Istoria delle guerre vandaliche/Libro secondo/Capo XV
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CAPO XV.
I. Intanto che Salomone operava tali cose i ribelli messa a guasto Cartagine ed usciti a campo in Bulla eleggonsi a duce uno Stoza, cavaliere astato di Martino1, arditissimo e quanto altri mai esperto nel maneggio degli affari, acciocchè potesse costui, balzando via tutti i governanti ligj dell’imperio, dominare l’Africa intiera. Ed egli alla testa di ottocento2 armati senza interporre indugi si ridusse contro la capitale, più che agevol impresa opinando il mettervi l’assedio; chiamò poscia in suo aiuto tutti que’ Vandali che o erano fuggiti sulle navi da Bizanzio, o non vollero dapprincipio seguire le parti di Belisario, o stavansi celati, ovvero in dispregio del niun conto loro ottenuto aveano il permesso di rimanere in Africa; al quale invito forse mille tra’ più vicini passarono immediatamente sotto le sue bandiere: oltre di che schiavi in gran numero vennero pur essi ad offrirgli i loro servigi. Arrivate queste truppe a breve intervallo da Cartagine il condottiero fece ambasceria a’ magistrati della città esortandoli ad aprire le porte se bramassero andar liberi da ogni sciagura. Ma quelli e Teodoro concordemente risposero che ben guarderebbonsi dal fare ciò, sendo loro debito il serbar fede all’imperatore. Inviarongli eziandio Gioseffo, personaggio di chiari natali, domestico di Belisario, segretario della guardia imperiale e di fresco arrivato a Cartagine per non so quali faccende. Questi con supplichevoli parole cerca indurlo a non proseguire tuttavia nella rivolta, ed a cessare da cotanta ostinazione; ma Stoza uditone appena il discorso troncagli la vita, e cinge d’assedio quelle mura: al terribile esempio i cittadini sopraffatti dallo spavento volevan sottrarsi da maggiori traversie spalancando le porte al nemico. Di tal guisa imperversavano gli africani destini.
II. Belisario fatto partecipe dell’avvenuto in Africa navigò sull’ora vespertina a quella spiaggia, in compagnia di Salomone, con cento suoi cavalieri astati e con un corpo di pavesai3, quando appunto al nuovo giorno i ribelli credean certa la resa della città, e da tale speranza imbaldanziti avevan tutta la notte vegghiato. Come però seppero al primo albeggiare la venuta di lui, frettolosamente sciolto l’assedio e svelto lo steccato diedersi nella massima confusione ad una turpissima fuga. Il duce romano allora, trascelta una schiera di soli due mila combattenti ed animatala con parole e vie più con larghi doni alla benevolenza dell’imperatore, muove contro di loro aggiugnendoli presso Membresa4, città a trecencinquanta stadj da Cartagine. Qui postisi gli uni e gli altri a campo, Belisario sul fiume Bagrada5 e l’inimico su di alto e malagevol luogo, ordinavan la pugna, tenendosi ambedue fuori d’una città mancante di mura. All’assembrarsi poi colla dimane le truppe, i ribelli moltissimi di numero ponevano ogni loro fiducia in esso, ed i nostri beffavanli siccome gente inesperta il più della guerra (non dandosi luogo negli ammutinamenti a scelta, ma concorrendovi ogni ceto di persone); Belisario però bramoso di rinfrancarne maggiormente gli animi diceva loro:
III. «Contro ogni nostra speranza e desiderio, o commilitoni, piegarono su queste terre le cose a danno dell’imperatore e de’ Romani, il perchè siamo costretti ad intraprendere una guerra in cui la stessa vittoria ne costerà molte lagrime, dovendo far bersaglio delle armi chi è a noi di parentado congiunto e sotto il medesimo cielo cresciuto. Rimembrici però a conforto di tanto male ch’esso non ebbe affatto da noi causa o principio, obbligati a ricorrervi unicamente per non soggiacere a più lunghi timori: quando al contrario nemmeno i prosperi eventi saranno di ristoro al nemico, imperciocchè riterremmo indarno fuor d’ogni molestia, sopravvivendo ai marziali perigli, chi reo di violata amicizia ed affinità pigliò ad offendere insidiosamente un suo carissimo; verragli in iscambio colla vita protratto il meritato gastigo, riposto negli incessanti rimorsi della propria coscienza. Che poi questi contro di noi schierati in campo sieno a giusto titolo considerati nemici e barbari, e se pur vuoi meritevoli di nome peggiore, ne fa testimonianza l’Africa dai loro saccheggi consunta, e la moltitudine de’ Romani caduti vittime, per serbare fede al nostro imperatore, de’ loro tradimenti. Egli è mestieri adunque che non lasciamo impuniti ribelli cotanto funesti, e che abborrendo sì ragionevolmente persone famigliarissime per lo innanzi, imponiamo loro pene condegne di sì turpi delitti; non essendo già opera della natura le amicizie o le nimicizie tra noi, ma o la conformità delle azioni e dei costumi legaci amichevolmente gli uni cogli altri, o la discrepanza loro ne mette in discordia. Parmi così mostrato appieno d’aver noi a combattere truppe nemiche e perfide; che poi debbansi tenere in altissimo dispregio il chiarirò provandovi la impossibilità di farsi valorose in azioni in guerra da un ammasso di gente insiem raccolta dalla nequizia e dalla ribalderia. La virtù, per Dio, nemica implacabile del vizio sconvolgerà mai sempre tutti gli attentati de’ malvagi, rendendoli trasgressori dell’ordine e di qualunque militar disciplina. Quindi è che abbandonati da essa ed incapaci di contenersi com’è uopo in campo verranno al primo urto sconfitti. Assaliamo pertanto intrepidi sì vil nemico, volendosi riporre il nerbo ed il felice successo della guerra nell’ordine e nella fortezza dell’animo, non già nel soverchio numero de’ combattenti». Così favellava il romano duce.
IV. Stoza parimente esortò di questa foggia i ribelli: «O soldati e quanti meco rompeste le catene della romana schiavitù, non sia ora tra voi chi ritraggasi dal morire per quella libertà che virtuosi e prodi nelle armi vi sapeste non è guari procacciare, sendo men grave all’uomo l’incanutire ne’ mali e compiervi la mortale carriera, che non surto da essi il ricadervi, perciocchè i beni intrattanto gustati sembrano vie più inasprire la susseguente calamità. Di tal maniera in fe mia passando le cose nostre m’è forza qui rammentare che voi trionfatori de’ Vandali e de’ Maurusii participaste sì a tutti i travagli di quelle guerre, non però al bottino, guiderdone di esse. Pensate inoltre che addivenuti guerrieri menar dovete senza posa la vita tra i pericoli delle armi, combattendo o per la gloria dell’imperatore, se tornerete a lui, o per voi stessi ove coraggiosi perseveriate nell’acquistata libertà; in fra le quali cose or spetta a voi lo scegliere, acciocchè possiate far mostra o di codardia o di valore nell’imminente zuffa. Non vi dirò poi che armativi contro i Romani sperereste indarno, soggiogati di nuovo, benignità e giustizia, piacevolezza e compassione, attendendovi solo colà penosissimi ed insoffribili trattamenti. Meglio è quindi il perire, conciossiachè morendo comunque in campo vi divolgherà la fama da morte onestissima colti. E per verità se ai vincitori felice e soave cosa è la vita, qual più miserando stato pe’ vinti del mirarsi incessantemente costretti a riporre ogni fiducia nella pietà dei nimici. «Non istarò in fine a ricordarvi la costoro disparità nella pugna, mercecchè l’essere di numero a noi cotanto inferiori e soprattutto ardentissimi favoreggiatori pur eglino della nostra causa varrà in singolar modo a scemarne l’ardire».
V. E già i due eserciti animati dalle esortazioni dei proprj duci movevano per venire alle mani, quando surse improvviso e gagliardo vento; allora temendo i ribelli non iscemasse questo la forza del saettamento loro ed accrescesse quella delle armi nemiche, giraronsi di fianco, acciocchè i Romani obbligati di fare il simile fossero per averlo di contro; ma Belisario vedendoli mutar l’ordinanza comandò che si traesse l’arco, e quelli fuggirono tosto nella Numidia, ove raccozzatisi conobbero mancar loro pochissimi Vandali, perciocchè il vincitore contento di quella rotta non volle seguirne le tracce; accordò bensì alle sue truppe il saccheggio del campo, dov’e’ non rinvennero uomini, ma danaro in copia e taluna delle donne incitatrici della guerra. Egli di là tornato in Cartagine ebbe l’avviso d’altra sommossa delle truppe a stanza nella Sicilia, a reprimere la quale voleavi di necessità la sua presenza. Laonde riordinata, come potè il meglio, l’africana repubblica, e dato il governo di Cartagine a Ildigero e Teodoro, salpò nuovamente per l’isola.
VI. I capitani poi della romana soldatesca nella Numidia informati della venuta di Stoza e de’ suoi arrolamenti prepararonsi ad una vigorosa resistenza. Marcello e Cirillo comandavano i confederati, Barbato i cavalieri, Terenzio e Serapi la fanteria; Marcello in fine, siccome governatore della Numidia, erane il condottier supremo; il quale inteso il nemico a Gazofili6, o vuoi due soli giorni lontano da Costantina, mosse ad incontrarlo, bramoso di far battaglia prima che giugnessero colà nuovi aiuti.
VII. Al suo arrivo gli eserciti schierati di fronte stavano attendendo il segno della pugna, quando Stoza di per sè procedendo ver la nemica ordinanza diressele queste parole: «A torto, o prodi, vi accingete a combattere gente della vostra nazione, con voi cresciuta, e che stanca de’ mali e delle offese onde voi stessi partecipaste, deliberò guerreggiare l’imperatore in vendetta delle tolerate violenze. Non vi ricorda forse il nessun guiderdone offerto ai vostri sudori, venendovi sin negate le spoglie nemiche e gli stessi premj dovuti per legge marziale a tutti coloro che da forti portaronsi nelle battaglie? Di essi bensì altri godono, appropriandosi l’intiero frutto della vittoria, e tenendo voi in luogo di schiavi. Che se il vostro sdegno, qualunque siane la cagione, ha me per iscopo, trafiggete pure questo mio corpo standomi a ciò apparecchiato, ma vadan libere da cotanta sciagura le mie truppe ove poi non abbiate odio meco, giunta è l’ora che voi stessi concorriate a difendere i nostri comuni diritti». Le truppe romane lodato il costui parlare incontanente salutaronlo con molta benivolenza, ed i loro duci si ritrassero, mirandosi diserti, nella chiesa di Gazofili. Ma Stoza uniti i due eserciti e condottili a quel santo asilo, persuase ai rifuggiti con promesse di vita a diloggiarne; questi però uscendone furon tutti ad un suo cenno trucidati.
Note
- ↑ Quasi l’ultimo de’ soldati, e piccolo cliente del duce Martino è nomato da Iornandes (De regnorum ac temporum successione).
- ↑ Otto mila secondo altri testi.
- ↑ Con mille soldati della sua guardia scrive Cousin, non dicendo se fanti o cavalli.
- ↑ Membressa, o Membrisia presso altri autori. Città della Zeugitana mediterranea secondo l’Itinerario d’Antonino.
- ↑ Bragada. (Cous.) Mi ricorda in proposito di questo fiume un curioso passo che leggesi in Gellio (lib. vi, cap. 3): Attilium Regulum, egli scrive, castris apud Bagradam flumen positis, proelium grande atque acre fecisse adversus unum serpentem illic stabulantem, inusitatae immanitatis: eumque ballista atque catapultis dia oppugnatum tandem confecisse, et corium longum pedes centum viginti misisse Romam.
- ↑ Detta parimente Gazaufula, e supposta dagli eruditi la Gausafana di Tolemeo; nella Tavola Pentingeriana è scritto Gasaupala. Leggiamo poi nel lib: Notitia imperii ec. In Numidia est Augentius Gazaufulensis, ed in S. Augustino: Salvianus a Gazaufula (lib. vii contra Donatistas).