, verso 36), ed i romani de’ suoi tempi, che giuravano «per salutem et genium principis», e gli sciti sin dall’etá piú antica «per solium regis, ventum et acinacem» (Luciano in Toxari). Giuramento ch’io trovo pieno di sapienza, e di cui parlerò, poiché a quel luogo i cementatori non parlano. Gli sciti comprendevano in quel giuramento «le leggi, la religione e la forza», dominatrice di tutto quello che vive. La prima parte sta nel «solium regis», ed è da osservare quanto accortamente giurassero piú per la dignitá che per la persona. Il «vento» era dagli antichi preso per l’anima; anzi «anime» sono i venti presso Orazio (lib. iv, od. xiii, 2); * e Lucrezio chiama «anima» l’elemento dell’aria, lib. ii, 715:

          Et qui quatuor ex rebus posse omnia rentur
          ex igni, terra, atque anima procrescere et imbri-;

voce derivante dalla greca ἄνεμος, «vento»: cosí πνεῦμα, «spiritus», e mille altri siffatti: anzi la voce ψυχή, con che piú comunemente da’ greci si chiama l’«anima», suona «refrigeratio». Cassiodoro (Expositio in psalm. 103, v. 3) interpreta i «venti» del poeta ebreo essere le «anime de’ giusti». Or, poiché per la storia di tutte le religioni sappiamo che la speranza di un’altra vita è riposta nell’anima, la quale si crede superstite alla morte del corpo, lo scita, dopo la «patria e le leggi», giurava per la «speranza» o pel «timore» del Tartaro. La terza parte del giuramento è riposta nella «forza» della «propria spada», a cui gli uomini veri ricorrono, quando veggonsi [p. 294 modifica] traditi dai principi * ed abbandonati dal cielo. * Gli amanti giuravano per gli occhi. Tibullo, iii, eleg. 6:

               Perque suos fallax iuravit ocellos.

E Plauto, Menaech ., att. v, sc. 9:

                    Si voltis per oculos iurare.

E Properzio, lib. i, eleg. 15, 33; ed in Petronio: «Tetigit puer oculos suos, conceptisque iuravit verbis, sibi ab Ascylto nullam vim factam». E, con piú tenerezza d’affetto, in Apuleio, Metam., lib. iii: «Fotidis, et admota meis luminibus», et seq. — Vide Nasonem, Amor., lib. ii, eleg. 16, v. 43, et lib. iii, eleg. 3, v. 11.

Tornando al giuramento della chioma, e considerandolo poeticamente, per chi con piú passione poteva ella giurare che per lo capo della sua donna, ove pur sospirava di ritornarsi? I giuramenti fatti sobriamente e con pietá fanno l’orazione sublime, perché, intermettendo le cose divine alle umane, aprono un sentiero al meraviglioso, e, facendone temere la vendetta celeste contro lo spergiuro, ci tramandano i concetti nel cuore, pieni di passione e di voluttuoso ribrezzo, quando specialmente si giura per cose care e perdute, le quali ridestano le dolci e dolorose rimembranze del passato. Perciò Longino (sezione xvi) allega per esempio di sublime il giuramento di Demostene per le anime de’ morti in Maratona. Cosí è pieno di magnificenza, perché porta tutti i pensieri del lettore sulle grandi speranze del futuro, quel giuramento d’Ilioneo: Eneid., vii, 234:

                    Fata per Aeneae iuro.

E pieno di profondo dolore è quello di Pier delle Vigne in Dante: Inferno, canto xiii, v. 73:

                    Per le nuove radici d’esto legno
               vi giuro che giammai non ruppi fede
               al mio signor...

Ma chi vuole sentire la forza di questi versi, legga tutto il discorso di quel venerando suicida. Quintiliano scrive alcuni precetti sul giuramento, ma son tutti da poco; ed insegna assai piú, quand’egli (lib. iv, nel proemio), narrando a Marcello Vittorio le proprie sciagure domestiche, esclama: «Iuro per mala mea, per infelicem conscientiam, per illos manes numina doloris mei...». * Ma i piú magnifici giuramenti, e tutti pieni di deitá, sono in Omero fatti da Giunone. Lib. xiv, v. 271 sg. e lib. xv, v. 36 sg. *