Giuseppe Gioachino Belli

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Le raggione der Cardinale mio L'editti
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1832

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L'AMMAZZATO

     Da dietr’ a Gghiggi, lì a le du’ salite,
Sin ar cantone der Palazzo Mutto,1
Tra er coco e ll’oste ciasseguì2 la lite
Pe ’na visciga misera de strutto!

     Er morto poi passò a le Convertite3
Viscin’ a Spada:4 oh ddio cuant’era bbrutto!
Pieno da cap’a ppiede de ferite
Che ppisciolava sangue dapertutto.

     E cche! ssemo a li tempi de Nerone,
Che le lite, per dio, tra li cristiani
Nun z’abbino da fà mmai co’ le bbone?!

     Che ssemo diventati noi Romani
Che ppe’ mmanco d’un pelo de c......
Ciavèmo da sbramà5 ccome li cani?!

Roma, 29 novembre 1832


Note
  1. Il palazzo Mutto, dove fu ucciso da una mano incognita Ugone Basse-Ville.
  2. Ci seguì.
  3. Luogo del Corso ove prima era una casa religiosa di rifugio per le donne di mal affare ridotte a penitenza.
  4. Vedi Nota al verso 6
  5. Sbranare invece di sbramare.

Nota al verso 6 modifica

Abilissimo orologiaio. [Grande amico del Belli, e autore, tra l’altre cose, del noto sonetto: Er tempo cattivo, che io raccolsi dalla tradizione popolare e pubblicai già sotto il suo nome nell’ediz. Barbèra, ma che comunemente veniva attribuito al Belli; il quale ne ha bensi alcuni sullo stesso argomento (Er diluvio ecc., 28 genn. 32; Er tempo cattivo, 7 febbraio 33....), ma molto diversi da questo del suo amico:

     Me sapressivo dì che nn’è der zole?
Accidenti!, dich’io: cristo, ch’inverno!
E ppiove, e ppiove, e ppiove in zempiterno!
E cche ll’ommini so’ rote de mole?1

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     Ranocchie? granci teneri?2 sciriòle?3...
So ch’è un penziero d’annàcce a l’inferno,4
Ma me sta in testa a mmé ch’er Padreterno5
Abbi6 dato de vorta a le cariole.7

     De cqui nun z’esce: o er Padreterno è mmatto,
O pe’ equarche gran buggera ch’ha in testa,
Nun z’aricorda più come scià8 ffatto.

     Nun e’ è antra raggi one: o cquella, o cquesta;
O che, ssinnò, pe’ ffà ’na chiusa d’atto,9
Cojje a echi cojje,10 e bbuggiarà chi resta.

Prendono la mola (macina) per il molino. Anche nell’Umbria s’ode spesso: “Dove se’ jito? — So’ jito a la mola.„

Note

  1. Prendono la mola (macina) per il molino. Anche nell’Umbria s’ode spesso: “Dove se’ jito? — So’ jito a la mola.„
  2. Specie di granchi, chiamati cosi, forse perchè sono più teneri di altri.
  3. Ciriòla: piccola anguilla.
  4. Intendi: "So che questo pensiero che ho io, è tale da andarci all’inferno; ma tuttavia lo dirò.„
  5. Variante: Ma in testa me sce sta ch’er Padreterno.
  6. Abbia.
  7. Dar di volta alle carriole, vale: "impazzire„
  8. Ci ha.
  9. Fare una chiusa d’atto significa: "finir qualche cosa in modo straordinario;„ perchè gli atti al teatro finiscono per lo più colla sparata, come i sonetti. Qui poi la metafora calza a puntino, trattandosi della commedia che si chiama mondo. Una variante di questo verso suona cosi: Oppuro, pe’ddàffine all’urtim’atto.
  10. Coglie chi coglie, cioè: "chi le tocca, son sue; chi more, more.„ Variante: Chi ccojje, cojje.]