Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo XXI
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XXI.
Totila esorta i Gotti a seguir giustizia.— Riprendendo il senato romano d’ingratitudine vien da Pelagio placato. — Manda a Giustiniano ambasciadori per trattare di pace. — L’imperatore spedisceli a Belisario.
I. Il dì appresso Totila ragunate sue truppe aringolle del tenore seguente: «Vi ho qui raccolti, o commilitoni, non per esortarvi in nuove ed inaudite guise, ma per ripetervi quanto da me spesse volte profferito e da voi messa in pratica riuscì fecondo germe di ottimi frutti. Non abbiate a schifo pertanto che io torni pur ora a quest’argomento, imperciocchè gli avvisi tendenti ad un beato vivere non devono mai venire in noia, neppur quando il rammentarli potesse per ventura credersi inopportuno, è uopo in cambio ascoltarli diligentemente se vogliamo parteciparne i beneficii. Ricordivi adunque che i nostri ruoli già tempo tenean descritti dugento mila bellicosissimi guerrieri, che possedevano ricchezze immense, copia grandissima di cavalli e d’ogni guerresco apparato; soprattutto poi facevamo gloriosa mostra di molti e prudentissimi veterani; dalle quali cose di preferenza sembra trarre vantaggio chiunque accingesi ad una guerra; impertanto noi fummo vinti da sette mila Greci, e turpissimamente spogli del regno e di quanto eravamo a dovizia forniti. Ora in vece ridotti a pochi, nudi, miseri, del tutto inesperti abbiamo trionfato di venti e più mila nemici: tali, per dirla breve, furon nostre bisogne. Ma qui esporrò le cagioni, sebbene a voi notissime, di cotanto straordinarie vicende. Nei tempi andati i Gotti, quasi che niente coltivatori del giusto bruttavano di scelleraggine ogni loro azione, maleficiosi a sè stessi ed a’ sudditi romani; di questi il Nume, com’era di sua bontà, fattosi pietoso difensore guerreggiò in un colle truppe loro gli oppressori. Il perchè noi, quantunque in molti doppj e di numero, e di valore, e d’ogni militare apparecchio vie meglio forniti, dovemmo tuttavia cedere fiaccati da occulta ed affatto inopinata forza. È quindi in poter vostro il conservare di presente gli ottenuti vantaggi se vi darete a seguire giustizia; ma da lei traviando avrete a nemico Iddio. Il quale ne’ marziali cimenti non suol già dichiararsi favoreggiatore d’un cotal genere di uomini, o d’una particolare nazione, sibbene di quanti operano assidui il giusto e l’onesto; nè gli è malagevol cosa il volgersi favorevole dagli uni agli altri, ogni nostro potere avendo a limite il guardarci dalle prave azioni, quando l’Ente supremo ha il tutto pienamente sommesso all’arbitrio suo. Ripeto adunque volersi da noi attendere all’osservanza del retto e tra’ connazionali e tra’ suggetti, se bramiamo menar di continuo giorni tranquilli.»
II. Totila aringati di questa conformità i Gotti pigliò a rampognare di molte cose il senato romano a bello studio ivi raccolto, cavillosamente rimprocciandogli che beneficato in mille guise da Teuderico ed Alarico, prescelto ognora a tutte le magistrature, diputato al reggimento della repubblica ed arricchito fuor misura, avea ribellato con animo ingratissimo dai Gotti sì tanto a lui benefici, per introdurre con somma ignominia e danno in patria i Greci, addivenuto sì operando traditore di sè stesso. Poscia lo richiedeva de’ mali che fossergli derivati da’ suoi, ed istigavalo a dire se pur vantar si potesse di qualche bene compartitogli da Augusto; e rimestando le mille cose rammentava essere eglino stati privi di quasi tutte le onoranze dai così detti logoteti, costretti a colpi di bastone al rendimento de’ conti delle cariche sostenute durante lor dominazione. Aggiugneva inoltre avere i Greci riscossi in tempo vuoi di pace, vuoi di guerra gli eguali pubblici tributi, intessendo nel suo discorso più e più altri argomenti dicevoli ad irato padrone verso de’ proprj schiavi. Al postutto loro mostrando Erodiano e gli Isauri, pel cui tradimento erasi impossessato della città: «Voi, in fe di Dio, aggiunse, cresciuti coi Gotti non ci voleste accordare sino a questo giorno neppure un luogo deserto, e la costoro mercè signoreggiamo Roma e Spoleto; siate dunque voi servi, ed eglino, stretti di amicizia e di benevolenza con noi, suppliranno di pieno diritto le vostre magistrature.» I patrizj udivano silenziosi tali invettive, ma Pelagio proseguì a scongiurarlo che dimenticasse le colpe di quelli infelici; ed alla per fine il re accommiatolli confortati dalla promessa di usar loro clemenza.
III. Totila di poi mandò Pelagio ed il romano senatore Teodoro ambasciadori a Giustiniano Augusto fattili innanzi tratto sagramentare in istrettissima guisa che rimarrebbonsi benivoglienti alla sua persona, e prestissimo tornerebbero indietro. A simile ingiunse loro di adoperarsi come potessero il meglio onde ottenere la pace per non obbligare i Gotti alla totale distruzione di Roma e, tolto di vita il senato, a scombinare colla guerra l’Illiria: di pari tempo consegnò ad essi lettera per Giustiniano sapevole di già delle italiane sciagure. Costoro presentatisi al monarca bizantino fecero i comandamenti di Totila, e diedergli la scritta della seguente conformità: «Nella credenza che sienti ben noti i romani avvenimenti ho risoluto di passarli con silenzio; quindi comprenderai di leggieri a che tenda la mia mandata. Chiediamo con lei che vogli tu stesso accogliere il bene della pace, ed accordarlo egualmente a noi, del che memorie bellissime ed illustri esempi lasciaronti Anastasio e Teuderico, i quali in epoca ben vicina alla nostra compierono regnando con somma pace e felicità i giorni loro. Che se pur tali saranno i tuoi desiderj potrai meritamente nomarti mio padre; e quindi ovunque bramerai ti saremo compagni d’armi.» Giustiniano Augusto, letto il foglio, ed ascoltate le dicerie degli oratori, subito licenziolli, rispondendo loro a voce, e per iscritto al re, essere Belisario l’imperatore della guerra, e poter egli in modo assoluto venire ad accordi quando li giudicasse per lo migliore.