L'epopea della bonifica nel Polesine di San Giorgio/17
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Ripercorrere la storia dell’agricoltura nel Polesine di San Giorgio significa ricostruire due vicende pressoché indipendenti, quella della coltura dei dossi dall’antichità più remota emergenti dalle acque, le “terre vecchie”, quella delle terre sulle quali la bonifica sostituisce, repentinamente, all’economia della valle, l’economia della pesca e del pascolo, una nuova economia agraria. L’agricoltura delle terre di più antica coltura può essere identificata in un sistema di conduzione e in una coltura. Il sistema di conduzione è quello del versuro, un’azienda di ampiezza due-quattro volte maggiore del podere emiliano tradizionale, il podere tipico delle province limitrofe, Modena, Bologna, Ravenna, affidata a un salariato fisso, il boaro, responsabile della cura dell’ingente numero di buoi impiegato nelle arature, fino a sette paia, con l’ampio ricorso, per le operazioni colturali cardinali, alla manodopera salariata. Seppure producesse frumento, e , nelle alberate, anche uva, per secoli la coltura chiave del versuro ferrarese è stata, nelle terre “vecchie”, la canapa.
Nella seconda meta dell’Ottocento l’Italia vanta il titolo di secondo produttore mondiale di fibra di canapa. La produzione è concentrata in Emilia: con 190.000 quintali la provincia di Ferrara realizza, nel 1890, il 26,5 % della produzione nazionale. Quella della canapa non è semplicemente una coltivazione, è l’espressione di una civiltà, una civiltà agraria fondata su una disponibilità pressoché illimitata di lavoro umano. L’anno 1900, in occasione dell’Esposizione internazionale di Parigi, Adriano Aducco, docente presso la Cattedra ambulante di Ferrara, è designato dalla Società degli agricoltori italiani ad illustrare le procedure seguite per la coltivazione nella prima provincia canapicola del Paese. Il saggio scritto in adempimento del mandato costituisce straordinaria lettura storica, agronomica, sociale.
Producono l’incredulità del lettore moderno, nella dettagliata analisi agronomica, le prove della somma di fatiche umane erogate per ricavare, da ogni ettaro, una quantità di fibra, dalle caratteristiche pure eccellenti, sostanzialmente modesta. Il terreno viene preparato alla canapa dalla ravagliatura, l’operazione con cui, dopo il passaggio di un aratro trainato da sei paia di buoi, una squadra di vangatori approfondisce il solco della profondità della vanga. L’operazione richiede la disponibilità di 24 operai, che si dividono in due squadre, una impegnata, dopo il passaggio dell’aratro, ad approfondire un solco, una il solco opposto. Arato la prima volta dopo la mietitura del grano, il campo destinato alla canapa viene arato di nuovo, alla profondità di 35-40 cm, in settembre, viene erpicato in primavera, quindi livellato, con la zappa, da grandi squadre di donne, e seminato, per non calpestare il terreno, trainando la seminatrice, dalle capezzagne, mediante funi che corrono su carrucole poste in corrispondenza alle fasce di terreno che l’attrezzo deve percorrere.
L’agronomo ferrarese descrive come operazioni assolutamente ordinarie il lavoro eseguito, per la copertura della semente, da un erpice che, per evitare il calpestamento degli animali, viene trainato da un manipolo di operaie, e la “concimazione di soccorso” eseguita, dopo il germogliamento, da uomini e donne che, muniti di annaffiatoi, prelevano, da un carro botte disposto sulla capezzagna, urina di stalla imputridita nel pozzo nero e diluita con acqua, per somministrarla, delicatamente, alle pianticelle che appaiano meno vigorose, l’espressione di una cura meticolosa quanto quella diretta ad un orto. Dalla germogliazione la canapa viene sarchiata manualmente almeno tre volte, sopprimendo tutte le infestanti fino a quando lo sviluppo della coltura ne elimina la competizione.
Al raggiungimento dell’altezza massima degli steli ha inizio la seconda, faticosissima fase della coltura: gli steli sono recisi, progressivamente, dal margine al centro del campo, dove lignificano più lentamente, vengono raccolti in grandi fasci, posti ad essiccare, quindi immersi nel macero e ricoperti di grosse pietre perché giacciano sul fondo, prima dell’estrazione vengono battuti vigorosamente contro il pelo dell’acqua per liberarli dai brandelli dell’epidermide imputridita, mentre viene ricollocata sulla riva del macero l’immensa mole di pietrame: tutte le operazioni sono svolte da operai immersi fino alla cintola nell’acqua che, alla fine della macerazione, è imputridita. I fasci estratti dal macero sono aperti a capannuccia, si attende che asciughino, quindi vengono sciolti per l’estrazione della fibra, che impone nuove gravose operazioni manuali, la scavezzatura, l’infrangimento, cioè, del canapulo, il midollo dello stelo, e la decanapulatura, la separazione della fibra dai frammenti anche minori di canapulo.
Se la canapa costituiva la coltura chiave delle terre ferraresi di più antica coltura, nelle terre di più recente bonifica vengono sperimentate, secondo le dimensioni aziendali, combinazioni produttive diverse, che attribuiscono un ruolo non insignificante, in alcune aziende, all’allevamento, da latte e da carne, due attività che non stabiliranno, nella provincia, una tradizione zootecnica. A fianco della canapa si radica nel Ferrarese, dall’alba del Novecento, la bietola, una pianta che predilige, anch’essa, terreni ricchi e profondi, e impone intense cure colturali. Anche la bieticoltura vede Ferrara imporsi come prima provincia nella graduatoria nazionale, un primato suggellato dalla presenza, nel Ferrarese, di un numero di stabilimenti che non ha riscontro in nessuna delle province emiliane e venete in cui la cultura si impone al centro degli ordinamenti: contano uno stabilimento Migliarino, Comacchio, Ostellato, Bando d’Argenta, Portomaggiore, Mizzana, Bondeno, Codigoro, Jolanda di Savoia, ne contano due Ferrara e Pontelagoscuro.
Dopo le avvisaglie di declino degli anni Trenta, gli anni Cinquanta registrano la crisi definitiva della canapa. Al tracollo della coltura tradizionale corrisponde, sulle terre ferraresi, l’alba di una coltura nuova, quella della frutta. La qualità tradizionale della canapa ferrarese era l’esito della coltivazione sui dossi dove il flusso millenario delle acque ha raccolto i materiali sabbiolimosi che compongono un terreno di medio impasto, un terreno, cioè, di perfetta fertilità fisica. Su quei terreni di straordinaria fertilità, ideali per il melo ed il pero, prorompe, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, la stagione travolgente della frutticoltura, una stagione che sarà tanto straordinaria quanto effimera.
Fertilità dei suoli, vastità delle aziende, disponibilità illimitata di manodopera, vivace richiesta del mercato: una sommatoria singolare di fattori favorevoli determina i fasti della frutticoltura ferrarese, una sfera produttiva che nel 1945, alla conclusione della guerra, interessa 3.980 ettari, che nel 1967 ne interessa 42.200. In vent’anni sono stati ricoperti di meleti e pereti 38.000 ettari, che per l’entità della produzione fanno di Ferrara una delle province agricole più ricche d’Italia. Con la stessa fulminea rapidità con cui si è dilatata, la frutticoltura ferrarese percorre, singolarmente, la strada del declino: nel 1985 meleti e pereti si sono contratti a 23.180 ettari, allo spirare del secolo non ne ricoprono che 18.300
Quali le ragioni di una contrazione che ha avuto i caratteri dell’autentico collasso? Corrisponde, probabilmente, ad una legge economica che in un’economia industriale le produzioni frutticole si realizzino in aziende di coltivatori che nelle annate in cui i prezzi cadano non debbano retribuire costosa manodopera salariata, che nelle annate favorevoli possano accantonare per quelle negative. La frutticoltura aveva animato, peraltro, nelle campagne ferraresi, la più ampia gamma di attività correlate alla frutticoltura, dal commercio di antiparassitari alla fabbricazione degli imballaggi, dai trasporti alla vendita e manutenzione degli impianti frigoriferi necessari alla conservazione della produzione durante i mesi successivi alla raccolta, un ricco indotto che si è dissolto con le colture cui era collegato.
Al tramonto della frutticoltura Ferrara conserva ancora, per due decenni, il primato bieticolo, ma, dopo avere toccato, nel 1981, il primato di 45.000 ettari, anche le bietole abbandonano, progressivamente, i campi ferraresi, minacciando la vitalità dei grandi stabilimenti cui erano destinate, che in successione sono costretti a chiudere. Seppure, a differenza della canapa e dei fruttiferi, la coltura della bietola sia completamente meccanizzabile, il mancato aggiornamento tecnico e genetico, causa del ristagno della produzione di saccarosio per ettaro, la ragione dell’inferiorità della bieticoltura italiana, erode, progressivamente, i margini economici della coltura, che lentamente perde il ruolo antico.
Abbattuti i frutteti, i campi ferraresi sono ricoperti da frumento, bietola e mais, ai quali all’alba degli anni Ottanta, si aggiunge, per celebrare fasti anch’essa effimeri, la soia. Al declino della bietola, e alla scomparsa della soia, coincide quello del frumento, al quale i sussidi comunitari inducono gli agricoltori a sostituire il mais, l’autentico dominatore delle campagne ferraresi all’alba del nuovo Millennio, la coltura che esercita la propria signoria tanto sulle terre di più antica coltura quanto su quelle di coltura più recente, accomunate, ormai, da un unico destino agronomico ed economico.
Come la canapa costituiva, peraltro, il simbolo di una civiltà, non è meno emblematico di equilibri peculiari tra l’uomo e le risorse agrarie il mais, la pianta che evoca le distese del Middle West, seminata e raccolta dai giganti meccanici con cui un uomo può dominare mille ettari, perno un’economia agraria fondata sul negoziante di mais e fertilizzanti la cui batteria di silo interrompe la distesa dei campi di mais e soia a decine di chilometri dalle installazioni del concorrente più vicino. L’economia del mais non è l’economia del melo, che anima un villaggio di potatori, raccoglitori, meccanici e fabbricanti di cassette, non è neppure l’economia della bietola, che pretende passaggi successivi di una pluralità di macchine, alimenta grandi stabilimenti per rifornire i quali le campagne sono percorse da schiere di autotreni. Abbattuti i meleti, chiusi gli zuccherifici, l’economia agricola ferrarese ha perduto la vitalità degli anni Cinquanta e Sessanta, in piccola parte recuperata da una certa diffusione delle orticole di pieno campo e da una coltura nuova, il pomodoro, che negli anni più recenti ha occupato qualche spazio nel Mezzano. Tramutata in distesa di mais l’immensa pianura sottratta alle acque si è convertita nella Pampa italiana.