L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo VI

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO VI.


I richiami di Pencroff — Una notte nei Camini — La freccia di Harbert — Disegno di Cyrus Smith — Una soluzione inaspettata — Ciò che avvenne al Palazzo di Granito — In qual modo un nuovo domestico entra al servizio dei coloni.

Cyrus Smith s’era fermato senza dir parola. I suoi compagni cercarono nell’oscurità sulle pareti della muraglia, immaginando che il vento avesse rimosso la scala, come pure a terra caso mai si fosse staccata.... Ma la scala era assolutamente scomparsa. [p. 61 modifica]

Quanto al riconoscere se una burrasca l’avesse rilevata fino al primo pianerottolo, era impossibile in quella notte profonda.

— È uno scherzo, esclamò Pencroff, è un brutto scherzo! Arrivare in casa propria e non trovarvi scala per entrare non è cosa da far ridere?

Nab si perdeva in esclamazioni.

— Eppure non ha fatto vento! disse Harbert.

— Comincio a trovare che avvengono bizzarre cose, disse Pencroff.

— Bizzarre, Pencroff, disse l’ingegnere; è venuto qualcuno durante la nostra assenza, ha preso possesso della nostra abitazione e poi ha tirato su la scala.

— Qualcuno! E chi mai?

— Il cacciatore dal grano di piombo, disse il reporter; e a che servirebbe se non spiegasse la nostra disavventura?

— Ebbene, se vi ha qualcuno lassù, rispose Pencroff sacramentando, giacchè incominciava a perder la pazienza, lo chiamerò e dovrà ben rispondere.

E con voce di tuono, il marinajo fece intendere un ohe! che fece rispondere tutti gli echi.

I coloni porsero attenzione e parve loro di intendere una specie di riso beffardo.

Ma nessuna voce rispose alla voce di Pencroff, il quale ricominciò la sua vigorosa chiamata. In verità vi era di che stupire, ed i coloni non potevano essere indifferenti. Nella condizione in cui si trovavano, qualsiasi incidente aveva la sua gravità, e certo, da sette mesi che abitavano l’isola, non se ne era presentato alcuno di carattere così maraviglioso. Checchè ne sia, dimentichi della stanchezza e maravigliati dell’avvenimento, essi erano ai piedi del Palazzo di Granito non sapendo che fare, interrogandosi senza saper che rispondere, moltiplicando ipotesi differentissime. Nab era afflitto perchè non poteva rientrare nella sua cucina, tanto più che le provviste erano [p. 62 modifica]consumate e non si aveva alcun mezzo di rinnovarle in quel momento.

— Amici miei, disse Cyrus Smith, non abbiamo che una cosa da fare, aspettare il giorno ed agire allora secondo le circostanze. Ma per aspettare andiamo ai Camini; colà saremo riparati, e se non potremo cenare potremo almeno dormire.

— Ma chi è il mariuolo che ci ha fatto questo tiro? domandò ancora una volta Pencroff, non sapendo rassegnarsi.

Qualunque fosse quel mariuolo, l’unica cosa da fare era, come aveva detto l’ingegnere, d’andare ai Camini, e colà aspettare il giorno. Peraltro fu dato ordine a Top di stare sotto le finestre del Palazzo di Granito, e quando Top riceveva un ordine non vi era pericolo che ribattesse sillaba.

Il bravo cane se ne stette quindi ai piedi della muraglia intanto che il padrone ed i suoi compagni si ricoveravano nelle roccie.

Dire che i coloni, malgrado la loro stanchezza, dormissero bene sulla sabbia dei Camini, sarebbe alterare il vero.

Non solamente non potevano non essere ansiosi di riconoscere l’importanza di quel nuovo incidente (o fosse il risultato d’una combinazione le cui cause naturali dovessero farsi palesi di giorno, o fosse invece opera di un essere umano ), ma oltre a ciò erano anche coricati malissimo. Checchè ne sia, in una maniera o nell’altra, la loro abitazione era occupata in quel momento.

Ora il Palazzo di Granito era più che la loro abitazione, era il loro magazzino. Colà stava raccolto tutto il materiale della colonia: armi, strumenti, utensili, munizioni, provvista di viveri, ecc. Se tutto ciò era stato messo a ruba, i coloni dovevano ricominciare le loro fatiche e rifare armi ed utensili. Grave cosa! Onde, cedendo all’inquietudine, l’uno o [p. 63 modifica]l’altro usciva ad ogni istante per vedere se Top facesse buona guardia. Solo Cyrus Smith aspettava colla consueta pazienza, benchè la sua ragione tenace si arrabbiasse sentendosi dinanzi ad un fatto assolutamente inesplicabile, e si incollerisse pensando che intorno a lui, sopra di lui fors’anco, stava una potenza a cui non poteva dare un nome. Gedeone Spilett era, intorno a ciò, della stessissima opinione, ed entrambi parlarono più volte delle inesplicabili circostanze che facevano vane la loro perspicacia e la loro esperienza. Vi era certamente un mistero nell’isola: ora, come spiegarlo? Harbert non sapeva che pensare ed avrebbe voluto interrogare Cyrus Smith. Quanto a Nab, egli aveva finito col dirsi che tutto ciò non riguardava lui, ma solo il suo padrone, e se egli non avesse temuto di dispiacere ai compagni, avrebbe dormito in quella notte coscienziosamente come sul lettuccio del Palazzo di Granito. Più di tutti si arrabbiava Pencroff.

— È una burla, diceva egli; ebbene, a me non piacciono le burle, e se mi cade fra le mani il burlone, disgraziato lui!

Appena apparvero nell’est le prime luci dell’alba, i coloni, convenientemente armati, si recarono alla spiaggia, al lembo delle scogliere.

Il Palazzo di Granito, che riceveva direttamente i raggi del levante, non doveva tardare ad illuminarsi. Ed in fatti, verso le cinque, le finestre, le cui imposte erano chiuse, apparvero attraverso le loro cortine di fogliame. Da quella parte tutto era in ordine, ma un grido uscì dal petto dei coloni quando videro spalancata la porta che essi avevano chiusa prima della partenza.

Qualcuno s’era introdotto nella casa, non v’era più dubbio. La scala superiore, tesa ordinariamente dal pianerottolo alla porta, era al suo posto, ma la scala inferiore era stata rilevata. Evidentemente gli in[p. 64 modifica]trusi avevano voluto mettersi al sicuro da ogni sorpresa.

Del resto, non era ancora possibile riconoscerne la specie nè il numero, poichè non si mostrava nessuno.

Pencroff chiamò di nuovo. Nessuna risposta.

— Cialtroni! gridò il marinajo, vedete un po’ che se la dormono tranquillamente come se fossero in casa loro. Ohe, banditi, pirati, corsari, figli di John Bull!

Quando Pencroff, nella sua qualità di marinajo, dava dei “figli di John Bull” a qualcuno, era segno che si lasciava andare all’ultimo confine dell’insulto.

In quella si era fatto giorno chiaro e la facciata s’illuminò ai raggi del sole, ma all’esterno e all’interno tutto era silenzio.

I coloni erano ridotti a proporsi il quesito, se il Palazzo di Granito fosse o no occupato; eppure la posizione della scala lo dimostrava abbastanza, ed era anzi certo che gli occupanti, chiunque si fossero, non avevano potuto fuggirsene. Ma come giungere ad essi?

Ad Harbert venne allora l’idea di attaccare una corda ad una freccia e di lanciar la freccia in guisa che passasse fra i primi gradini della scala penzolante dal limitare dell’uscio. Si sarebbe allora potuto, per mezzo della corda, svolgere la scala fino a terra e ristabilire la comunicazione. Evidentemente non vi era altro da fare, e, con un po’ di destrezza, il mezzo doveva riuscire. Per fortuna gli archi e le freccie erano stati deposti in un corridojo dei Camini, in cui si trovavano pure molte braccia d’una leggiera corda di ibisco. Pencroff svolse questa corda, di cui fissò l’estremità ad una freccia ben impennata. Poscia Harbert, collocata la freccia sull’arco, tolse la mira con molta attenzione.

Cyrus Smith, Gedeone Spilett, Pencroff e Nab si [p. 65 modifica]erano tirati indietro per meglio osservare quanto accadesse sulle finestre del Palazzo di Granito.

Il reporter, colla carabina spianata, mirava l’uscio.

L’arco fu teso, la freccia fischiò tirandosi dietro la corda ed andò a passare fra gli ultimi due scalini.

L’operazione era riuscita.

Subito Harbert prese l’estremità della corda, ma mentre dava una scossa per far ricadere la scala, un braccio, passando lestamente fra il muro e la corda, la afferrò e la trasse entro il Palazzo di Granito.

— Cialtrone! esclamò il marinajo, se una palla può farti felice non avrai da aspettare un pezzo.

— Che cosa è stato? domandò Nab.

— Non hai tu riconosciuto?...

— No.

— È una scimmia, un macaco, un sapajù, un guenone, un gorilla, un orangotano, un babbuino, un sagoino! La nostra abitazione fu invasa dalle scimmie, che si sono arrampicate per la scala durante la nostra assenza.

Ed appunto in quella, come per dar ragione al marinajo, tre o quattro quadrumani si affacciavano alla finestra di cui avevano aperte le imposte e salutavano i veri proprietarî con mille contorcimenti e mille smorfie.

— Lo sapeva bene che era una burletta; ma ecco uno di quei burloni che pagherà la pena per gli altri!

Così dicendo, spianò il fucile, tolse di mira una delle scimmie e fece fuoco. Sparvero tutte, tranne una che, mortalmente colpita, precipitò sul greto.

Quella scimmia, d’alta statura, apparteneva al primo ordine dei quadrumani; non c’era da sbagliare. Fosse essa un chimpanzè, un orang, un gorilla od un gibbone, entrava ad ogni modo nella categoria di codesti antropomorfi, così nominati per la loro rassomiglianza cogli individui di razza umana. D’altra parte, Harbert 5 — L’Isola Misteriosa. Vol. III. [p. 66 modifica]dichiarò che era un orangotano, e si sa che il giovinetto se ne intendeva di zoologia!

— Che magnifico animale! esclamò Nab.

— Magnifico quanto vuoi, rispose Pencroff, ma io non vedo ancora in che modo potremo entrare in casa nostra.

— Harbert è buon tiratore, disse il reporter, ed il suo arco è là! ch’egli ricominci...

— Oibò! quelle scimmie sono furbe! esclamò Pencroff, non si affacceranno più alla finestra e non potremo ammazzarle. Quando penso ai guasti che possono fare nelle camere, nel magazzino...

— Pazienza, rispose Cyrus Smith; questi animali non possono tenerci in iscacco un pezzo.

— Non ne sarò sicuro se non quando saranno a terra, rispose il marinajo. E prima di tutto, sapete, signor Smith, quante dozzine ce ne siano lassù di codesti burloni?

Sarebbe stato difficile rispondere a Pencroff; quanto a ricominciare il tentativo del giovinetto, non era facile cosa, poichè l’estremità inferiore della scala era stata ritirata all’interno, e quando si tirò di nuovo la corda, si finì collo spezzarla, ma la scala non ricadde.

Era in verità una condizione imbarazzante. Pencroff si arrabbiava; la situazione aveva un certo lato comico ch’egli non trovava menomamente bizzarro per parte sua. Era evidente che i coloni dovevano riuscire a rientrare nel loro domicilio ed a cacciarne gl’intrusi, ma quando e come? Questo non avrebbero potuto dire.

Passarono due ore, durante le quali le scimmie evitarono di mostrarsi; ma erano sempre là, e tre o quattro volte un muso ed una zampa passarono fuor dell’uscio o delle finestre e furono salutati a schioppettate.

— Nascondiamoci, disse allora l’ingegnere; forse [p. 67 modifica]le scimmie ci crederanno partiti e si lasceranno vedere un’altra volta. Spilett ed Harbert si mettano in imboscata dietro le roccie e fuoco su quanti si mostreranno.

Gli ordini dell’ingegnere furono eseguiti, ed intanto che il reporter ed il giovinetto, i due più abili tiratori della colonia, si appostavano a tiro delle loro carabine, ma in guisa da rimaner nascosti alle scimmie, Nab, Pencroff e Cyrus Smith si arrampicarono sul poggio e se n’andarono alla foresta per ammazzare qualche selvaggina, essendo venuta l’ora della colazione e non rimanendo loro più nulla in fatto di viveri.

In capo ad una mezz’ora, i cacciatori tornarono con alcuni colombi, che vennero fatti arrostire alla meglio. Nessuna scimmia si era mostrata. Gedeone Spilett ed Harbert andarono a pigliar la loro parte della colazione, nel mentre Top faceva la guardia sotto le finestre, e come ebbero mangiato, tornarono al loro posto.

Due ore più tardi la situazione non si era per anco mutata. I quadrumani non davano più alcun segno d’esistenza, tanto da far quasi credere che fossero scomparsi; ma pareva più probabile che, atterriti dalla morte di uno d’essi, spaventati dagli spari delle armi, se ne stessero accoccolati in fondo alle camere del Palazzo di Granito od anche nel magazzino; e pensando alle ricchezze che codesto magazzino conteneva, la pazienza, cotanto raccomandata dall’ingegnere, degenerava in collera violenta, e, a dir vero, non punto irragionevole.

— Assolutamente è una stupida condizione, disse il reporter, e non vi ha speranza di vederla finita.

— Bisogna pure far sloggiare quei mariuoli! esclamò Pencroff, e vi riusciremo, fossero anche una ventina.

— Ma bisogna lottare corpo a corpo! Vediamo! non vi è alcun mezzo per arrivare fino ad essi? [p. 68 modifica]

— Sì, rispose allora l’ingegnere, a cui era venuta un’idea.

— Uno? disse Pencroff; ebbene è il buono, poichè non ve n’è altri; e qual è?

— Cerchiamo di ridiscendere al Palazzo di Granito per l’antico sbocco del lago, rispose l’ingegnere.

— Per mille e mille diavoli! esclamò il marinajo: ed io non ci pensava!

Era infatti il solo mezzo di penetrare nel Palazzo di Granito per combattere la frotta di scimmie e cacciarla.

L’orifizio dello sbocco era, è vero, chiuso da un muro di pietre cementate che bisognava sagrificare, ma tutto il danno si riduceva a doverlo ricostrurre. Per buona sorte, Cyrus Smith non aveva ancora messo in atto il suo disegno di nascondere quell’orifizio annegandolo sotto le acque del lago, poichè altrimenti l’operazione avrebbe richiesto un certo tempo.

Era già più del mezzodì quando i coloni, ben armati, muniti di picconi e di zappe, lasciarono i Ca mini, passarono sotto le finestre del Palazzo di Granito dopo d’aver ordinato a Top di rimanere al suo posto, e si accinsero a risalire la riva sinistra della Grazia per andare all’altipiano di Lunga Vista. Ma non avevano fatti cinquanti passi in quella direzione, quando intesero latrati furiosi del cane. Pareva un disperato appello.

S’arrestarono.

— Corriamo! disse Pencroff.

E ridiscesero l’argine a gambe levate. Giunti allo svolto, videro che la situazione era mutata. Infatti le scimmie, colte da improvviso terrore, provocato da una ignota causa, cercavano di fuggirsene. Due o tre correvano e saltavano da una finestra all’altra coll’agilità di saltimbanchi.

Non cercavano neanche di calare la scala, per la quale sarebbe loro stato facile discendere, e nello [p. 69 modifica]sgomento avevano forse dimenticato questo mezzo di fuga. In breve, cinque o sei si offrirono al bersaglio, ed i coloni, togliendole di mira a bell’agio, fecero fuoco. Le une, ferite od uccise, ricaddero all’interno delle camere mandando acute grida. Le altre, precipitando al di fuori, si uccidevano nella caduta, ed alcuni istanti dopo si poteva credere che non vi fosse più alcun quadrumane vivente nel Palazzo di Granito.

— Evviva, esclamò Pencroff, evviva, evviva!

— Non tanti evviva, disse Gedeone Spilett.

— Perchè? Sono tutti uccisi, rispose il marinajo.

— Ne convengo, ma ciò non ci dà il mezzo di rientrare in casa nostra.

— Andiamo allo sbocco, replicò Pencroff.

— Senza dubbio, disse l’ingegnere, pure sarebbe stato preferibile....

In quella, e come per rispondere alla osservazione di Cyrus Smith, si vide la scala scivolare sulla soglia della porta, poi svolgersi e ricadere fino a terra.

– Ah, per mille pipe! questa è grossa! esclamò il marinajo guardando Cyrus Smith.

— Davvero! mormorò l’ingegnere slanciandosi per il primo sulla scala.

— Badate, signor Cyrus, esclamò Pencroff, se vi è ancora alcuno di quei scimmiotti...!

— Lo vedremo, rispose l’ingegnere senza arrestarsi.

Tutti i compagni lo seguirono, ed in un minuto erano giunti al limitare della porta. Si cercò da per tutto e non si vide nessuno nelle camere, nè nel magazzino che era stato rispettato dalla frotta dei quadrumani.

— Che vuol dir questo? È la scala, disse il marinajo; chi sarà mai il gentiluomo che ce l’ha gettata?

Ma in quella si udì un grido, ed una gran scimmia, che si era rifugiata in un corridojo, si precipitò nella sala inseguita da Nab. [p. 70 modifica]

— Ah, il brigante! esclamò Pencroff.

E coll’accetta in mano stava per spaccare il cranio dell’animale, quando Cyrus Smith lo trattenne e gli disse:

— Risparmiatelo, Pencroff.

— Ch’io faccia grazia a questo brutto mobile?

— Sì, è lui che ci ha gettata la scala.

E l’ingegnere disse queste parole con così bizzarro accento, che sarebbe stato difficile sapere se egli parlasse o no sul serio.

Nondimeno tutti si fecero addosso alla scimmia, la quale, dopo essersi difesa coraggiosamente, fu atterrata e legata.

— Uff! esclamò Pencroff, e che ne faremo ora?

— Un domestico, rispose Harbert.

Così parlando, il giovinetto non scherzava interamente, poichè sapeva tutto l’utile che si può ricavare da cotesta razza intelligente dei quadrumani. I coloni si accostarono allora alla scimmia e la guardarono attentamente. Essa apparteneva a quella specie di antropomorfi, il cui angolo facciale non è molto inferiore a quello degli Australiani e degli Ottentotti. Era un orang, che come tale non aveva nè la ferocia del babbuino, nè la spensieratezza del macaco, nè la sordidezza del saguino, nè le impazienze del bertuccione, nè i cattivi istinti del cinocefalo. Gli è à tale famiglia degli antropomorfi che si riferiscono tanti tratti, che indicano in essi una intelligenza quasi umana. Adoperati nelle case, possono questi animali servire a tavola, nettar le camere, tenere in ordine i panni, lustrar le scarpe, maneggiare abilmente il coltello, il cucchiajo e la forchetta, e perfino bevere il vino al pari del miglior servitore bipede ed implume. Si sa che Buffon aveva una di codeste scimmie, la quale lo servì un pezzo come un servitore fedele e zelante.

L’animale che si trovava allora legato nella sala [p. 71 modifica]del Palazzo di Granito era un grosso diavolaccio alto sei piedi, dal corpo meravigliosamente proporzionato, dal petto largo, dalla testa di mezzana grossezza, dall’angolo facciale che giungeva ai 65 gradi, dal cranio tondo, dal naso sporgente, dalla pelle coperta d’un pelo liscio, morbido, e lucente: infine un tipo perfetto degli antropomorfi. Gli occhi suoi, alquanto più piccini di quelli dell’uomo, brillavano d’una intelligente vivacità; i suoi denti bianchi splendevano sotto i mustacchi; portava una barbetta arricciata di color nocciola.

— Un bel pezzo di giovinotto! disse Pencroff; se ne conoscessimo la lingua gli potremmo parlare.

— Dunque, disse Nab, è proprio sul serio che lo piglieremo per domestico?

— Sì, Nab, rispose sorridendo l’ingegnere, ma non esserne geloso.

— E spero che sarà un eccellente servitore, aggiunse Harbert. Sembra giovane, la sua educazione sarà facile e non saremo obbligati, per sottometterlo, di adoperare la forza, nè di strappargli i canini come si suol fare. Esso deve affezionarsi ai suoi padroni, i quali saranno buoni verso di lui.

— Sicuro che saranno buoni! rispose Pencroff, il quale aveva dimenticato ogni rancore.

Ed accostandosi alla scimmia, soggiunse:

— Ebbene, giovinotto mio, come la va?

La scimmia rispose con un lieve grugnito che non dinotava molto malumore.

— Così dunque vogliamo far parte della colonia? domandò il marinajo; vogliamo entrare al servizio del signor Cyrus Smith?

Nuovo grugnito della scimmia.

— E ci accontenteremo del cibo per salario?

Terzo grugnito affermativo.

La sua conversazione è un po’ monotona, fece osservare Gedeone Spilett. [p. 72 modifica]

— Buono, rispose Pencroff, i migliori servitori sono quelli che parlano meno. E poi niente salario! intendete, giovinotto? Per cominciare non vi daremo salario, ma lo raddoppieremo più tardi, se saremo contenti di voi.

E così la colonia si accrebbe d’un nuovo membro che doveva renderle molti servigi.

Quanto al nome con cui chiamare la scimmia, il marinajo domandò che, in memoria di un’altra che egli aveva conosciuto, fosse chiamata Jupiter e Jup per abbreviazione.

Ed ecco come, senz’altre cerimonie, mastro Jup entrò a far parte degli inquilini del Palazzo di Granito.