L'Argentina vista come è/Gli allucinati
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GLI ALLUCINATI.1
Buenos Aires, dicembre 1901.
Vengono e vengono gli allucinati, sempre, a migliaia e migliaia, tutti i giorni. Essi seguono follemente il loro miraggio, abbacinati; non sanno nulla, fuori che questa è la terra dove «si fa fortuna»; ignoranti e incoscienti, senza volontà e senza idee, spinti da una forza misteriosa e mostruosa, quasi un esercito di ipnotizzati, attirati da questa terra come i vascelli dall’isola fatata nella leggenda araba.
È inutile che i giornali onesti gridino al mondo la grande crisi che affligge questo paese: essi vengono. È inutile che le ricerche imparziali facciano conoscere che nella sola città di Buenos Aires quarantamila operai almeno sono senza lavoro; che tanta parte e migliore della campagna ha perduto i raccolti, tanto che lo Stato distribuisce le sementi; che il malgoverno ha rovinato i commerci, distrutto il credito, paralizzato lo sviluppo industriale, colpito a morte la libertà e la giustizia: essi vengono. È inutile che ogni giorno le liste dei ricercati dai Consolati dimostrino la scomparsa di migliaia e migliaia di emigrati, dispersi, spariti nelle solitudini delle pampas forse, perduti in lontane estancias, finiti non si sa dove, non si sa come: essi vengono. È inutile che i consoli, di fronte alla immensa miseria che chiede tutti i giorni il loro aiuto, sconsiglino l’emigrazione: essi vengono. Vengono, increduli al male, quasi convinti che il volerli dissuadere significhi solo il volerli escludere dalla loro parte di fortuna, sostenuti e consigliati non si sa da quale demonio.
Ogni nave che arriva ne scarica migliaia sulle banchine del Porto Madero. Il loro numero è pubblicato vicino alle note di carico: essi sono una merce d’importazione. Dal gennaio ne sono sbarcati sessantacinquemila. Nel solo mese di ottobre sono arrivati dodicimila emigrati, dei quali diecimila italiani. In questi ultimi tre giorni sono arrivati tremila e ottocento emigrati, in gran parte nostri connazionali.
L’«Hôtel de Inmigrantes» è gremito. Il lavoro di sparpagliamento di questa gente per tutta le Repubblica procede alacremente. Annesso al ricovero per gli emigrati ve l’«Oficina de Trabajo» che riceve le domande di mano d’opera e distribuisce il lavoro; gli emigranti con le famiglie sono trasportati sul posto del lavoro a spese dello Stato. Teoricamente l’organizzazione è bella, ma il suo funzionamento è troppo spesso inumano. I lavori per i quali si richiede la mano d"opera sono ben sovente temporanei; quando sono finiti, gli operai vengono licenziati; i miseri rimangono senza risorse in mezzo ad un paese sconosciuto, soli, inascoltati, ignorati. E non possono tornare indietro: l’emigrante può viaggiare gratis su tutte le linee della Repubblica, ma solo in una direzione: avanti, verso la periferia. L’Argentina ha bisogno di dicentrare la popolazione; la legge è sapiente, ma spietata. Giunti all’interno, gli emigranti sono praticamente prigionieri del paese. Alcuni tentano il ritorno a piedi fra disagi gravi ed anche pericoli. Non sono molti giorni che una famiglia italiana di quattro persone, fra cui una bambina, è tornata a Buenos Aires da Tucuman (milleduecento chilometri) a piedi, traversando il terribile deserto delle Salinas. Inoltre l’«Oficina de Trabajo» non si cura di esaminare le capacità degli individui per distribuirli logicamente secondo i climi o i lavori. La personalità sparisce, un emigrante vale l’altro, gli uomini diventano cose, macchine che non costano nulla e che arrivano in abbondanza. Si domandano cento uomini per il raccolto dello zucchero nel Salta o nel Chaco? Ebbene, si mandano i primi cento che capitano a compire quel lavoro al quale gl’indi stessi si rifiutano. Gli emigranti possono non accettare, è vero, ma questa povera gente sente nominare il Chaco per la prima volta!
Nell’«Hôtel de Inmigrantes» sono accampati come un’armata alla vigilia della battaglia. Il paragone viene naturale. Di fronte a tanta forza incosciente si prova quella pietà profonda che solleva la vista di soldati partenti allegramente per la guerra. Quale sorte li aspetta? Queste sono le ultime ore che trascorrono insieme: il bastimento rappresentava ancora un pezzo di patria; questo rifugio continua ancora la vita di bordo. È un immondo lazzaretto della miseria, ma li tiene uniti. Fra poco saranno dispersi a centinaia di leghe da qui e non sapranno, nemmeno vagamente, dove si troveranno. Non potranno — come il Maomettano che prega volgendosi alla Mecca — volgersi verso un punto dell’orizzonte pensando: l’Italia è là. Non ho trovato che un solo emigrante, sopra tanti che ho interrogato, capace d’indicarmi l’America sopra una carta geografica che presentavo loro!
È questa immensa ignoranza che li rende docili, sicuri e preziosi per il paese. Dove cadono si attaccano e producono, come il seme. L’idea della prosperità che verrà li rende rassegnati a tutto, come una volta l’idea del paradiso; poi, nell’ora del disinganno, sono rassegnati per abitudine. Essi formano la vera ricchezza del paese; non esiste un «hijo del pais» che coltivi la terra: per lui c’è l’impiego, l’affare, la speculazione, il giuoco. È il lavoro dello straniero — e dicendo straniero si può quasi significare italiano — che ha sviluppato le risorse della terra, che ha reso possibili le industrie, attivato il commercio, creato in mezzo secolo l’Argentina d’oggi.
Questo Governo conosce il valore inestimabile dell’emigrante, la massima dell’Alberdi «gobernar es poblar» è sempre applicata: l’emigrazione è incoraggiata con opuscoli, con pubblicazioni, con conferenze tenute all’estero e principalmente in Italia; la diminuzione dell’emigrazione ha destato allarmi, provocato provvedimenti. Eppure, questa merce umana così preziosa, è ricevuta e trattata qui con molta meno cura dell’altra merce, quella in balle! Per le casse di carta o di cotone vi sono dei grandi edifici in muratura, dei docks superbi ventilati e asciutti, muniti di ascensori, ben situati sugli scali fra larghe vie in cemento. Per gli emigranti vi è una grande baracca di legno cadente e infetta, nella quale vengono condotti come mandrie all’ovile da inurbani impiegati.
⁂
L’«Hôtel» degli emigranti (lo chiamano Hôtel!) sorge su quella landa indefinibile, irregolare, fangosa, che sta fra il torbido e tempestoso Rio della Plata e la città, una striscia di terra che si direbbe la zona neutra fra il possesso delle acque e quello degli uomini. Tutto intorno dei pantani putridi coperti da una superba vegetazione acquatica mettono un po’ di verde sul piano squallido e un po’ di miasmi per l’aria.
L’«Hôtel», di legno, ha una forma strana, sembra un gasometro munito di finestre. Dei tetti bassi, neri e irregolari gli si aggruppano intorno. Nel mezzo all’edificio principale, al gasometro, vi è un cortiletto circolare, oscuro, umido, una specie di pozzo, sul quale si aprono le porte delle camerate. Un sistema di logore scalette di legno, che dà all’ambiente l’aspetto d’un retroscena, permette l’accesso ai piani superiori. L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d’umanità accatastata, di miseria.
L’infinito armento umano ha lasciato sulle cose, nell’aria, per ogni dove le sue tracce. Le pietre delle soglie sono consunte; gli angoli sono smussati, scavati, allisciati e anneriti dalle centinaia di migliaia di mani che vi hanno strisciato su. Più in alto, all’altezza dei volti, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi d’amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero guarda indietro!
Il cortile, l’andito, gli spiazzi fra le baracche, le quali circondano l’edificio a gasometro, sono affollati d’emigranti. Vestono gli abiti migliori, messi il giorno dell’arrivo per un curioso sentimento di dignità. Alcuni, sdraiati rinfusamente sui sacchi dei loro cenci, sonnecchiano o pensano; altri passeggiano a gruppi discutendo, si affollano alla porta dell’«Oficina de Trabajo» col cappello in mano, rispettosamente: altri giuocano; delle ragazze si pettinano l’una con l’altra; dei bambini macilenti giuocano sul pavimento gridando; delle donne allattano. V’è il disordine triste d’un bivacco zingaresco: si grida, si ride, si canta e si piange. Ma i più restano immobili e silenziosi, stupiditi, indifferenti, stanchi, con gli occhi senza sguardo, aspettando. La nostalgia li afferra, quella nostalgia istintiva della bestia catturata, un torpore doloroso. Sulle faccie sono i segni non dubbî d’un viaggio penoso, in alcuni occhi brilla la febbre.
Ma ecco che si sente il suono d’un organetto, di quella fisarmonica che è l’istrumento prediletto dei nostri contadini; molti fanno cerchio, qualcuno balla. Una donna singhiozza.
Le camerate sono silenziose. Lì cercano rifugio i solitarî: coloro che vogliono nascondere il dolore. Dalle fessure delle pareti sconnesse entra sibilando il vento, questo freddo e polveroso pampero, e l’edificio ne è scosso. Nella penombra s’intravvedono delle figure umane immobili, sedute o distese sugli immondi tavolacci. Nel vedere entrare un estraneo, gli uomini si levano lentamente in piedi con impacciato rispetto. Nella loro paziente aspettativa, l’arrivo d’un estraneo porta sempre un po’ di speranza. Un pover’uomo tiene in braccio un bambino evidentemente malato. Il piccino abbandona la testa sulla spalla del padre, respira affannosamente e chiede da bere con voce lamentosa. L’uomo è un meridionale muratore; interrogato sul suo piccino, risponde:
— La notte fa freddo qui, s’è perduto il nostro bagaglio e non abbiamo di che coprirci... Tanti bambini sono malati!
— Come s’è perduto il vostro bagaglio?
— Non lo so: veniamo da Salerno: all’imbarco un signore ha domandato a me e ad alcuni miei compagni le ricevute del bagaglio. Arrivati qua, non abbiamo trovato più niente.
— E non avete più le ricevute?
— No, niente!
Si tratta di uno dei soliti furti agli emigranti. Alcuni di questi poveretti sono stati derubati a bordo; per essi i compagni di viaggio hanno raccolto fra loro delle piccole somme, offrendo quel poco che potevano. E questi poveri parlano della loro elemosina con una semplicità sublime.
⁂
La sera scende triste su questo luogo di miserie. Essa, come una vecchiaja quotidiana, porta tutta la melanconia, la stanchezza, il disinganno della giornata trascorsa. Il magro pasto — un pezzetto di puchero galleggiante in acqua sporca che dovrebbe essere brodo, e un pezzo di pane — è divorato in silenzio. I quattro cinque impiegati dell’«Oficina de Trabajo» se ne vanno; un «vigilante» indiano, legittimo discendente degli antichi timbues, e ora rappresentante il potere esecutivo, gira i cortili ispezionando; il direttore del ricovero, cioè dell’Hôtel, un ometto calvo, barbuto e mellifluo, succhia il mate sulla porta del suo ufficio e sorveglia distrattamente lo sfilare degli emigranti che entrano nelle loro camerate. Si accendono qua e là delle lampade alla cui luce rossastra la scena prende un aspetto sinistro.
Nell’oscurità si è spenta ogni gaiezza. Nessuno più ride o canta, non si parla nemmeno: si bisbiglia. La notte è scesa anche negli animi. Pare che la speranza non sia visibile che alla luce del sole. Se un chiarore improvviso diradasse queste ombre non si scorgerebbero che volti mesti, pensosi, attoniti o piangenti. In un angolo lontano la fisarmonica riprende sottovoce, timidamente il suo suono asmatico e singhiozzante. Il legittimo discendente degli antichi timbues la fa tacere. Nelle camerate si dorme o si sospira.
Nel fetido cortile a pozzo, divenuto deserto, il pompiere di guardia si arrotola una sigaretta e se l’accende. La penombra lascia appena scorgere tutt’intorno dei cartelli con la scritta: Es prohibido fumar.
Dalla vicina stazione del Retiro arrivano gli urli laceranti delle sirene. Il rumore della città, come il muggito d’un mare, viene ad infrangersi contro queste solitudini tetre. È l’ora in cui Buenos Aires comincia a divertirsi. L’orizzonte è tutto rischiarato dal crepuscolo livido della luce elettrica.
⁂
Alcuni emigranti hanno qui dei parenti o degli amici: possono trovare consiglio e appoggio; il loro collocamento è meno difficile e meno cattivo. Altri — meridionali in gran parte — vengono in questa stagione per lavorare ai raccolti, e a febbraio tornano in Italia. Molti di essi hanno l’abitudine a tale emigrazione periodica, come le rondini; conoscono il paese, guidano gl’inesperti, si lasciano condurre a spese del Governo argentino senza spendere un centavo, e raggranellano qualche cosa. Gli altri, la grande massa, sono venuti qua alla cieca, con le loro famiglie, senza sapere nulla. Sono gli allucinati. La sorte che li aspetta in questo momento, in cui antichi emigranti lasciano certe regioni divenute ingrate al lavoro, può essere terribile. Un ministro argentino diceva giorni sono: «L’emigrazione è necessaria, ma, dato il momento, sono preferibili diecimila emigrati di meno che diecimila disoccupati di più!»
Dissipata un po’ la diffidenza, abituale nel contadino, ho domandato a molti emigranti: — Perchè siete venuti in America?
I più rispondono: — Per tentare la sorte! — oppure: — Tanti vi hanno fatto fortuna, proviamo anche noi! Per essi l’America è una lotteria; giuocano, e mettono la vita per posta. L’idea di venire qua li prende come un’ossessione, s’impadronisce di loro per contagio. Molti vengono perchè hanno conosciuto della gente venuta prima di loro, semplicemente. Un campagnuolo veneto che emigrava, faceva gli addii; un amico gli disse: — To’, voglio partire anche io! — E tutti e due con le loro donne sono venuti in America, come si fosse trattato di far due passi. Un contadino piemontese mi ha detto: — Ho emigrato perchè v’è qui mio fratello.
— Meno male! E dov’è tuo fratello?
— Non lo so. Ci scrisse tanti anni fa dalla Terra del Fuoco dove era occupato a tagliar boschi, poi non ha scritto più.
E quest’uomo, che non sa nemmeno cosa sia la Terra del Fuoco, che non conosce la sorte di suo fratello, lascia tutto e viene qua con i suoi figli, attirato dall’ignoto. Nessuno si è informato delle condizioni dell’Argentina oggi — già per molti America, Buenos Aires e Argentina sono sinonimi! — nessuno ha pensato a chiedere dei consigli alle autorità. Hanno tutti una grande diffidenza dei consigli, li ascoltano con l’aria di crederci e non crederci. La paura d’essere ingannati è caratteristica in loro; ad essa sola del resto i contadini debbono l’immeritata fama di scaltri. In ogni cosa che si dice temono un tranello. I più franchi domandano: — Ma voi che interesse avete a dirci così e così?
— Per il vostro bene!
Essi scuotono la testa increduli — e disgraziatamente non a torto — che il loro bene stia a cuore a qualcuno. Sono imbevuti di false idee leggendarie sulle favolose ricchezze del paese, la incredibile fecondità del suolo, la cortesia e bontà degli abitanti, sempre le stesse, che basterebbero da sole a provare l’esistenza di agenti catechizzatori.
Bisognerebbe ricercarne alcuni dopo un anno di America e rimandarli al paese nativo a narrare sinceramente le loro avventure. Sarebbe il miglior rimedio contro questa emigrazione cieca e disordinata, senza organizzazione, senza guida, senza protezione, che è per la Madre Patria un grande dolore, e una ancora più grande umiliazione!
Note
- ↑ Dal Corriere della Sera del 13 gennaio 1902.