Istoria delle guerre vandaliche/Libro secondo/Capo IV

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CAPO IV.

Belisario sgrida le truppe di soverchio sbandatesi nel predare. — Gilimero incalzato da Giovanni. — Costui morte per la imprudenza di Uliare. — E sepolcro dotato di annua rendita. — Il re vandalo campa la vita sul monte Papua. — Faras lo assedia. — Il romano duce ne prende i tesori.


I. Belisario visto al suo tornare tutto l’esercito sbandato e privo d’ogni disciplina molto crucciossi paventando non il nemico, raccozzatosi tra la notte, sorprendesselo insidiosamente e con grave danno; ed il vero se costui recato avesse comunque ad effetto la bisogna nessun Romano sarebbe, a mio avviso, andato esente da pericolo. Imperciocchè i soldati, poverissimi di lor condizione, avvenutisi a tante ricchezze su cui porre liberamente le mani, ed a sì pregiati e ornatissimi corpi non seppero affatto moderare la sua [p. 399 modifica]cupidigia, nè reprimere la sete di quel grande e presente bene, ma abbandonaronsi per modo alla licenza, al disordine ed all’avarizia, che mirava ciascuno ad impadronirsi di tutto, e tutto volea seco portare nella città; nè li vedevi procedere in grosse frotte, nè vagare pe’ soli aperti luoghi, ma spartatamente correre ad uno ad uno, appaiati al più, ovunque traesseli speranza di bottino, ed esporsi a manifesto rischio di agguati inarpicando su pe’ diroccati burroni, ed internandosi nelle foreste e spelonche. Nulla più sott’essi valeva il timore del nemico, o il rispetto dovuto al condottiero, tutto era vano, ed un menomo indizio di spoglie o preda, ovunque ciò fosse, induceali spensieratissimi e furibondi a pigliar di botto quella via. Belisario osservando il gravissimo disordine oltremodo angustiavasi, e macchinava entro sè come potesse ripararvi prontamente: laonde ai primi albori del nuovo giorno asceso un colle vicin del sentiero e chiamatevi le truppe fe loro, non eccetuatine i capi, un grande ribuffo, dopo di che questi ultimi, ed in ispecie i suoi famigliari, mandati all’istante i prigioni col bottino a Cartagine, stettergli sempre dintorno per obbedirne i comandamenti.

II. Belisario poscia comandò a Giovanni di perseguire dì e notte con dugento cavalieri Gilimero, sinchè avesselo nelle mani vivente o morto. Commise inoltre ai governatori di Cartagine che tutti i Vandali rifuggitisi ne’ tempj supplichevoli venissero chiamati fuori sopra la fede, privati delle armi per togliere loro ogni mezzo di nuocere, e rassicurati di vivere senza tema veruna tra’ cittadini, attendendo la sua venuta. Diede [p. 400 modifica]similmente parola a quanti e’ ne rinvenne per la via quieti e tranquilli che non avrebbeli punto molestati; ed abbattendosi in altri con armi indosso ne spogliò e feceli condurre sotto custodia nella capitale. Di poi vedendo procedere a maraviglia le cose deliberò compiere egli stesso con tutto l’esercito e prontissimamente lo sterminio de’ nemici. Giovanni frattanto dopo cinque giorni e cinque notti di cammino erasi accostato al Vandalo, ed avrebbelo col nuovo dì assalito se un repentino accidente non vi si fosse intrapposto.

III. Aveavi nelle sue truppe un Uliare lancia a cavallo di Belisario, personaggio veramente d’animo insigne e gagliardissimo della persona, ma in allora, fuor d’ogni cura, davasi più del consueto, com’è il caso frequente, ai passatempi ed alle beverie; il perchè grave di esse al comparir del sole nel giorno sesto della spedizione vedendo non so che volatile su d’un albero, dato di piglio all’arco ed incoccatavi una freccia gliel’avventò, ma il colpo diretto all’uccello ferì in vece il suo duce siffattamente nel capo, che ridusselo in brev’ora a morte con sommo cordoglio dell’imperator Giustiniano, di Belisario, di tutto l’esercito de’ Romani, e degli stessi Cartaginesi, piangendolo siccome uomo per forza e valore eccellente, di maravigliosa piacevolezza e mansuetudine, e nella bontà e giustizia non inferiore ad alcuno; tale fu il termine di sua vita. Uliare, venuto in sè, addoloratissimo e supplichevole campò nel tempio d’un vicino borgo. Intanto la soldatesca cessò dal perseguitare Gilimero e tutta soccorrevole fu intorno al suo capo, dandogli, al terminare delle [p. 401 modifica]pietosissime esequie, molto onorifica sepoltura; mandò quindi scrivendo a Belisario l’avvenuto, e nell’aspettazione di lui stettesi ferma.

IV. Come prima il capitano ebbe la triste nuova n’andò frettoloso al sepolcro e piansene amaramente il fato, ora compassionando il rinchiusovi, ed ora lagnandosi col proprio destino che avesselo privo d’uomo sì grande; ne ornò quindi la tomba e di molte cose, ed ancora d’un’annua entrata1: volle in fine che si lasciasse impunito Uliare, al qual uopo la truppa rendeva testimonianza de’ preghi fatti dal moriente Giovanni acciocchè fossegli al tutto perdonato, essendo quel suo uscir di vita opera del caso e non di premeditato intendimento.

V. Ora Gilimero traendo profitto dall’indugio evitò colla fuga lo scontro de’ Romani. Se non che Belisario seguendone le peste giunse presso d’una munita città, Ipporegio, in vicinanza del mare e soli dieci giorni di cammino lontana da Cartagine, dove riseppe il nemico sul monte Papua, luogo di malagevole accesso pe’ Romani, essendo negli ultimi confini della Numidia, molto scosceso, di pericolosissima salita in causa delle altissime pietre che ne ingombrano dappertutto il passo, ed abitato dai barbari Maurusii amici e confederati di Gilimero. Alia sua cima poi eravi Medeo, città, dove appunto in allora il barbaro dimorava con tutto il suo codazzo. [p. 402 modifica]

VI. Il Romano pertanto giudicando ardua impresa il vincerlo colassù, massime nel colmo del verno, ed opportuna la sua presenza in Cartagine dove al partirne lasciato avea molte cose pendenti ed altre non bene ordinate, confidò l’assedio del monte a Faras, duce di molta esperienza e virtù, inculcandogli di guardare attentamente dalla vallea che uom per la cruda stagione non venissene giù in qualunque modo, o portassevi, ascendendolo, vittuaglia alcuna; ed il comando ebbe pieno compimento. Fece inoltre uscire sotto fede tutti i Vandali supplichevoli nelle chiese d’Ipporegio, e mandolli scortati nella capitate.

VII. Grave sinistro intanto colpì la famiglia di Gilimero. Questi avendo seco uno scriba nomato Bonifacio, originario dell’africana Bizacene, e fidatissimo sopra ogni altro de’ reali domestici, miselo in mare con tutte le sue ricchezze, e coll’ordine di attendere nel porto d’Ipporegio l’esito della guerra; ed in caso di maggiori calamità per loro, veleggiando nella Spagna, irebbe alla corte di Teudi, ove pur egli sperava in quella disgrazia un sicuro asilo. Or dunque Bonifacio sino a che ebbe qualche lusinga intorno alle cose de’ Vandali stettesi immobile colà, ma dopo la giornata di Tricamaro e tutte le altre narrate sciagure ne salpava, quando una gagliarda fortuna di mare costrinselo a rientrarvi; e per quanto e’ s’adoperasse, promettendo e supplicando, co’ marinari, affinchè tentassero ogni mezzo di apportare ovunque meno che nell’Africa, non fu loro possibile di esaudirlo in causa della procella: sommessi adunque ai divini voleri allontanaronsi un poco dal porto, e [p. 403 modifica]gettarono l’ancora. Lo scriba allora sentendo Belisario in Cartagine vi spedì alcuni de’ suoi, ammonendoli che pervenuti nella città rifuggissero in un tempio, e da quivi a suo nome, senza però dire ove si fosse, dichiarerebbero al Romano ch’egli custodiva i tesori di Gilimero e ch’era pronto a fargliene la consegna quando riportato avesse la certezza di poter quindi partire libero e con tutti i proprj averi. Belisario lietissimo della nuova e piegando generosamente alle istanze di colui mandò subito a pigliarne il possesso, lasciandogli, secondo il patto, la facoltà di mutar cielo con quante, e non poche, delle cose fidategli e’ seppe furbescamente sottrarre.

Note

  1. Acciò più volentieri quelli della chiesa pregassero Dio per l’anima sua, v’aggiunge lo spoletino Egio.