Pagina:Sonetti romaneschi II.djvu/177


Sonetti del 1832 67


     Ranocchie? granci teneri?1 sciriòle?2...
So ch’è un penziero d’annàcce a l’inferno,3
Ma me sta in testa a mmé ch’er Padreterno4
Abbi5 dato de vorta a le cariole.6

     De cqui nun z’esce: o er Padreterno è mmatto,
O pe’ equarche gran buggera ch’ha in testa,
Nun z’aricorda più come scià7 ffatto.

     Nun e’ è antra raggi one: o cquella, o cquesta;
O che, ssinnò, pe’ ffà ’na chiusa d’atto,8
Cojje a echi cojje,9 e bbuggiarà chi resta.

Prendono la mola (macina) per il molino. Anche nell’Umbria s’ode spesso: “Dove se’ jito? — So’ jito a la mola.„
  1. Specie di granchi, chiamati cosi, forse perchè sono più teneri di altri.
  2. Ciriòla: piccola anguilla.
  3. Intendi: "So che questo pensiero che ho io, è tale da andarci all’inferno; ma tuttavia lo dirò.„
  4. Variante: Ma in testa me sce sta ch’er Padreterno.
  5. Abbia.
  6. Dar di volta alle carriole, vale: "impazzire„
  7. Ci ha.
  8. Fare una chiusa d’atto significa: "finir qualche cosa in modo straordinario;„ perchè gli atti al teatro finiscono per lo più colla sparata, come i sonetti. Qui poi la metafora calza a puntino, trattandosi della commedia che si chiama mondo. Una variante di questo verso suona cosi: Oppuro, pe’ddàffine all’urtim’atto.
  9. Coglie chi coglie, cioè: "chi le tocca, son sue; chi more, more.„ Variante: Chi ccojje, cojje.]