Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
◄ | Libro secondo | Libro secondo - Capo II | ► |
CAPO PRIMO.
Preclare gesta di Bessa e di Constantino. — Tal de’ Romani e tal pur de’ Gotti ambo caduti nella medesima fossa ritraggonsene in virtù d’un lepido accordo tra loro. — Audace valore di Corsamante.
I. I Romani oggimai fatti guardinghi dal non venire in campo con tutto l’esercito, e ripigliato l’antico loro costume di badaluccare alla leggiera colla gente in sella, più fiate vinsero i barbari; da quinci e da quindi impertanto uscivano eziandio i fanti non già in ordinanza, ma quali seguaci delle equestri turme. Nel primo schermugio Bessa armato di asta, lanciatosi contro i nemici, tre ne spense, famosissimi tra’ cavalieri loro, e volse in fuga il resto. Un’altra volta Constantino menati gli Unni sull’annottare contro il campo di Nerone, ed oppresso da sterminata schiera di nemici si levò d’ogni impaccio nel modo seguente: Havvi colà un vecchio stadio, grande e con molte antiche abitazioni all'intorno, il quale in epoca più rimota serviva pe' combattimenti de' romani gladiatori; cosicchè di necessità il luogo dappertutto presentava anguste vie. Il duce ridotto alla dura condizione di non poter vincere la folla de’ Gotti o fuggire senza gravissimo pericolo, fe’ balzare giù d'arcione i suoi Unni, ed alla testa loro, anch'egli appiede, riparò in una di quelle viuzze, da dove tutti saettando a man salva recavano altrui moltissima strage. I barbari siffattamente bersagliati durarono qualche tempo fermi nella speranza che queglino esaurissero tutto il saettamento loro, per quindi a bell'agio circondarli, vincere e condurre prigionieri nei proprj accampamenti. Se non che al mirare i Massageti, valenti arcadori a non dubitarne, nel trarre d’arco su folta gente non avventare freccia indarno, ed averne morta più della meta, disperando compiere i premeditati divisamenti, si misero sul tramonto in fuga, non pochi giuntandovi la vita. Imperciocchè gli altri di continuo incalzandoli, mercè della singolare destrezza nel maneggiar l’arco eziandio quando vanno di velocissima corsa, non ne facevano minore eccidio: superato così il pericolo Constantino ricondusse di notte la soldatesca in Roma.
II. Pochi giorni dopo guidate da Peranio le truppe romane fuor della porta Salaria per combattare il Gotto quivi a campo, questi, da prima volte le spalle, ma subitamente raccozzatosi, ebbe il mezzo di riprendere l' offensiva; or tale dei fanti imperiali, venutogli meno il coraggio nel sottrarsi al pericolo, precipitò in alta fossa, delle quali molte aveanue scavate gli antichi cittadini per riporvi, a mio avviso, il frumento. E come non osava mandar grida essendo ben vicino il nemico, nè in conto alcuno potea trarsi di là in causa della ripidissima escavazione all'intorno, così gli fu mestieri di passarvi la notte. Il dì seguente essendo i barbari di nuovo costretti a farsi indietro, uno de' loro cadde pur egli nella medesima fossa, ove abbracciatisi entrambi con iscambievole amore, opera della necessità, giuraronsi a vicenda che l'uno avrebbe a petto la salvezza dell’altro; quindi amenduni cominciarono a mandare altissime grida, alle quali i Gotti accorsi addimandavano dal margine di quella caverna chi si fosse il chiedente mercede. Allora, per convenzione tenendosi il Romano in silenzio, l'altro colla patria favella appalesa la sua mala ventura, d'essere, ciò è, nell'ultima fuga precipitato in quel baratro: che però supplicavali di calare una fune per valersene a campare la vita. I compagni adunque abbassaronvi i capi di alcune corde persuasi di porgere aiuto ad un loro commilitone, ma afferratili invece il Romano pigliò ad ascendere, adducendo che s'egli fosse il primo a mettersi in salvo, gli accorsi non vi avrebbero nullamente abbandonato un compagno; quando per lo contrario udissero che rimaneavi un loro nemico, al tutto rifiuterebbonsi di salvarlo, e così detto proseguì a salire. I Gotti vedutolo ne furono sorpresi, ma da lui poscia informati della faccenda tiran su l’altro, ed avutane conferma degli accordi fatti tra loro e dello scambievole giuro, mandano il Romano sano e salvo alla città, e riconducon seco negli steccati il compagno. In processo di tempo cavalieri, non in gran numero, d'ambo gli eserciti comparvero in ordinanza per fare pruova di valore; ma ogni tenzone si ridusse a singolari disfide, nelle quali i Romani ebbero sempre vittoria. Così procedettero le narrate cose.
III. Non guari dopo venuti a battaglia nel campo di Nerone, ed ora i cavalieri imperiali, or quelli de' Gotti fugando gli avversarj, un Corsamante, massageta di nazione ed inclita lancia di Belisario, mosse con poca gente a perseguire picciol turma di settanta barbari, e, dilungatosi, la sua scorta diede di volta lasciandolo solo ad incalzare i fuggitivi. Orbè costoro avvedutisi della faccenda spronangli contro i cavalli, ed egli affrontandoli impetuosamente ne spegne uno de' valentissimi, e prosegue a tenzonare cogli altri; i quali mostrategli di nuovo le spalle prendon la fuga; se non che rattenuti dalla vergogna, supponendosi già alla vista de' commilitoni nel campo, tornano a fargli contro; ma nella guisa di prima accolti e perduto altro coraggiosissimo guerriero fuggon la terza volta; Corsamante allora dopo averli di per sè solo molestati sino al vallo rientrò nelle mura. Trascorso quindi breve tempo all’occasione d'altro simile badalucco venne offeso nella sinistra tibia sentendosi penetrare l'osso dal dardo, in causa di che fu costretto a non trattare le armi per alcuni giorni, durante i quali pigliato da impazienza, così comportando il suo naturale, minacciò di voler ben presto far rimordere del violato sangue il nemico. Nè tardato molto il risanamento, un giorno mentre sedea al desco, ed aveavi giusta la sua consuetudine largamente bevuto, deliberò assalire i barbari da solo, e vendicare l'oltraggio sofferto nel piede. Innoltratosi dunque alla porta Pinciana espose di andare al campo avversario per comandamento del supremo duce, e le guardie non avendo motivo di ricusar credenza al prodissimo tra le lance del condottiero, aperte le porte lascianlo a suo buon grado partire. I Gotti, aocchiatolo, dapprincipio il tengono qual disertore in cammino per chiedere mercè da loro. Ma vedutolo quindi nell'avvicinarsi a sciogliere l'arco, nè potendo ancora ben distinguere chi si fosse, muovono in numero di venti ad incontrarlo, ed egli, a bell'agio disbrigatosene, inoltra tuttavia cavalcando a lento passo, nè retrocede tampoco all'imminente arrivo d'un maggiore drappello, che il circondò mentre accingevasi a nuova pugna. I Romani dalle torri in mirandolo, nè riconosciutolo ancora per Corsamante, supponevanlo altro de' suoi caduto in delirio. Se non che dopo grandi e luminose pruove di coraggio, accerchiato dalla nemica turba dovè pagare il fio del suo imprudente ardire. Alla notizia poi dell'accaduto Belisario e l'esercito romano ebberne gravissimo cordoglio, dolendosi che insieme con quel prode fosse venuta meno la pubblica speranza in lui riposta.