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guaggio vero della passione, e anneghi nel rettoricume d’uso espressioni naturali come queste: «E piangerete un giorno quel core abbandonato - Che vi amò dolcemente, che non avete amato» (V, I). Eppure i tormenti e gli accenti dell’amore si conoscevano anche nella Venezia del Settecento: basta ricordare quella lettera che Gasparo Gozzi scriveva a Luisa Bergalli, certo poco tempo avanti il matrimonio (pubblicata nel 1836 dal Meneghelli, Del monum. eretto a G. G. colla giunta di alcune lett., Padova). — L’Apatista poi, o il cavaliere Ansaldo, è ancora della stessa famiglia del Cavaliere di buon gusto, del Cavaliere di spirito e d’altri personaggi cari al Goldoni e al Settecento, perchè armati di esperienza e di filosofia: uomini fra i trenta e i cinquant’anni, superiori alle passioni e ai pregiudizi. Abbiamo qui un amante di sè medesimo, rifatto e megliorato sia artisticamente che moralmente. Tuttavia non ci soddisfa ancora nè per l’una, nè per l’altra parte. Che il Goldoni volesse dipingere se stesso e amasse avvicinarsi a quel ritratto («...tale qual io vorrei essere, se non lo sono») non può credere chiunque conosca le sue Memorie, le sue lettere, il suo teatro: le parole della prefazione ci rivelano piuttosto il momento psicologico in cui l’autore dei Rusteghi le scriveva nel 1763, in Francia. Invidiabile era nel G. non l’indifferenza, bensì quella «tranquillità di temperamento», di cui spesso compiacevasi (v. per es. lett. all’Albergati 26 maggio 1766). Certo la commedia non conserva vitalità: troppe sono le parti ormai morte, come per es. quasi tutto il primo atto. Il buffonesco travestimento del servo nel quarto, ci riconduce addirittura al teatro dell’arte e al Seicento (e dire che il conte Al. Pepoli ne invocò l’esempio a sua difesa, insieme col travestimento della Serva amorosa: v. pref. del Progettista, in Teatro del Conte A. P., Ven., V, 1780, p. 341). — Quei signor Giacinto, un «capitan Coviello» rinnovellato, che il Maddalena raccostò al marquis della commedia francese (Figurine goldoniane: Capitan Fracassa, Zara, 1899, pp. 12-13), farebbe forse ridere ancora il pubblico dal palcoscenico, specie quello delle società filodrammatiche, ma sa di intruso e di stantio: il lungo episodio ci offende per l’inverosimiglianza.
E ci offende Policastro: solo giova ammirare l’audacia dell’autore che mandava davanti ai patrizi bolognesi questo conte affamato a ripetere i lazzi d’Arlecchino (il suo appetito ci ricorda il parassita don Isidoro nella Vedova spiritosa, don Ciccio nella Villeggiatura, Ottavio nella Castalda, e il vilissimo conte Onofrio nelle Femmine puntigliose). Il commediografo veneziano si diverte a gettare il ridicolo su questo personaggio, a sformarlo in una caricatura. Noi lo conosciamo appena entra in scena timidamente; diciamo: Eccolo! Poco fa era il giovane Rinaldo, sposo di Dorotea spirito di contradizione; tempo addietro era il vecchio Policastro, nei Malcontenti (Dejob, La femme dans la comédie, Paris, 1899, p. 266). Proprio il contrapposto dei cavalieri di spirito e dei cortesani. E qui anche più vivo è il contrasto col carattere virile della figlia. Il riso erompe qualche volta spontaneo, come nella risposta leggermente ironica del Conte a Giacinto: «G. Ditel voi s’ella mi ama. C. Non me ne sono accorto. - So che quando le dissi la vostra inclinazione, — Risposemi Lavinia con tutta sommissione: — Padre, ai vostri comandi io contrastar non soglio; — Datemi voi lo sposo: ma questo io non lo voglio» II, 4. Ma quasi sempre il riso è d’un comico volgare.