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gli allucinati 27


La nostalgia li afferra, quella nostalgia istintiva della bestia catturata, un torpore doloroso. Sulle faccie sono i segni non dubbî d’un viaggio penoso, in alcuni occhi brilla la febbre.

Ma ecco che si sente il suono d’un organetto, di quella fisarmonica che è l’istrumento prediletto dei nostri contadini; molti fanno cerchio, qualcuno balla. Una donna singhiozza.

Le camerate sono silenziose. Lì cercano rifugio i solitarî: coloro che vogliono nascondere il dolore. Dalle fessure delle pareti sconnesse entra sibilando il vento, questo freddo e polveroso pampero, e l’edificio ne è scosso. Nella penombra s’intravvedono delle figure umane immobili, sedute o distese sugli immondi tavolacci. Nel vedere entrare un estraneo, gli uomini si levano lentamente in piedi con impacciato rispetto. Nella loro paziente aspettativa, l’arrivo d’un estraneo porta sempre un po’ di speranza. Un pover’uomo tiene in braccio un bambino evidentemente malato. Il piccino abbandona la testa sulla spalla del padre, respira affannosamente e chiede da bere con voce lamentosa. L’uomo è un meridionale muratore; interrogato sul suo piccino, risponde:

— La notte fa freddo qui, s’è perduto il nostro bagaglio e non abbiamo di che coprirci... Tanti bambini sono malati!

— Come s’è perduto il vostro bagaglio?

— Non lo so: veniamo da Salerno: all’imbarco un signore ha domandato a me e ad alcuni miei compagni le ricevute del bagaglio. Arrivati qua, non abbiamo trovato più niente.

— E non avete più le ricevute?

— No, niente!

Si tratta di uno dei soliti furti agli emigranti. Alcuni di questi poveretti sono stati derubati a bordo; per essi i compagni di viaggio hanno raccolto fra loro delle piccole somme, offrendo quel poco che potevano.