L'amore delle tre melarance/Atto primo
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ATTO PRIMO
SILVIO, Re di Coppe, Monarca d’un Regno immaginario, i di cui vestiti imitavano appunto quelli dei Re delle carte da giuoco, lagnavasi con Pantalone della disgazia dell’unico suo figliuolo Tartaglia, Principe ereditario, caduto da dieci anni in una malattia incurabile. I medici l’avevano giudicata un’insuperabile effetto ipocondriaco, e l’avevano già abbandonato. Piangeva forte. Pantalone ai Medici, suggeriva secreti mirabili di alcuni Ciarlatani, che esistevano in quel tempo. Il Re protestava, che tutto inutilmente si era provato. Pantalone fantasticando sull’origine della malattia chiedeva al Re in secreto, per non essere udito dalle guardie, che circondavano il Monarca, se la Maestà sua avesse acquistato nella sua giovinezza qualche male, che comunicato al sangue del Principe ereditario lo riducesse a quella miseria, e se il mercurio potesse giovare. Il Re con tutta la serietà protestava d’essere stato sempre tutto Regina. Pantalone aggiungeva, che forse il Principe occultava per rossore qualche infermità contagiosa guadagnata. Il Re serio lo assicurava con maestà, che per i suoi paterni esami doveva assicurarsi, ch’ella non era così: Che l’infermità del figliuolo non era, che un mortale effetto ipocondriaco: Che i Medici avevano pronosticato, che, s’egli non ridesse, sarebbe in breve sotterra: Che il solo ridere poteva esser in lui un segno evidente di guarigione. Cosa impossibile. Aggiungeva, che il vedersi già decrepito, coll’unico figliuolo moribondo, e con la Nipote Principessa Clarice, necessaria erede del suo Regno, giovane bizzarra, strana, crudele, lo affliggeva. Compiangeva i sudditi, piangeva dirottamente, dimenticando tutta la maestà. Pantalone lo consolava; rifletteva, che s’era dipendente la guarigione del Principe Tartaglia dal suo ridere, non si doveva tener la Corte in mestizia. Si bandissero feste, giuochi, maschere, e spettacoli. Si lasciasse libertà a Truffaldino, persona benemerita nel far ridere, e ricetta vera contro gli effetti ipocondriaci, di trattare col Principe. Aveva scoperto nel Principe qualche inclinazione alla confidenza di Truffaldino. Avrebbe potuto succedere, che il Principe ridesse, e guarisse. Il Re si persuadeva, disponeva di dar gli ordini opportuni. Usciva.
Leandro, Cavallo di Coppe, primo Ministro. Questo personaggio era pur vestito, com’è la figura sua nelle carte da giuoco. Pantalone accennava a parte il suo sospetto di tradimento sopra Leandro. Il Re ordinava a Leandro feste, giuochi, e baccanali. Diceva, che qualunque persona giungesse a far ridere il Principe, avrebbe un gran premio. Leandro dissuadeva il Re da tale risoluzione, giudicando tutto di maggior danno all’infermo. Pantalone insisteva nel suo consiglio. Il Re riconfermava gli ordini, e partiva. Pantalone esultava. Diceva a parte di scoprire in Leandro del desiderio per la morte del Principe. Seguiva il Re. Leandro rimaneva ottuso; esprimeva di vedere alcune opposizioni alla sua brama, ma che non conosceva l’origine. Usciva.
La Principessa Clarice, Nipote del Re. Non s’è mai veduta sulla scena una Principessa di carattere strano, bizzarro, e risoluto come Clarice. Ringrazio il Sig. Chiari, che m’ha dati vari specchi nelle sue Opere per far una parodia caricata di caratteri. Costei in accordo con Leandro di sposarlo, ed elevarlo al Trono, se restava erede del Regno colla morte di Tartaglia, suo cugino, sgridava Leandro per la flemma, che doveva avere attendendo, che morisse il cugino per una malattia così lenta, com’è quella dell’ipocondria. Leandro si giustificava colla cautela, dicendo, che la Fata Morgana, sua protettrice, gli aveva dati alcuni brevi in versi martelliani da far prendere in parecchie panatelle a Tartaglia, che dovevano farlo morire lentamente per gli effetti ipocondriaci. Ciò si diceva per censurare le Opere del Sig. Chiari, e del Sig. Goldoni, che stancavano scritte in versi martelliani colla monotonia della rima. La Fata Morgana era nimica del Re di Coppe per aver perduti molti de’ suoi tesori sul ritratto di quel Re. Era amica del Cavallo di Coppe per aver fatto qualche ricupera sulla sua figura. Abitava in un lago, vicino alla Città. Smeraldina mora, ch’era la servetta in questa scenica parodia caricata, era il mezzo tra Leandro, e Morgana. Clarice andava in furore sentendo il modo tardo, che s’usava nella morte di Tartaglia. Leandro aggiungeva dubbi sull’inutilità de’ brevi in versi martelliani. Vedeva introdotto in Corte, spedito, non sapeva da chi, un certo Truffaldino, persona faceta; se Tartaglia rideva, guariva dal male. Clarice smaniava; aveva veduto quel Truffaldino, non era possibile il trattenere le risa al solo vederlo. Che i brevi in versi martelliani di caratteri grossi sarebbero inutili. Da tali discorsi rileverà il lettore la difesa delle Commedie improvvise colle maschere contro gli effetti ipocondriaci, in confronto delle scritte in versi da’ Poeti d’allora malinconiche. Leandro aveva spedito Brighella, suo messo, a Smeraldina mora per saper ciò, che volesse inferire l’arcano della comparsa di quel Truffaldino, e a chieder soccorsi. Usciva.
Brighella, riferiva con secretezza, che Truffaldino era spedito alla Corte da certo Celio Mago, nimico di Morgana, e amante del Re di Coppe, per ragioni simili alle accennate di sopra. Che Truffaldino era una ricetta contro gli etfetti ipocondriaci cagionati dai brevi in versi marteliiani, giunto alla Corte per preservare il Re, il figliuolo, e tutti que’ popoli dal morbo contagioso degli accennati brevi.
Si noti, che nella nimicizia della Fata Morgana, e di Celio Mago erano figurate arditamente e allegoricamente le battaglie Teatrali, che correvano allora tra i Signori due Poeti, Goldoni e Chiari, e che nelle due persone pure della Fata e del Mago, erano figurati in caricatura i due Poeti medesimi. La Fata Morgana era in caricatura il Chiari; Celio in caricatura il Signor Goldoni.
La notizia recata da Brighella dell’arcano sul Truffaldino, metteva della gran confusione in Clarice, e in Leandro. Si consigliavano vari modi di morte occulta, per far perir Truffaldino. Clarice suggeriva arsenico, o archibugiate. Leandro brevi in versi martelliani nella panatella, o vero oppio. Clarice, che martelliani, e oppio erano due cose simili; che Truffaldino gli sembrava d’uno stomaco assai forte per digerire tali ingredienti. Brighella aggiungeva, che Morgana, sapendo gli spettacoli ordinati per divertire il Principe e per farlo ridere, aveva promesso di comparire, e di opporre alle sue risa salubri una maledizione, che l’avrebbe mandato alla morte. Clarice entrava per dar luogo all’apparecchio degli spettacoli ordinati. Leandro, e Brighella entravano per ordinarli.
Aprivasi la scena alla camera del Principe ipocondriaco. Questo faceto Principe Tartaglia era in un vestiario il più comico da malato. Sedeva sopra una gran sedia da poltrire. Aveva a canto un tavolino, a cui s’appoggiava, carico di ampolle, di unguenti, di tazze da sputare, e d’altri arredi convenienti al suo stato. Si lagnava con voce debile del suo infelice caso. Narrava le medicature sofferte inutilmente. Dichiarava gli strani effetti della sua malattia incurabile, e siccom’egli aveva il solo argomento della scena, questo valente personaggio non poteva vestirlo con maggior fertilità. Il suo discorso buffonesco e naturale cagionava un continuo scoppio di risa universali nell’Uditorio. Usciva quindi il facetissimo Truffaldino per far ridere l’infermo. La scena all’improvviso, che facevano questi due eccellenti comici sull’argomento, non poteva riuscire, che allegrissima. Il Principe guardava di buon occhio Truffaldino; ma per quante prove facesse non poteva ridere. Voleva discorrere del suo male, voleva opinione da Truffaldino. Truffaldino faceva dissertazioni fisiche, satiriche, e imbrogliate, le più graziose, che s’udissero. Truffaldino fiutava il fiato al Principe, sentiva odore di ripienezza di versi martelliani indigesti. Il Principe tossiva, voleva sputare. Truffaldino porgeva la tazza; raccolto lo sputo, lo esaminava; trovava delle rime fracide e puzzolenti. Tal scena durava un terzo d’ora con le risa continuale degli ascoltatori. Udivansi degli strumenti, che davano segno degli spettacoli allegri, i quali si facevano nel gran cortile della Reggia, Truffaldino voleva condur il Principe sopra un verone a vederli. Il Principe protestava, che ciò era impossibile. Facevano un contrasto ridicolo. Truffaldino collerico gettava per una finestra ampolle, tazze, e tutto ciò, che serviva alla malattia di Tartaglia, che strillava, e piangeva, come un rimbambito. Finalmente Truffaldino portava a forza sulle spalle a goder gli spettacoli quel Principe, che urlava, come se gli si staccassero le viscere.
Aprivasi la scena al gran cortile della Reggia. Leandro accennava di aver eseguiti gli ordini per gli spettacoli; che il popolo mesto, bramoso di ridere, si era tutto mascherato; che sarebbe venuto in quel cortile alle feste; ch’egli aveva avuta la precauzione di far mascherare molte persone in modo lugubre per accrescere la malinconia nel Principe spettatore; ch’era tempo di far aprire il cortile per dar adito al popolo di entrare. Usciva.
Morgana, trasformata in vecchiarella con caricatura. Leandro si maravigliava, che a porte chiuse foss’entrato quell’oggetto. Morgana si palesava e diceva esser ivi giunta in quella figura per isterminare il Principe, come vedrà; che dovesse incominciar le feste. Leandro la ringraziava, la chiamava Regina dell’ipocondria. Morgana si ritirava. Si spalancavano le porte del cortile.
Comparivano sopra un verone di facciata il Re, il Principe ipocondriaco, impellicciato, Clarice, Pantalone, le Guardie, indi Leandro. Gli spettacoli, e le feste non erano, che quei medesimi, che si narrano a’ ragazzi raccontando loro la fola delle tre melarance. Entrava il popolo. Si faceva una giostra a cavallo; caposquadra Truffaldino, che ordinava de’ faceti movimenti a’ Cavalieri giostranti. Ad ogni movimento si volgeva al verone, chiedendo alla Maestà sua, se il Principe rideva. Il Principe piangeva, lagnandosi che l’aria lo molestava, che il romore gl’intronava la testa: pregava la Maestà paterna a farlo porre a letto ben caldo.
A due fontane, l’una, che zampillava olio, l’altra vino, concorreva il popolo a provedersi: si facevano de’ contrasti trivialissimi, e plebei. Nulla faceva ridere il Principe.
Usciva Morgana da vecchierella con un vaso per provvedersi dell’olio alla fontana. Truffaldino faceva vari insulti a quella vecchiarella; ella cadeva a gambe alzate. Tutte queste trivialità, che rappresentavano la favola triviale, divertivano l’Uditorio colla loro novità, quanto le Massere, i Campielli, le Baruffe Chiozzotte, e tutte l’opere triviali del Sig. Goldoni.
Allo scorcio del cadere della vecchiarella il Principe dava in un scoppio di risa sonore, e lunghe. Guariva da tutti i suoi mali ad un tratto. Truffaldino vinceva il premio, e al ridere di quel faceto Principe l’Uditorio sollevato dall’oppressione, cagionata in lui dalle infermità di quell’infelice, rideva sgangheratamente.
Tutta la Corte era allegra del caso. Leandro e Clarice erano mesti.
Morgana, levandosi da terra rabbiosa, rimproverava enfatica il Principe e gli scagliava la seguente terribile maledizione ammaliata chiaresca.
Apri l’orecchio, o barbaro; passi la voce al core;
Né muro, o monte fermino il suon del mio furore.
Come spezzante fulmine si ficca nel terreno,
Così questi miei detti ti si ficchino in seno.
Come burchio al remurchio tirato è dal cordone,
Te conduca pel naso questa mia imprecazione.
Imprecazione orrìbile! solo in udirla mori,
Come nel mar quadrupede, pesce in sui prati e i fiori.
L’atro Plutone io supplico, e Pindaro volante,
Delle tre Melarance che tu divenga amante.
Minacce, prieghi e lagrime sian vane larve, e ciance.
Corri all’orrendo acquisto delle tre Melarance.
Morgana spariva. Il Principe entrava in un robusto entusiasmo per l’amore delle tre Melarance. Veniva condotto via con grandissima confusione della Corte.
Quali inezie! Qual mortificazione per i due Poeti! Il primo atto della Favola terminava a questo passo con una universal picchiata di mani.