Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo XVII
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XVII.
Mirabile amore d’una capra verso un fanciullino derelitto dalla madre. — I Gotti informati della venuta di Belisario levano l’assedio da Arimino.
I. Qui giunti esporrò un che veduto co’ miei proprj occhi. Quando l’esercito di Giovanni arrivò nel Piceno il terrore, come frequente è il caso, venne a scompigliare in singolar modo que’ popoli ed in ispecie le femmine; delle quali parte sottrassersi colla fuga riparando ciascuna dove meglio si potè, e parte cadute nelle mani di chi procedeva sul loro sentiero furono condotte via ne’ più barbari modi. In sì grande trambusto di cose una donna fresca di parto abbandonò il proprio bambino nelle fasce e giacente per terra, né le riuscì di più tornare alla sua casa, vuoi per essersi molto dilungata colla fuga, vuoi perchè addivenuta preda d’un qualche violento rapitore; né v’ha più dubbio ch’ella o siasi partita di questa vita, o abbia dato un eterno addio all’Italia. Ora una capra di fresco sgravata non appena ebbe veduto il fanciullo così derelitto e lagrimante che ne pigliò compassione. Lo accosta, gli presenta la tetta, lo custodisce, ed è tutta premura nel guardarlo dalle offese de’ cani, o di altra bestia comunque. E poichè si durò lungamente in quello spaventoso tumulto, lungamente pure il fantino venne cresciuto con tale maniera di nutrimento. Avvertiti quindi i Picenti che era per giungere l’imperiale esercito a disterminare i Gotti, senz’apportare il minor disagio ai Romani, tutti si restituirono alle case loro. Tornate adunque in Urbisalia le femmine di romana schiatta unitamente ai mariti e veduto il fanciulletto pieno di vita, senz’aver mezzo di conoscere il come, faceanne di grandi maraviglie; e tutte, quante eranvene in istato di allattamento presentavangli a gara il seno. Quegli nondimanco ricusava l’umano latte, e la capra non volea tampoco vederlo suggerne, col suo continuo belargli all’intorno facendosi ben intendere dalle genti ivi accorse che a marcia forza comportava le molestie accagionate al pargoletto dalle donne più a lui vicine. Dirò tutto in una parola: ella voleagli prodigare le materne cure non altrimenti che ad un suo nato. Laonde quelle femmine ristettersi dall’annoiare il fanciullo, e la capra a tutto bell’agio proseguì a nutrirlo, e con ogni diligenza lo crebbe; ed ecco il perchè ebbe da que’ paesani il nome d’Egisto 1. Ora trovandomi là fui condotto presso del bambino per mostrarmi cosa maggiore d’ogni pensamento; ed in pruova lo infastidirono acciocchè e’ si desse a vagire. Quegli in effetto mal sofferendo le costoro seccaggini cominciò il pianto; la capra uditolo (essendone lunge un tiro di pietra) altamente belando v’accorse, e gli si pose di sopra onde allontanargli ogni nuovo disturbo. Quanto mi sapea, tanto ho narrato del fantino Egisto.
II. Ora Belisario procedeva su pe’ monti di questa regione col proposito di non assalire all’aperta i nemici perché molto superiori di numero. Oltracciò vedendo i barbari avvilitissimi a cagione de’ sofferti sinistri tenea per fermo che all’udire sovrastanti loro da ogni banda le romane truppe, e’ darebbonsi immantinente, non sapendo più che sia valore, alla fuga; e colpì nel punto conghietturando con tale certezza del futuro. Laonde posto il piede su’ poggi distanti il cammino d’un giorno da Arimino avvennersi ad una piccola schiera di Gotti, diretti a far provvista di alcun bisogno della vita, i quali ben lunge dal pensarlo scontratisi coll’esercito nemico ed in circostanze da non poterlo evitare fu mestieri che parte rimanesservi spenti dai romani dardi, e parte mal conci dalle ferite campassero furtivamente tra’ vicini scogli; e da quivi osservandone il numero ognora crescente per tutte quelle gole giudicaronlo assai più forte di quanto in realtà si fosse; veduti inoltre i vessilli di Belisario tosto conobbero ch’egli stesso conduceva le truppe. I Romani colà passarono la notte, ed i Gotti feriti avviaronsi ascosamente al campo di Vitige, ove arrivati verso il meriggio diedero prova certa, discoprendo lor membra offese, che il duce imperiale era lì per giugnere con poderosissima oste. Quelli dunque apprestaronsi alla pugna dalla banda aquilonare d’Arimino, estimando che da quivi accadrebbe lo scontro, ed in grazia di questo lor pensamento tutti gli sguardi eran volti alla sommità del monte. Ottenebratosi di poi il cielo mentre deposte le armi e’ pigliavano riposo, non appena ebbero veduto i fuochi accesi dalle truppe di Martino, un sessanta stadj lunge dalla città e rimpetto alla sua plaga orientale, che agghiadarono per lo gravissimo timore, nella persuasione di venir tutti cinti al comparire del giorno dai nemici, e con sì triste imagine passarono quelle ore notturne in preda alla massima agitazione. Il dì appresso allo spuntar del sole mirano farsi lor contro una grossissima armata di mare, alla qual vista fuori di sè per la sorpresa mettonsi in fuga. Tanto fu poi il tumulto ed il clamore nell’affardellare, che più non udivansi i comandamenti, addivenuto unico scopo d’ognuno l’uscire il primo dagli steccati per riparare in Ravenna. Che se al presidio non fosse del tutto mancato e coraggio e forza, ottimo era il momento di fare con una sortita carnificina de’ nemici, e di metter fine con essa ben anche alla guerra. Ma è uopo dire che rattenesseli ed il timore, impossessatosi degli animi loro nelle passate vicende, e l’affievolimento in che eranne i corpi a motivo della somma carestia di vittuaglia ivi sofferta. I barbari in quella grande perturbazione abbandonata parte delle bagaglie avviaronsi di tutta carriera a Ravenna.
Note
- ↑ Capra, gr. αἴξ, αἰγός.