Istoria delle guerre vandaliche/Libro secondo/Capo V
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CAPO V.
I. Dopo queste faccende Belisario tornato in Cartagine comandò a tutti i Vandali che si disponessero alla partenza, dovendo al venir di primavera essere tradotti in Bizanzio. Cominciò di poi a riordinare l’esercito per togliere ai barbari quanto possedevano ancora di pertinenza romana, al qual uopo inviò di subito Cirillo con la testa di Zazone e con forte schiera nella Sardegna, rifiutandosi quelli isolani, timorosi dei Vandali e non tuttavia certi dell’accaduto presso Tricamaro, di obbedire a Giustiniano. Ed impose al duce di mandare, accomodate quivi le cose, una parte delle truppe nell’antica Cirno, a noi Corsica1, isola pur questa, non molto dalla prima lontana e ligia fin qui de’ barbari: Cirillo adunque approdato nella Sardegna, ed esposto su di pubblico luogo il capo di Zazone, riuscì onorevolmente a ridurre le due isole tributarie dell’imperio come eranlo dapprima. Spedì a un tempo Giovanni con parte dei fanti in Cesarea della Mauritania2, città
popolatissima, lontana da Cartagine trenta giorni di sollecito cammino, e volta a ponente sulla via di Gadi. Fece inoltre partire un secondo Giovanni, sua lancia a cavallo, per lo stretto Gaditano, coll’incarico di guardare la rocca nomata Settense presso una delle Colonne d’Ercole. Il comando poi della spedizione per le isole all’entrata dell’Oceano, e nomate dagli abitatori Ebuso, Maiorica e Minorica, ebbelo Apolliciario3, il quale passato giovinetto ancora dall’Italia nell’Africa aveva ottenuto da Ilderico e favore e generosissimi doni; ed allorchè questi fu privo del trono e chiuso in un carcere dal fratello Gilimero4, il riconoscente donzello venne di suo volere con pochi Africani ad implorargli mercè dall’imperator Giustiniano. Destinato in processo di tempo a dividere cogli altri i pericoli della guerra contro i Vandali, mostrossi più che tutti prode ognora, ma in ispecie nella giornata di Tricamaro, ed in premio ebbene il comando supremo delle truppe colà spedite. Riceverono parimente soccorsi nell’epoca stessa Pudenzio e Tatimut, ridotti in Tripoli bene alle strette dai Maurusii.
II. Belisario in fine mandò truppe alla volta della Sicilia per iscacciare da una rocca del promontorio Lilibeo5 il vandalico presidio; ma le contradiarono i Goti, bramosi di non cedere un che dell’isola, dichiarandola stata mai sempre ed in ogni sua parte di loro giurisdizione. Egli adunque, fattone consapevole, scrivea in questi termini ai governatori:
III. «Col negare, o Goti, ai servi di Giustiniano il dominio della rocca di Lilibeo, occupata già dai Vandali, voi commettete un’ingiustizia, male provvedete alle cose vostre, ed appalesate desiderio che Atalarico a danno de’ proprj interessi e con tra il voler suo la rompa coll’imperatore, la cui amicizia tiene egli sì cara. E che si offenda in cotal modo per voi il diritto delle genti ne convenite voi stessi confessando Gilimero non guari prima signor di quella; nè di più è mestieri perchè all’imperatore vincitor di costui pur si debba quanto ora cercate sì operando contrastargli. Rammentatevi poi che se l’amicizia molto si compiace nel palliare le cagioni de’ richiami, vie più l’inimicizia è sollecita a punire i menomi falli, a riandare tutte le trascorse faccende, a non accordar pace a’ suoi rivali usurpatori, finchè rimangale a vendicare alcuna ben anche delle più lontane offese; ed avvegnachè soggiaccia talora nel cimento, giugne temporeggiando a riprendere il suo, e ad insegnare ai vinti il chieder mercè delle commesse ingiurie. Abbiano dunque termine le vostre offese, nè vogliate nimicarvi l’imperatore dacchè lo avete favorevole ed amico, ma se vi ostinerete a rifiutargli tuttavia la rocca, di certo vi guerreggerà in breve e per essa e per quant’altro ingiustamente occupate». I Goti ricevuto il foglio mandanlo alla madre del re acciocchè ne ponderi il contenuto; e quindi per costei ordine rispondono: «La tua lettera di fresco speditaci, o ottimo Belisario, è apportatrice d’un salutare avviso, ma forse ad altri più che a noi opportuno, i quali nulla riteniamo dell’imperator Giustiniano, e guardici il Nume dall’uscire così fuor di senno; tutta la Sicilia poi, entro i cui limiti v’ha la rocca del promontorio Lilibeo, è cosa nostra di pieno diritto acquistato colla guerra. Che se Teodorico ne diede parte alla sorella6 maritandola al re de’ Vandali, non è d’uopo insistere su questa sovrana disposizione, in verun tempo da noi riguardata siccome legge. Ne renderai del resto giustizia se ami meglio terminare la contesa da amico anzi che da nemico, pronti essendo i primi a dicifferare lor quistioni per via di oratori e di ragionamenti, e gli altri col dar di piglio alle armi. Laonde noi abbiamo confidato a Giustiniano stesso la briga d’intendere e di conoscere queste cose, perchè ne giudichi secondo l’equità e la ragione; conformandoci adunque ai tuoi vantaggiosi e prudentissimi consigli, ti preghiamo di attendere l’imperiale sentenza». Tale riscrissero i Goti, e Belisario, informatone pienamente l’imperatore, stettesi tranquillo, non volendo intraprendere nulla senza prima esplorare la mente di lui.
Note
- ↑ Abbiamo in Plinio: In ligustico mari est Carsica, quam Graeci Cirnon adpellavere, sed Tusco (litori) propior; a septemtrione in meridiem projecia: longa passuum centum quinquaginta millia; lata, majore ex parte, quinquaginta; circuitu ter centum viginti duo millia. Abest a Vadis Volateranis sexaginta duo millia passuum.... Extra conspectum, pelagus Africum attingens est Sardinia, minus novem millibus passuum a Corsicae extremis (lib. iv). Intorno però alle sue dimensioni osserviamo qualche differenza in Strabone, il quale scrive: «La lunghezza dell’isola, dice il Corografo, è di cento sessanta miglia, la larghezza di settanta.... ma secondo altri il perimetro di Cirno è di circa tre mila e due cento stadii, e quello della Sardegna di quattro mila» (lib. v). Voglionsi pur qui riferire le parole di Diodoro Siculo sul conto di lei: «Dall’Etalia è distante per tre cento stadii quella che i Greci dicono Cirna, ed i Romani e gl’indigeni chiamano Corsica. Essa ha un bellissimo porto di assai facile ingresso, che viene nominato Siracusio. Sono in essa inoltre due città Aleria (Alalia, Erodoto) e Nicea. Aleria fu fabbricata dai Focesi, i quali per alcun tempo abitarono l’isola, e ne furono poi cacciati dai Tirreni. Nicea fu opera degli Etruschi, quando dominavano sul mare, e tenevano soggette le isole adiacenti alla Tuscia; e mentre comandavano sulle città della Corsica, ne traevano per tributo raggia, cera e miele, delle quali cose l’isola abbonda. Gli schiavi di Corsica per dono singolare di natura sembrano preferibili nelle cose della vita agli altri servi (tutto al contrario di quanto narra Strabone, lib. v). Quest’isola per ogni parte assai ampia è quasi dappertutto montuosa, coperta di spessi boschi, ed irrigata da fiumi piccoli. I suoi abitanti si cibano di latte, di miele e di carni, tutte queste cose somministrando ad ogni passo il paese. E vivono tra loro con giustizia ed umanità più di quello che facciano altri barbari; perciocchè il miele, che trovasi nella cavità degli alberi della montagna, è senza controversia alcuna di chi l’ha trovato; e le pecore marcate con certi segni, ancor che nessuno le custodisca, restano salve ai loro padroni. In tutte poi le altre cose della vita questi isolani maravigliosamente osservano, ciascuno per sua parte, ed alla opportunità le regole dell’operar giusto. Singolarissimo è presso loro ciò che accade nella nascita de’ figliuoli. Della donna di parto nessuno pendente il suo puerperio tien cura; ed all’incontro il marito di lei in luogo della puerpera si mette per un determinato numero di giorni in letto, come se fosse ammalato od avesse il corpo suo male affetto. In quest’isola nasce molto bosso e di specie non volgare, il che fa che il miele del paese sia totalmente amaro. I barbari che l’abitano hanno un idioma strano e non facile a intendersi. La loro popolazione eccede i trenta mila» (lib. v, trad. del cav. Compagnoni). V. inoltre Pausania, Delle cose Fociche; Marciano Capella, lib. vi; Seneca, ad Helviam, cap. 8. Tolomeo ne fa la lunghezza di cento trenta mila passi, e la larghezza di settanta mila.
- ↑ «Su questa marina (Cartaginese) era una città nominata Iol, la quale avendo riedificata Iuba padre di Tolomeo le mutò il nome in Cesarea, che ha un porto e un isoletta innanzi al porto. Fra Cesarea e Trito v’è un porto grande, che chiamano Sarda (o piuttosto Salda, distante da Cesarea dugento ventun mila passi)» (Strab, lib. xvii, trad. del B.). Dopo la morte di Iuba Claudio vi mandò una colonia, il perchè leggesi in Antonino Caesarea colonia. Il suo presente nome è, secondo D’Anville, Vacur.
- ↑ Apollinare secondo altri testi.
- ↑ V. lib. i, cap. 9 di queste Guerre.
- ↑ «A questi luoghi (coste della Libia) sta di contro il promontorio Lilibeo della Sicilia, correndovi l’intervallo di pressochè mille e cinque cento stadii, tanta essendo la distanza tra esso e Cartagine» (Strab., lib. xvii.)
- ↑ Amalafrida. V. lib. i, cap. 8, di queste Guerre.