L'epopea della bonifica nel Polesine di San Giorgio/14
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Sono due errori che si uniscono in una morsa che per la maggior parte dei pionieri della bonifica si rivela fatale: proprio quando, infatti, verificano la necessità di realizzare strade e fabbricati, di acquistare bestiame e di stipendiare operai, i primi bonificatori debbono misurarsi con la caduta del prezzo del grano. La terra che hanno redento non produce quanto essi speravano, per offrire rendimenti sufficienti richiede nuovi, ingenti investimenti, il frumento che produce, tanto meno abbondante di quello sperato, vale la metà di quanto avevano previsto.
Allettati dal costo irrisorio della terra, e dai risultati di un computo agronomico errato, la maggioranza dei primi bonificatori ha investito tutte le disponibilità acquistando quanta più terra fosse possibile: cede il prezzo del grano, crollano i prezzi delle terre che di produrre grano si rivelano incapaci, i pionieri della bonifica tentano di resistere stipulando mutui astronomici: tra il 1886 ed il 1891 sei proprietari di terreni di bonifica, titolari, insieme, di 25.069 ettari, stipulano con la sola Banca nazionale mutui per 9.800.000 lire. Ma i mutui producono interessi, mentre i terreni di bonifica non producono frumento in misura che consenta di pagare gli interessi: il mutuo è la tappa obbligatoria verso una vendita che dissolverà il patrimonio che l’avventuroso pioniere dell’idrovora ha investito nella palude. La storia della bonifica dei polesini ferraresi registra, negli anni a cavaliere tra i due secoli, la rovina della schiera di uomini d’affari, finanzieri e imprenditori che hanno fatto professione di fede nella macchina a vapore, che dalla macchina a vapore sono costretti a rivendere la palude che hanno sognato di convertire in lembo dell’Eden.
La vaporiera che ha prosciugato la palude converte l’Eden nella terra di frontiera dove banchieri, speculatori e affaristi lottano per strappare, per un pugno di lire, i latifondi che i pionieri della bonifica hanno fatto emergere dalle acque per essere sommersi dai debiti, che le banche, impietose, pretendono siano pagati con una vendita a qualunque prezzo. E’, nella prima stagione dell’Italia industriale, vicenda che si consuma tra bagliori corruschi, una pagina di Far West immobiliare nell’Italietta di Giolitti.
Nella lotta di frontiera tra le paludi il più illustre tra gli sconfitti è Francesco Cirio, il più prestigioso imprenditore agroindustriale del Paese, il pioniere dell’applicazione industriale dei nuovi processi di conservazione degli ortaggi, che nel Polesine di San Giovanni si è proposto di creare un’azienda modello che dilata, moltiplicando gli acquisti, su migliaia di ettari, che, dimostratisi irrealizzabili i guadagni che sperava, Cirio rivenderà a prezzi ampiamente inferiori a quelli a cui ha acquistato. Data la molteplicità delle compravendite che vengono componendo il nuovo giardino delle Esperidi non è facile stabilire il prezzo medio di acquisto, come è difficile stabilire quello di vendita.
Forniscono un indizio eloquente dell’esito dell’avventura due dati: le 1.125 lire all’ettaro che Cirio ha pagato per i 1.256 ettari che ha acquistato, tra il 1886 ed il 1888, tra Codigoro, Pomposa e Mezzogoro, e le 890 lire per le quali cede, nel 1910, 2.500 ettari negli stessi comuni al cavalier Mazzotti Biancinelli. Tra i due contratti sono trascorsi, si deve rilevare, vent’anni, durante i quali l’alfiere della nuova agricoltura industriale ha investito somme ingenti in edifici, strade, apparecchiature, che hanno accresciuto la produttività dei terreni, a vantaggio, palesemente, dell’acquirente che li rileva a un prezzo inferiore del 30 per cento a quello a cui erano stati pagati appena emersi dalle acque. Nella rovina dei pionieri si salva, la storia è spesso impietosa, chi non ha sognato il lembo il nuovo Eldorado, chi di fronte alla palude non si è abbandonato alle illusioni sull’agricoltura di un futuro radioso, ma della palude ha fatto l’oggetto della più fredda speculazione immobiliare, chi ha comprato, come Pavanelli, terreni pubblici per poche lire e li ha rivenduti, triplicato il prezzo, a chi la palude voleva convertire in distesa di messi biondeggianti, chi, come Chizzolini, ha usato del duplice ruolo di progettista e di finanziere per operare il prosciugamento, e cedere, senza affrontare gli investimenti imposti dalla trasformazione agricola, a chi sognava l’agricoltura del futuro. Quando Pavanelli, intermediario spregiudicato, decide di chiudere la propria avventura, lascia il patrimonio di un grande latifondista, ma quella di Pavanelli è fine tragica. L’autentico trionfatore, nella cruda contesa sulla frontiera ferrarese della palude, è Girolamo Chizzolini. Per il proprio duplice ruolo, che diviene triplice se si considerano le funzioni di intermediario di apparecchiature meccaniche, l’ingegnere milanese ha raccolto tutti i benefici che un operatore tecnico ed economico potesse ritrarre dalla corrusca epopea delle bonifiche ferraresi.
Ai sogni dell’agricoltura futura l’accorto fratello muratore non manca di contribuire, peraltro, senza rischiare le proprie fortune, come condirettore del più diffuso periodico dell’agricoltura nazionale. Trionfatore sul cedevole terreno palustre nel quale tanti coraggiosi hanno affondato il patrimonio, sui bordi delle paludi ferraresi l’ingegnere milanese meriterebbe un monumento. Siccome non può esservi monumento senza lapide dedicatoria, a illustrare ai posteri i meriti dell’ingegnere lombardo in quella lapide dovrebbe scriversi, a caratteri d’oro, il giudizio pronunciato da Francesco Luigi Botter, che in occasione della prima comparsa tra le paludi ferraresi ha elogiato Chizzolini definendolo “uomo superiore, vera specialità tecnica e particolarmente idraulica” e, a complemento, gli attributi di cui lo onorano gli avvocati di Vittorio Merighi e quelli di pescatori e pastori di Massafiscaglia, che lo descrivono come il più avido degli animali da preda che abbia mai solcato le acque di una palude.