Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo XIII
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XIII.
Totila assedia Roma; fame entro la città. Piacenza cinta pur ella d’assedio. — Belisario vedendosi agli estremi passa da Ravenna ad Epìdanno, dove l’imperatore manda truppe. Narsete eunuco ottiene gente dagli Eruli, i quali battagliando vincono e fugano gli Sclabeni.
I. Totila di poi avviatosi a Roma allorchè fuvvi dappresso attese ad assediarla. Comandò che gli agricoltori per tutta Italia andassero liberi da ogni contumelia, e proseguissero senza tema e come soleano per lo innanzi a lavorare i colti loro, gravandoli unicamente de’ tributi da prima sborsati all’erario ed ai padroni de’ campi. Parte de’ Gotti erasi intanto accostata alle romane mura quando Artasire e Barbacione pigliati seco molti de’ loro saltarono fuori contro al volere di Bessa a combatterli. Fattone gran macello nel primo azzuffamento inseguono i volti in fuga, ma di soverchio inoltratisi cadono negli agguati posti loro sulla via; quivi ebbero a toccare grave perdita ed a fatica poterono i duci stessi con altri pochi uscirne a salvamento, cosicchè non osarono più da quinci in poi farsi in campo sebbene di continuo provocati. Da quest’epoca la fame cominciò ad infierire vie maggiormente là entro, impossibile addivenendo l’introdurvi un che di vittuaglia dai campi, nè tampoco il trasferirvi quella di cui venivano apportatrici le navi sul mare, tanto era il rigore dell’assedio. Imperciocchè i Gotti insignoritisi di Napoli avean posto e quivi e nelle isole chiamate d’Eolo1 e da per tutto nelle altre all’intorno copia di barche per impedire accuratamente il passo ad ogni derrata, e conquistare coll’opera loro tutte le vele ed i marini dalla Sicilia tendenti al porto romano. Totila poi comandò alle truppe spedite nell’Emilia di occuparne vuoi a patti, vuoi colle armi la capitale Piacenza, città assai munita all’intorno, giacente sull’Eridano, e la sola in quella regione ligia tuttavia de’ Romani. L’esercito approssimatovisi intimò al presidio l’arrendimento, ed avutone ripulsa formò il campo e cinsela d’assedio, non ignorando esservi là entro diffalta d’annona. Cetego in allora, patrizio, primo del romano senato, e tenuto dai cesariani duci in sospetto di traditore, si fe’ a Centumcelle.
II. In questo mezzo Belisario inquieto sui destini di Roma e di tutto l’imperio, nè potendo in conto veruno da Ravenna sovvenire di truppe gli assediati, difettandone egli stesso, risolvè levarsi di là e trasferire il campo in quelle adiacenze per meglio provvedere da vicino ai bisognosi d’aiuto. Egli pentivasi già dell’andata da principio a Ravenna, consigliatovi da Vitalio nella persuasione di avere operato contro agl’interessi dell’imperatore; conciossiachè ivi rinchiuso abbandonato avea nelle mani de’ nemici la sorte della guerra. In quanto a me sembrami che il duce mal si apponesse, sovrastando allora inevitabili sinistri ai Romani: o dato ben anche più avvantaggioso il suo divisamento, noi dovremo confessare essergli stato il Nume contrario per favorire Totila ed i Gotti, e derivato quindi che i migliori accorgimenti riuscissergli colla peggio. Essendo che a coloro ver cui spira propizia aura di fortuna mai nulla intravvenga di sinistro eziandio quando appigliaronsi a pessimi consigli, rivolgendo questi l’Ente supremo ad ottimo termine; e son di parere che in cambio la prudenza allontanisi dallo sciagurato, la necessità di soffrire togliendogli e senno e discernimento del vero. Che se pur talvolta deliberando rottamente colga nel segno, di tratto un maligno soffio della fortuna riduce il più acconcio imprendimento a pessimo fine. Se le cose poi di là procedessero in tal guisa o in altra non è in mio potere l’esporlo. Belisario, affidata Ravenna alla custodia di Giustino e di poca truppa, costeggiando la Dalmazia e le vicine piagge si condusse ad Epidanno per rimanervi in ansiosa aspettazione degli aiuti bizantini e manifestare intanto con lettera all’imperatore la sorte di quella guerra. Il perchè Giustiniano gli mandò non guari dopo Giovanni, nipote di Vitaliano, Isacco, armeno e fratello d’Arazio, e Narsete con un esercito di barbari e di romani militi, i quali giunti a lor meta passarono sotto gli ordini di lui. Inviò similmente l’eunuco Narsete ai capi degli Eruli per allettarne molti a prender parte in quelle italiche faccende: in effetto numerose turbe di costoro capitanate da Filimuto e da altri duci lo seguirono recandosi nella Tracia ove si tennero ne’ quartieri di inverno per raggiugnere quindi Belisario al venir di primavera; marciava pure con essi Giovanni cognominato Faga. Costoro durante il viaggio casualmente e contro ad ogni aspettazione arrecarono ai Romani grandissimo bene; imperocchè avvenutisi ad una disterminata truppa di Sclabeni, i quali testè valicato l’Istro aveano dato il guasto a quella regione, e conduceansi prigionieri moltissimi paesani, di lancio assalironli, e quantunque inferiori assai di numero fuor d’ogni speranza li vinsero apportando loro gravissima strage, e rimandarono liberi alle proprie case tutti gli individui caduti in ischiavitù. Fra questo mezzo a simile Narsete abbattutosi ad un arrogante che falsamente si avea usurpato il nome di Chilbudio, personaggio illustre e condottiero un tempo delle romane truppe, di leggieri ne scoprì l’impostura, e non fia discaro che io qui ne esponga la istoria.
Note
- ↑ Ora isole di Lipari o di Vulcano (sette di numero e situate presso della Sicilia). Ebbero a re Eolo e da lui nome, avvicendandolo quindi con quello di Vulcano, figliuolo di Menelao, regnatovi dopo Eolo; tale scrisse Cicerone. Altri pretendono essere così dette a cagione della sulfurea natura loro, vedendosi di frequente mandar fuoco. Dal re Liparo infine, figliuolo del re Ausone, sortirono il terzo nome. I poeti quivi metteano la officina di Vulcano.