Istoria delle guerre vandaliche/Libro secondo/Capo VI

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CAPO VI.

Gilimero indarno assalito da Faras sul monte Papua. — Vita dei Vandali discrepante da quella de’ Maurusii. — Lettere di Faras e di Gilimero.


I. Faras in questo mezzo stanco dei penosissimi disagi dell’assedio, e sperando che i Maurusii non la terrebbero dai Vandali, esortato ch’ebbe le truppe a calcare sue orme, cimentossi con ardir sommo per l’erta del monte: i Maurusii però con forti grida oppongonsi al temerario salir di costoro su per quelle scoscese ed inaccessibili greppe. Ferve allora la pugna, e il duce romano insiste e pone tutto in opera per isbaragliare il nemico; ma da sezzo perduti cento dieci de’ suoi vedesi costretto a dar volta ed a riprendere l’abbandonato campo; nè più venutogli il ghiribizzo di nuovi assalti mette ogni sua cura nell’eseguire diligentemente gli ordini avuti, sperando che la fame indurrebbe gli assediati a deporre le armi. Gilimero poi, i figliuoli di suo fratello, e gli altri tutti del reale corteo ebbero a durar colà su tali miserie che indarno uom prenderebbe a descrivere.

II. Non v’ha gente che io mi sappia da raffrontarsi ai Vandali nella delicatezza, i Maurusii per lo contrario [p. 410 modifica]portano il vanto di miserabilissimi sopra tutti i mortali. Quelli giunti a signoreggiare l’Africa imbandivano di continuo lor mensa lautamente e di quanto mai va ricca la regione; vestivano eziandio, alla foggia de’ Medi, sontuosissima stola di seta, e consumavan lor vita nei teatri, negli ippodromi e in mezzo ad altri mille sollazzi, dando tra essi alla caccia la preferenza; ricreavan lor vista con saltatori e giullari, l’udito con suoni e canti e con ogni maniera di ristoro che ad animi educati mollemente riuscir può giocondo. Moltissimi di loro ben anche passavano il tempo in ameni giardini ornati di fonti e di alberi, e vi sedevano a deliziosi banchetti; nè era la minor loro occupazione l’abbandonarsi ai piaceri di Venere. I Maurusii in cambio allevati con ogni durezza menan la vita in tugurj sì angusti che appena vi trovi aria da respirare, e quivi dimorano il verno e la state in balìa della neve e del sole e di qualsivoglia altro sconcio, penoso retaggio del viver nostro; dormono sul nudo suolo, se pure gli agiatissimi tra loro non vi distendono in prima qualche pelle. Hanno poi legge di non conformarsi negli abiti alle stagioni, ma vanno sempre coperti di lacera e sucida veste e di ruvida tonica, mancano di pane, di vino e degli altri bisogni della vita, solo pascendosi di frumento, o di segale, o d’orzo, e non già ridotti in farina e cotti, ma così affatto come ricolgonsi nel campo, e simile propriamente dei bruti. Gilimero adunque e tutta la sua corte da lunga pezza costretti ad abitare seco loro ed a seguirne le consuetudini, mutando con tanta inopia le avite morbidissime usanze, al mirarsi affatto privi del [p. 411 modifica]necessario pensarono cedere, stimando soavissimo il morire, e per nulla vituperevole la condizion servile. Quindi è che Faras avutone sentore mandò lettera di questo tenore al monarca.

III. «Sono barbaro anch’io, idiota ed infelice parlatore: non posso adunque fare argomento del mio scrivere che quanto, nella carriera mortale assegnatami dalla natura, m’è avvenuto d’apparare coll’esperienza delle umane vicende. Perchè mai, caro Gilimero, ti precipitasti co’ tuoi in sì profondo baratro ad evitare la prigionia? Operi, a mio credere, assai fanciullescamente apprezzando questa libertà in guisa da ridurti per lei agli estremi di tutto, mentrechè poi, senz’avvedertene, sei ora in effetto il servo degli infelici Maurusii. Cosa tu pensi di conservare col mezzo loro, o qual migliore fortuna t’attendi per essi? Ma non vantaggeresti in cambio tua condizione menando vita povera e servile tra’ Romani anzichè sul Papua, ligio di cotesta gente? Come riputerai vitupero sommo l’obbedire all’imperatore de’ Romani cui serve lo stesso Belisario, uomo sì grande? E pur noi, avvegnachè di specchiatissimo legnaggio, non ci gloriamo dell’egual sorte? Si va inoltre dicendo che Giustiniano vuole accoglierti nel senato, fregiarti della maggiore onoranza che per lui si possa, dichiarandoti patrizio, e donarti vasta ed ottima regione e molto danaro con essa; e che tale appo lui sia per essere la tua sorte, egli stesso, comparendogli inanzi, te ne darà la fede. So bene che l’animo tuo è forte sì da reggere a tutte le sciagure onde ti pose a [p. 412 modifica]bersaglio l’avverso fato, ma se questo vuole appalesarsi ora men rigido teco, gli rifiuterai disdegnoso il tuo consentimento? le quali cose neppur da coloro che mancano al tutto di senno verrebbero con indifferenza guardate. Or dunque, se pure vittima di tanti sinistri non ti venne meno la ragione, spesso il forte dolore conducendoci ad un perverso consiglio, se ti rimane il coraggio d’accomodarti con animo pacato ai capricci della sorte, se puoi valerti ancora del tuo intendimento, se non vivi in fine che per gemere sotto il peso delle tue disgrazie, approfittati volentieri della facoltà di migliorar la vita e di sottrarti dai presenti mali». Gilimero letto il foglio lagrimando riscrisse: «Di cuore, o Faras, ti ringrazio del consiglio, sembrami però ben duro a sopportarsi il far servitù ad un principe di cui rimembrando le gravi offese ricevute, vorrei piuttosto, se mel desse Iddio, potermi vendicare; conciossiachè egli, non provocato da me col minor dispiacere od affronto, mossemi guerra per ridurmi non colpevole a tali estremi; nè saprei tampoco aver buon animo con quel suo Belisario. Guardinsi però, mortali anch’eglino, di non soggiacere a mai più immaginate vicende. Non mi trattengo da vantaggio teco avendomi le gravi sciagure tolto ogni memoria: addio, mio caro Faras, mandami a sollievo di mie pene una cetera, un pane ed una spugna». Il duce a queste domande stava alcun poco sopra sè, non bastandogli l’animo di comprenderne il significato, quando il portator della lettera esposegli che il re desiderava mangiare un pane [p. 413 modifica]non avendone più gustato o veduto dall’epoca della sua andata sul Pupua: ch’eragli la spugna necessaria per astergersi un occhio addivenuto mal sano dal lungo e dirotto lagrimare; che in fine chiedeva la cetera per mitigare, valente assai nella musica, l’acerbità del viver suo con qualche pietosa canzone. Il duce piangendo le umane traversie assecondollo pienamente, accrebbe però i rigori dell’assedio volendone accelerare il termine.