L'apatista o sia L'indifferente/Nota storica
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NOTA STORICA
L’anno comico 1757-58, forse per causa del precedente viaggio del Goldoni a Parma, era stato scarso di nuove composizioni (due nell’autunno, la Vedova spiritosa e il Padre per amore, e due nel carnovale, lo Spirito di contradizione e la Bella selvaggia tragicommedia), come abbiamo visto. Fu invece un periodo laboriosissimo per il commediografo veneziano quello che corse tra la fine del breve carnovale del ’58 (6 febbr.) e la partenza di Goldoni per Roma (23 nov. dello stesso anno): vi si contano due commedie scritte per il teatro di Zola del marchese Albergati, l’Apatista e la Donna bizzarra (recite estive: v. ed. Pitteri), e ben sette nuove composizioni consegnate al Vendramin, proprietario del teatro di S. Luca, prima di lasciare Venezia. Inoltre convien ricordare che due commedie almeno (la Vedova spiritosa e le Donne di buon umore, ossia le Morbinose) furono, come più addietro il Festino, ridotte in prosa dall’autore per il teatro di Tordinona.
L’Apatista dunque, o sia l’indifferente, è, come già l’Avaro (v. vol. XIII della presente ed.), come il Cavaliere di spirito (v. vol. precedente), una commedia di società, di soli sei personaggi, fra cui una donna, per comodo delle compagnie filodrammatiche (v. pref. del Cav. di spir.): ma come l’Avaro e come il Cavaliere di spirito, sdegnò presto gli effimeri trionfi delle sale private e tentò la fortuna del teatro pubblico. Il Goldoni ne godette, pare, la recita a Zola, nel teatro del marchese Albergati; e affermava più tardi nelle Memorie, non senza compiacimento: «Je defie qu’aucun Comédien soutienne ce caractère avec tant d’intelligence et de verité que M. le Marquis Albergati en a marqué dans l’exécution» (P. II, cap. 45). Con tutta probabilità ciò avvenne nell’estate del 1759, nei «due mesi e mezzo» che il buon Dottore sostò a Bologna, nel viaggio di ritorno da Roma a Venezia.
Qualche anno dopo, scriveva da Parigi (10 febbr. 1764) al suo grande amico e protettore: «Ella avrà saputo l’incontro felice, che hanno avuto in Venezia le due commedie scritte per lei: l’Apatista ed il Cavaliere di spirito»; e gli annunciava la dedica del t. X dell’ed. Pitteri, dove furono stampate (Masi, Lettere di C. G., Bologna, 1880, p. 236). - Trovo segnata nel Diario Veneto (che uscì nel primo trimestre del 1765) una recita a S. Salvatore (o S. Luca), con questa ortografia: La Patista o sia l’Uomo indifferente. L’interprete del cavaliere Ansaldo fu Bartolomeo Camerani ferrarese, l'innamorato della comp. Lapy, il quale aveva pure sostenuto il personaggio del Cavaliere di spirito: così ricorda Franc. Bartoli nelle sue Notizie de’ Comici italiani, benchè trasporti la data al 1762.
Ma caro restò l’Apatista ai filodrammatici: lo vediamo nei carnovali del 1764 e 1766 nel teatro del Collegio S. Carlo a Modena (Mod. a C. G., Mod. 1907, p. 239) e nel maggio 1772 nel teatro in casa Campori (ivi, p. 127); lo vediamo nella villeggiatura di Treviso nel 1775 (v. un’Acc.ia letterario-drammatica Veneta in cod. Cicogna 2999 presso il Museo Civico di Venezia) e nel carnovale del 1810 nel famoso teatro di Ca’ Foscari a Venezia (cod. Cicogna 3367, e. s.: note dell’ing. Gio. Casoni); lo vediamo nel teatro filodrammatico di Milano, nel giugno 1807 (G. Martinazzi, Acc.ia de filodr.ci ecc., Mil., 1879). Scarse tracce di fortuna lunghissima. - Più facile è raggiungerlo sui teatri pubblici dell’Ottocento: a Venezia (20 lugl. 1818 a S. Benedetto, comp. Andoifatti: v. Gazzetta privileg.), a Bologna (21 sett. 1820 all’Arena del Sole, comp. Perotti: v. Giorn. delli teatri comici, in Bib.ca teatrale, Ven., Gnoato), a Torino (1821, comp. Reale Sarda: v. G. Costetti, p. 13).
Non posso qui fare a meno di riferire ciò che ebbe a scrivere nel suo Censore Universale dei teatri (I, n. 87) Luigi Prividali, all’indomani d’un’altra recita sul teatro Re di Milano, nell’ott. 1829, da parte di quella Compagnia Ducale di Modena, a cui spetta, in grazia di Franc. Aug. Bon, la lode più bella del risvegliato amore per il Goldoni sulle scene nell’Ottocento. «...Emerge poi con un merito molto maggiore questa stessa difficile facilità nel signor Romagnoli [Luigi], quando ci si presenta come Apotista. Per far rilevare questo personaggio in tutto il valore del suo carattere un abilità sufficiente non basta, ce ne vuole una di altissimo grado. Se il parlare del signor Romagnoli non fosse in versi rimati, illudere io mi potrei facilmente, che le sue parole fossero da lui stesso create, e ch’egli invece d’essere sul palco scenico, si trovasse effettivamente nella propria casa, tanta è la naturalezza con cui egli si trasforma e mi rappresenta l’indifferente. Nè corrisponde egli soltanto alla volontà del poeta in tutto ciò che sta scritto, ma indovina ben anco tutte le di lui intenzioni nel suo accortissimo sceneggiamento. Lo secondano con valore soprattutti il signor Alberti [Daniele], ed anche i signori Conti [Filippo] e Monti [Pietro]. Sui due Alberti figli [Adamo e Giulietta] resterebbe a fare qualche eccezione. La parte del fanfarone è bellissima, offre all’attore un infinita di risorse, ma per conoscerle tutte ed approfittarne bene, ci vuole una penetrazione superiore agli anni di età e d’esercizio drammatico del giovinetto Alberti. Quella poi della sposa ha tutta l’apparenza che sia stata poco studiata dalla egualmente giovinetta di lui sorella. Goldoni ha molte di queste parti, l’importanza delle quali dipende, come dissi superiormente, dalla maniera di recitarle. Quella vanità femminile più lusingata dalle espressioni d’un fervido amante, che dalla sicurezza d’un ottimo consorte; quel contrasto tra le inclinazioni del cuore ed i suggerimenti della ragione; quel sentimento mortificato dall’indifferente, ed esaltato dall’amante; le tre scene poi col pretendente violento, coll’aspirante pacifico, e coll’appassionato amatore offrono all’attrice tre tanto differenti situazioni da farsi immensamente valere. Non meritava questa bellissima parte, che madama Bon [Luigia] si dispensasse d’assumerla; dalla sua bocca io avrei voluto sentire quel lungo discorso coll’Apatista, che qui lo intesi sensibilmente negletto e precipitato. Imprese per verità sono queste che domandano molta finezza d’ingegno ed una gran forza di raziocinio».
Il Censore ha ben additato le scene capitali che danno il carattere originale alla presente commedia: scene che servono a rivelarci una figura nuova di donna nel lungo corteo femminile del teatro di Goldoni. Peccato che Lavinia parli troppo a lungo nel colloquio col Cavaliere in fine del secondo atto, com’era difetto dei Francesi; e parli tanto male nel colloquio supremo con don Paolino. E peccato che don Paolino, tipo notevole di innamorato, di rado trovi il linguaggio vero della passione, e anneghi nel rettoricume d’uso espressioni naturali come queste: «E piangerete un giorno quel core abbandonato - Che vi amò dolcemente, che non avete amato» (V, I). Eppure i tormenti e gli accenti dell’amore si conoscevano anche nella Venezia del Settecento: basta ricordare quella lettera che Gasparo Gozzi scriveva a Luisa Bergalli, certo poco tempo avanti il matrimonio (pubblicata nel 1836 dal Meneghelli, Del monum. eretto a G. G. colla giunta di alcune lett., Padova). — L’Apatista poi, o il cavaliere Ansaldo, è ancora della stessa famiglia del Cavaliere di buon gusto, del Cavaliere di spirito e d’altri personaggi cari al Goldoni e al Settecento, perchè armati di esperienza e di filosofia: uomini fra i trenta e i cinquant’anni, superiori alle passioni e ai pregiudizi. Abbiamo qui un amante di sè medesimo, rifatto e megliorato sia artisticamente che moralmente. Tuttavia non ci soddisfa ancora nè per l’una, nè per l’altra parte. Che il Goldoni volesse dipingere se stesso e amasse avvicinarsi a quel ritratto («...tale qual io vorrei essere, se non lo sono») non può credere chiunque conosca le sue Memorie, le sue lettere, il suo teatro: le parole della prefazione ci rivelano piuttosto il momento psicologico in cui l’autore dei Rusteghi le scriveva nel 1763, in Francia. Invidiabile era nel G. non l’indifferenza, bensì quella «tranquillità di temperamento», di cui spesso compiacevasi (v. per es. lett. all’Albergati 26 maggio 1766). Certo la commedia non conserva vitalità: troppe sono le parti ormai morte, come per es. quasi tutto il primo atto. Il buffonesco travestimento del servo nel quarto, ci riconduce addirittura al teatro dell’arte e al Seicento (e dire che il conte Al. Pepoli ne invocò l’esempio a sua difesa, insieme col travestimento della Serva amorosa: v. pref. del Progettista, in Teatro del Conte A. P., Ven., V, 1780, p. 341). — Quei signor Giacinto, un «capitan Coviello» rinnovellato, che il Maddalena raccostò al marquis della commedia francese (Figurine goldoniane: Capitan Fracassa, Zara, 1899, pp. 12-13), farebbe forse ridere ancora il pubblico dal palcoscenico, specie quello delle società filodrammatiche, ma sa di intruso e di stantio: il lungo episodio ci offende per l’inverosimiglianza.
E ci offende Policastro: solo giova ammirare l’audacia dell’autore che mandava davanti ai patrizi bolognesi questo conte affamato a ripetere i lazzi d’Arlecchino (il suo appetito ci ricorda il parassita don Isidoro nella Vedova spiritosa, don Ciccio nella Villeggiatura, Ottavio nella Castalda, e il vilissimo conte Onofrio nelle Femmine puntigliose). Il commediografo veneziano si diverte a gettare il ridicolo su questo personaggio, a sformarlo in una caricatura. Noi lo conosciamo appena entra in scena timidamente; diciamo: Eccolo! Poco fa era il giovane Rinaldo, sposo di Dorotea spirito di contradizione; tempo addietro era il vecchio Policastro, nei Malcontenti (Dejob, La femme dans la comédie, Paris, 1899, p. 266). Proprio il contrapposto dei cavalieri di spirito e dei cortesani. E qui anche più vivo è il contrasto col carattere virile della figlia. Il riso erompe qualche volta spontaneo, come nella risposta leggermente ironica del Conte a Giacinto: «G. Ditel voi s’ella mi ama. C. Non me ne sono accorto. - So che quando le dissi la vostra inclinazione, — Risposemi Lavinia con tutta sommissione: — Padre, ai vostri comandi io contrastar non soglio; — Datemi voi lo sposo: ma questo io non lo voglio» II, 4. Ma quasi sempre il riso è d’un comico volgare.
Da un pezzo la fama dell’Apatista è tramontata: eppure con questo titolo sorse nel 1834 a Venezia un giornale d’istruzione, teatri e varietà, che durò più anni. Il Molmenti ricordò questa commedia per dimostrare quanti aspetti diversi dell’egoismo sapesse studiare e ritrarre il Goldoni (C. G., Ven. 1880, p. 107: V. Nota stor. dell’Amante di sè med., vol. XIII). Più di recente il Maddalena (l. c.) azzardò un ipotesi, senza insistere tuttavia: «Forse la commedia stessa risale a una fonte francese. Ma quand’anche sia lavoro originale, non cresce in nulla la gloria de’ suo autore». Poi accennava al felice successo a Venezia, nel 1764, per concludere con un suo sorriso: «Tutti i gusti son gusti».
E fu l’ultima parola sulla sepoltura dell’Uomo indifferente.
G. O.
L’Apatista uscì a stampa in principio del 1764 a Venezia, nel t. X (1763) del Nuovo Teatro Comico dell’Av. C. G.; e di nuovo fu impresso a Torino (Guibert e Orgeas VII, 1775), a Venezia (Zatta cl. 3a, IV. 1792), a Livorno (Masi XI. '89). a Lucca (Bonsignori XXVIll, ’92) e forse altrove nel Settecento. Non si trova nei volumi editi dell’ed. Pasquali. — La presente ristampa seguì il testo delle edizioni Pitteri e Zatta. Valgono i soliti avvertimenti.