L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo XI

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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L’ISOLA MISTERIOSA



PARTE SECONDA


CAPITOLO XI.


L’inverno — Follatura della lana — Il mulino — Un’idea fissa di Pencroff — I fanoni — A che cosa può servire un albatro — Il combustibile dell’avvenire — Top e Jup — Uragano — Danni nel cortile — Un’escursione al Marese — Cyrus Smith solo — Esplorazione del pozzo.

S’avanzava l’inverno con quel mese di giugno, ch’è il dicembre delle zone boreali, e la maggiore occupazione fu quella di preparare vestimenta calde e solide.

I mufloni del ricinto erano stati spogliati della loro lana, ed ora non si trattava più che di trasformare in istoffa la preziosa materia tessile.

Si comprende facilmente che Cyrus Smith, non avendo a sua disposizione nè cardatrici, nè pettinatrici, nè lisciatrici, nè stiratrici, nè torcitrici, nè mule-jenny, nè self-acting per filar la lana, nè telajo per tesserla, dovette procedere in un modo più semplice così da risparmiare la filatura e la tessitura. E infatti egli si proponeva semplicemente di trar partito dalle proprietà che hanno i filamenti di lana compressi in tutti i versi di aggrovigliarsi e formare quella stoffa che si chiama feltro. Codesto feltro po[p. 6 modifica]teva dunque ottenersi con una semplice follatura, operazione che, se scema la morbidezza della stoffa, ne accresce le proprietà conservatrici del calore. Ora la lana dei mufloni era fatta di pezzetti cortissimi, ottima condizione per fabbricare il feltro. L’ingegnere ajutato dai compagni, compreso Pencroff — il quale, ahi! dovette abbandonare ancora una volta il suo battello — cominciò le operazioni preliminari aventi per iscopo di torre alla lana quella sostanza oleosa e grassa di cui è impregnata. Codesto sgrassamento fu fatto in tinelli pieni d’acqua, che fu portata alla temperatura di settanta gradi; in essi la lana stette a bagno per 24 ore; e fu fatta di poi la lavatura per mezzo di bagni di soda, e quando questa lana fu sufficientemente disseccata dalla pressione, si trovò in grado di essere follata, di produrre cioè una stoffa forte, grossolana, senza dubbio, e di nessun valore in un centro industriale d’Europa o d’America, ma di cui si doveva far gran conto nei “mercati dell’isola Lincoln.”

Si comprende che questo genere di stoffe deve essere stato conosciuto fin dai tempi più remoti; infatti le prime stoffe di lana furono fabbricate appunto col processo che Cyrus Smith stava per porre in pratica.

Dove la sua qualità d’ingegnere gli tornò utilissima, fu nella costruzione della macchina destinata a follare la lana, perocchè egli seppe abilmente approfittare della forza meccanica, rimasta inutile fin allora, che possedeva la cascata d’acqua del greto, e ciò per muovere una gualchiera.

Nulla di più rudimentale. Un albero munito di listelli che sollevavano e lasciavano ricadere, a volta a volta, pestelli verticali, truogoli destinati a ricevere la lana, all’interno della quale ricadevano i pestelli, un’armatura robusta che conteneva e collegava tutto il sistema; tale fu la macchina in questione, e tale era stata per secoli, fino al momento in cui si [p. 7 modifica]ebbe l’idea di sostituire i pestelli con cilindri compressori e di sottoporre la materia non più ad una battitura, ma ad una vera laminatura.

L’operazione, ben diretta da Cyrus Smith, riuscì benissimo. La lana, prima impregnata d’una soluzione saponacea che doveva facilitarne da una parte lo scivolamento, il ravvicinamento, la compressione, ed il rammollimento, uscì dal mulino in forma d’una grossa coperta di feltro; le asperità, di cui la lana è naturalmente fornita, si erano attaccate così bene le une alle altre, da formare una stoffa egualmente adatta a far vestimenta e coperte. Non era, ben si sa, nè merinos, nè mussola, nè casimiro di Scozia, nè stoffa vergata, nè raso di China, nè Orleans, nè Alpaca, nè panno, nè flanella... era feltro lincolniano, e l’isola Lincoln contava un’industria di più.

I coloni ebbero adunque, oltre a buone vestimenta, grosse coperte, e poterono veder venire senza timore l’inverno del 1866-67.

I gran freddi cominciarono veramente a farsi sentire verso il 20 giugno, e con suo gran dispiacere Pencroff dovette interrompere la costruzione del battello, che d’altra parte non poteva non essere finito che per la prossima primavera.

L’idea fissa del marinajo era di far un viaggio di ricognizione all’isola Tabor, benchè Cyrus Smith non approvasse tale viaggio, tutto di curiosità, non essendovi alcun soccorso da sperare in quello scoglio deserto e quasi arido.

Un viaggio di centocinquanta miglia, in un battello relativamente piccino, sopra mari incogniti, gli cagionava qualche apprensione. E invero, se una volta spinti in mare la barca si trovasse nell’impossibilità di giungere all’isola Tabor o di tornare indietro all’isola Lincoln, che sarebbe di essi in mezzo a quel Pacifico così fecondo di disastri?

Cyrus parlava spesso di ciò con Pencroff, e tro[p. 8 modifica]vava nel marinajo una bizzarra ostinazione nel voler compiere questo viaggio; ostinazione di cui forse non si dava egli stesso ragione.

— Perchè infine, gli disse un giorno l’ingegnere, vi farò osservare, amico mio, che dopo aver detto tanto bene dell’isola Lincoln, dopo d’aver tante volte manifestato il rammarico che provereste se bisognasse abbandonarla, siete ora il primo a volerla lasciare.

— Lasciarla per qualche giorno soltanto, rispose Pencroff, per qualche giorno soltanto, signor Cyrus; il tempo d’andare e venire, di vedere che cosa è quest’isolotto.

— Non può valere quanto l’isola Lincoln!

— Ne son sicuro.

— E allora perchè avventurarvi?

— Per sapere che cosa accade nell’isola Tabor.

— Che volete che accada? Non può accadervi nulla.

— Chissà!

— E se siete colto da qualche uragano?

Questo non è a temere nella bella stagione, rispose Pencroff; ma siccome bisogna preveder tutto, vi domanderò il permesso di non condur meco che Harbert.

— Pencroff, disse l’ingegnere mettendo la mano sulla spalla del marinajo, se accadesse disgrazia a voi ed a questo fanciullo, di cui la sorte ha fatto il nostro figlio, credete che potremmo consolarcene mai?

— Signor Cyrus, rispose Pencroff con una fede incrollabile, non vi daremo questo dolore, e poi riparleremo del viaggio quando sarà venuto il tempo di farlo. Immagino che vedendo il nostro battello ben attrezzato, ben accastellato, star benissimo in mare, dopo aver fatto il giro dell’isola nostra — perchè lo faremo insieme — immagino che non esiterete più a lasciarmi partire. Non vi nascondo che sarà un capo lavoro il nostro battello. [p. 9 modifica]

— Dite almeno il vostro battello, Pencroff, rispose l’ingegnere momentaneamente disarmato.

La conversazione finì così, per incominciare più tardi, senza convincere nè il marinajo, nè l’ingegnere.

Le prime nevi caddero verso la fine del mese di giugno. Il ricinto era stato largamente fornito di provviste e non richiese più visite quotidiane. Nondimeno fu deliberato di non lasciar mai passare una settimana senza andarvi.

Le trappole furono tese di nuovo, e fu pure fatto l’esperimento dei congegni fabbricati da Cyrus Smith. I famosi ricurvi imprigionati in un astuccio di ghiaccio, e coperti di uno strato di grasso, furono sparsi nel lembo della foresta, là dove solevano passare gli animali per recarsi al lago. Con gran soddisfazione dell’ingegnere, l’invenzione copiata dai pescatori aleuziani riuscì benissimo. Una dozzina di volpi, qualche cinghiale e perfino un jaguaro vi si lasciarono prendere. Codesti animali furono trovati morti, collo stomaco perforato dai fanoni. Qui trova luogo un esperimento che conviene riferire, perchè fu il primo tentativo fatto dai coloni per comunicare coi loro simili.

Gedeone Spilett aveva già pensato molte volte sia a gettare in mare una notizia chiusa in una bottiglia, che le correnti porterebbero in qualche costa abitata, sia a confidarla a’ colombi. Ma come sperare sul serio che colombi o bottiglie potessero superare la distanza che separava l’isola da ogni terra, vale a dire milleduecento miglia? Sarebbe stata pazzia.

Ma il 30 giugno fu preso, non senza stenti, un albatro che una schioppettata d’Harbert aveva ferito lievemente alla zampa. Era un magnifico uccello della famiglia di quei gran volatori, le cui ali tese misurano ben dieci piedi e che possono attraversare mari larghi quanto il Pacifico. [p. 10 modifica]

Harbert avrebbe ben voluto serbare il superbo uccello, la cui ferita guarì prontamente e che egli pretendeva d’addomesticare, ma Spilett gli fece comprendere che non si poteva trascurare tale occasione di tentare di mettersi in comunicazione colle terre del Pacifico; onde Harbert dovette arrendersi, pensando che se l’albatro era venuto da qualche regione abitata, non lascierebbe di tornarvi appena fosse libero.

Forse Gedeone Spilett, al quale il cronista faceva capolino qualche volta, non era dolente di lanciare a casaccio una relazione drammatica delle avventure dei coloni dell’isola Lincoln. Qual trionfo per il reporter titolare del New York Herald, e per il numero che conterrebbe la cronaca, se essa giungesse all’indirizzo del suo direttore, l’onorevole John Benett.

Spilett compilò una notizia succinta, che fu messa in un sacco di tela cerata, con preghiera a chiunque la trovasse di farla pervenire agli uffizi del New York Herald. Questo sacchetto fu legato al collo dell’albatro, e non alla sua zampa, perchè codesti uccelli hanno l’abitudine di riposarsi alla superficie del mare, poi fu resa la libertà al rapido corriere dell’aria, e non fu senza commozione che i coloni lo videro sparire lontan lontano nelle brume dell’ovest.

— Dove va? domandò Pencroff.

— Verso la nuova Zelanda, rispose Harbert.

— Buon viaggio! gridò il marinajo, il quale non s’aspettava gran risultati da siffatto modo di corrispondenza.

Coll’inverno erano stati ripigliati i lavori nell’interno del Palazzo di Granito; riparazione delle vestimenta, preparativi diversi, fra cui vele per la barca, che furono tagliate nell’inesauribile invoglio del pallone.

Durante il mese di luglio il freddo fu intenso, ma [p. 11 modifica]non si risparmiò nè legna, nè carbone. Cyrus Smith aveva preparato un secondo camino nella gran sala, ed era là che si passavano le lunghe sere a conversazione durante il lavoro, lettura nelle ore d’ozio, e il tempo passava con profitto per tutti.

Era una vera festa pei coloni, quando da quella sala illuminata da candele, ben riscaldata dal carbon fossile, dopo un buon desinare, colla chicchera di caffè di sambuco fumante, colle pipe che mandavano nugoli di fumo, essi udivano l’uragano muggire al di fuori. Avrebbero essi provato un godimento perfetto, se il godimento potesse mai esistere per chi è lungi da’ suoi simili e non ha comunicazione possibile con essi? Cianciavano sempre del loro paese, degli amici che avevano lasciati, della grandezza della repubblica americana, la cui potenza non poteva che crescere, e Cyrus Smith, ch’era stato involto nelle faccende dell’Unione, guadagnava l’attenzione degli uditori coi suoi racconti, colle sue narrazioni e co’ suoi pronostici.

Ma un giorno Spilett fu tratto a dirgli:

— Ma infine, tutto questo movimento industriale e commerciale a cui voi predicate una progressione costante, non corre forse il rischio d’essere un giorno arrestato assolutamente?

— Arrestato! e perchè?

— Dalla mancanza del carbone, che si può chiamare il più prezioso dei minerali.

— Sì, il più prezioso infatti, rispose l’ingegnere, e sembra che la natura abbia voluto darne una prova facendo il diamante, che non è altro se non carbone puro cristallizzato.

— Non volete già dire, disse Pencroff, che si arderanno i diamanti a guisa di carbon fossile nei focolari.

— No, amico mio, rispose l’ingegnere.

— Pure, disse Spilett, io insisto. Non negate che [p. 12 modifica]un giorno o l’altro il carbone sarà intieramente consumato!

— Oh! gli strati carboniferi sono ancora grandi, e i centomila operai che strappano loro ogni anno cento milioni di quintali metrici, sono ancora lontani dall’esaurirli.

— Colla consumazione crescente di carbon fossile, rispose Gedeone Spilett, si può prevedere che questi centomila operai saranno presto dugentomila e che l’estrazione sarà raddoppiata.

— Senza dubbio, ma dopo gli strati d’Europa, nuove macchine permetteranno di frugare più in fondo le miniere d’America e dell’Australia, potranno ancora per un pezzo sopperire ai bisogni.

— Quanto tempo?

— Dugentocinquanta o trecento anni almeno.

— Ciò rassicura noi, disse Pencroff, ma deve inquietare i nipotini dei nostri nipoti.

— Si troverà altro, disse Harbert.

— Giova sperarlo, rispose Gedeone Spilett, perchè senza carbone non più macchine, senza macchine non più ferrovie, non più battelli a vapore, più nulla in fine di quanto esige il progresso della vita moderna.

— Ma che cosa si troverà? domandò Pencroff. Lo immaginate voi, signor Cyrus?

— Press’a poco.

— E che cosa si brucierà invece del carbone?

— L’acqua.

— L’acqua per scaldare i battelli a vapore e le locomotive! L’acqua per scaldar l’acqua!

— Ma l’acqua decomposta ne’ suoi elementi costitutivi, rispose Cyrus Smith, e decomposta, senza dubbio, coll’elettricità, che sarà divenuta allora una forza poderosa e maneggiabile, poichè tutte le grandi scoperte, per una legge inesplicabile, sembrano concordare e compiersi nello stesso momento. Sì, amici miei, io credo che l’acqua sarà un giorno adoperata [p. 13 modifica]come combustibile, che l’idrogeno e l’ossigeno che la compongono, adoperati da soli o simultaneamente, daranno una sorgente di calore e di luce inesauribile e d’una intensità molto maggiore di quella del carbon fossile. Verrà un giorno che le sode dei battelli a vapore ed i tenders delle locomotive, invece di carbone, saranno carichi di questi due gas compressi che arderanno nei focolari con una potenza calorifica enorme. Niente paura. Finchè questa terra sarà abitata, provvederà ai bisogni de’ suoi abitanti, i quali non mancheranno mai di calore e di luce, come non mancheranno delle produzioni del regno minerale, vegetale e animale. Credo adunque che quando il carbon fossile sarà esaurito, vi si sostituirà l’acqua. L’acqua è il carbone dell’avvenire.

— Vorrei veder questo! esclamò Pencroff.

— Ti sei levato troppo presto, disse Nab, il quale prese parte unicamente con tali parole alla conversazione.

Ma non furono queste che la terminarono, bensì i latrati di Top che s’udirono di nuovo con quella intonazione singolare che già aveva messo in pensiero l’ingegnere. Nel medesimo tempo il cane ricominciava a girare intorno all’orifizio del pozzo che si apriva all’estremità del corridojo interno.

— Che cosa ha Top? domandò Pencroff.

— E che cosa ha Jup che brontola in questo modo? aggiunse Harbert.

Infatti lo scimmiotto, unendosi al cane, dava segni non equivoci d’agitazione e, cosa bizzarra, i due animali sembravano meglio inquieti che irritati.

— È certo, disse Gedeone Spilett, che codesto pozzo è in comunicazione diretta col mare e che qualche animale marino viene ogni tanto a respirare al fondo.

— È evidente, rispose il marinajo, non vi è altra spiegazione possibile. Andiamo... silenzio, Top! ag[p. 14 modifica]giunse Pencroff volgendosi verso il cane; e tu, Jup, va nella tua camera.

La scimmia ed il cane tacquero. Jup tornò a coricarsi, ma Top rimase nella sala, e tutta sera fece intendere sordi grugniti.

Non si parlò più dell’incidente, che peraltro oscurò la fronte dell’ingegnere. Durante il resto del mese di luglio ci furono alternative di pioggia e di freddo. La temperatura non ascese quanto nell’anno precedente e non passò mai gli otto gradi del termometro Fahrenheit (13 gradi, 33 centigradi sotto zero). Ma se quell’inverno fu meno freddo, fu in compenso più turbato dagli uragani e dai venti. Ci furono pure violenti assalti di mare, che più d’una volta danneggiarono i Camini; era da credersi che una corrente provocata da qualche commozione sottomarina sollevasse quelle onde mostruose e le avventasse contro le muraglie del Palazzo di Granito. Quando i coloni, affacciati alle finestre del Palazzo di Granito, osservavano le enormi masse d’acqua che si frangevano sotto i loro occhi contro la muraglia, non potevano che ammirare il magnifico spettacolo di quell’impotente furore dell’oceano.

I flutti rimbalzavano schiumosi, il greto intiero spariva sotto la furibonda inondazione, e l’altipiano pareva emergere dal mare, i cui spruzzi s’elevavano ad un’altezza d’oltre cento piedi.

Durante questi uragani era difficile avventurarsi sulle vie dell’isola: era anche pericoloso, perchè le cadute d’alberi erano frequenti.

Pure i coloni non lasciarono mai passare una settimana senza andare a far visita al ricinto, il quale essendo fortunatamente riparato dal contrafforte sud est del monte Franklin, non soffrì gran fatto per la violenza dell’uragano, che ne risparmiò gli alberi, la tettoja, la palizzata. Ma il cortile rustico posto sull’altipiano di Lunga Vista, e perciò direttamente [p. 15 modifica]esposto ai venti d’est, ebbe a patire gravi danni. La colombaja fu scoperchiata due volte e la barriera atterrata. Bisognava ricostruirle in maniera più solida, perchè appariva chiaro che l’isola Lincoln era situata nei paraggi più brutti del Pacifico. Pareva in verità che essa formasse il punto centrale di vasti cicloni che la percotevano come fa la frusta con una trottola; solamente in questo caso era la trottola che stava immobile e la frusta che girava.

Durante la prima settimana d’agosto le raffiche si quietarono a poco a poco, e l’atmosfera riprese una calma che sembrava aver perduta per sempre. Colla calma s’abbassò la temperatura, il freddo ridivenne intenso e la colonna termometrica scese ad otto gradi Fahrenheit sotto zero ( 22 gradi centigradi sotto zero).

Il 30 agosto, un’escursione disegnata da qualche giorno fu fatta nel sud-est dell’isola verso il marese delle Tadorne.

I cacciatori erano tentati da tutta la selvaggina acquatica che aveva colà il suo quartiere d’inverno: anitre selvatiche, beccaccini, anitrelle, querquedule, colombi vi abbondavano, e fu deciso di consacrare un giorno ad una spedizione contro codesti volatili. Non solo Gedeone Spilett ed Harbert, ma anche Pencroff e Nab vi presero parte.

Solo Cyrus Smith, col pretesto di qualche lavoro, non s’unì ad essi e rimase al Palazzo di Granito.

I cacciatori presero adunque la via del porto Pallone per recarsi al marese, dopo d’aver promesso d’essere di ritorno alla sera.

Top e Jup li accompagnavano. Appena ebbero passato il ponte della Grazia, l’ingegnere lo rilevò, e tornò col pensiero di porre in esecuzione un disegno per il quale voleva esser solo.

Ora codesto disegno era d’esplorare minuziosamente il pozzo interno, il cui orifizio s’apriva al li[p. 16 modifica]vello del corridojo del Palazzo di Granito e che comunicava col mare dal momento che una volta serviva di passaggio alle acque del lago.

Perchè mai Top girava così di frequente intorno a quell’orifizio? Perchè si lasciava sfuggire così bizzarri latrati, quando una specie d’inquietudine lo traeva verso quel pozzo? E perchè Jup s’univa a Top nella comune ansietà? Quel pozzo aveva forse altre diramazioni oltre la comunicazione verticale col mare? Si ramificava esso mai verso altre parti dell’isola? Ecco ciò che Cyrus Smith voleva sapere ed essere il primo a saperlo.

Aveva egli dunque risoluto di tentar l’esplorazione del pozzo durante un’assenza dei compagni, e si presentava l’occasione di farlo. Era facile discendere fino in fondo al pozzo, adoperando la scala di corda che più non serviva dopo l’adattamento dell’ascensore e la cui lunghezza era sufficiente. Gli è ciò che fece l’ingegnere. Trasse la scala fino a quel buco, il cui diametro misurava circa sei piedi, e la lasciò svolgere dopo di averne saldamente assicurato l’estremità superiore. Poi, accesa una lanterna, presa una rivoltella e messo alla cintola un coltello, cominciò a scendere i primi scalini.

Da per tutto la parete era piana, ma qua e là vi erano sporgenze di roccia, per mezzo delle quali sarebbe stato veramente possibile ad un essere agile l’elevarsi fino all’orifizio del pozzo. È un’osservazione che fece l’ingegnere; ma guardando attentamente alla luce della lanterna, non trovò alcuna impronta nè alcuna rottura che potesse far credere avessero quelle sporgenze servito ad una scalata antica o recente.

Cyrus Smith scese più giù, rischiarando tutti i punti della parete.

Non vide nulla di sospetto.

Quando l’ingegnere fu giunto agli ultimi gradini, [p. 17 modifica]sentì la superficie dell’acqua, ch’era allora perfettamente tranquilla. Nè al suo livello, nè in alcun’altra parte del pozzo non s’apriva alcun corridojo laterale che potesse ramificarsi sotterra. La muraglia che Cyrus Smith colpì col manico del coltello suonava a pieno. Era un granito compatto, a traverso il quale nessuna creatura vivente poteva aprirsi un passaggio. Per arrivare in fondo al pozzo ed elevarsi poi fino all’orifizio, bisognava necessariamente passare per quel canale sempre immerso, che lo metteva in comunicazione col mare, attraverso il sottosuolo roccioso del greto, e ciò non era possibile che ad animali marini.

Quanto a sapere dove metteva quel canale, in qual punto del litorale ed a quale profondità sotto le onde, era impossibile determinarlo. Avendo dunque Cyrus Smith terminata la sua esplorazione, risalì, ritirò la scala, ricoprì l’orifizio del pozzo e tornò tutto pensoso alla gran sala del Palazzo di Granito, dicendo fra sè: “Non ho visto nulla, eppure vi è qualche cosa!”