Istoria delle guerre gottiche/Libro primo/Capo XXV
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XXV.
Belisario trasferisce nella Campania la disutile romana popolazione. — Bandisce papa Silverio nella Grecia. — Innalza Vigilio al Pontificato, e provvede alla salvezza della città. — Alcuni accingonsi a riaprire il tempio di Giano.
I. Tale appunto come abbiam detto si passò quella notte dai Romani e dai Gotti, dopo che questi inoltratisi alla conquista delle mura furonne respinti. Il giorno appresso Belisario fe’ comando a tutto il popolo di tradurre in Napoli le mogli, i figli ed il servaggio meno idoneo a trattare le armi per impedire la diffalta di vittuaglia nella città; e lo stesso ordine diede alle truppe, se aveavi tra esse alcuno provveduto di servo o d’ancella; aggiugnendo che pel momento a cagion dell’assedio non solo venivagli tolta la facoltà di dispensare il fodero giusta l’usanza, ma uop’era di più che ognuno s’accontentasse ricevere l’una metà del cotidiano vitto in natura e l’altra in danaro. Quelli obbedienti pigliarono tosto a grandi turbe la via della Campania, chi valendosi del navilio rinvenuto nel porto romano, e chi pedestre calcando la via Appia; nè ai pedoni su questa via, nè a quelli diretti al porto gli assediatori apportavano danno, pericolo o timore di sorta, non potendo circondare di campi tutta la vastissima Roma, nè cimentarsi a scorrazzare in drappelli a qualche distanza dai proprii steccati per tema di nemica sortita. Laonde alquanti giorni ebbero gli assediati piena libertà di partirsi da Roma e d’introdurvi sovvenimenti d’annona. Tra le tenebre soprattutto i barbari paventavano fuor misura, e le sentinelle giaceansi immobili ne’ campi, avvenendo assai di frequente che ed altri ed in ispecie i Maurusii1 usciti delle mura allo scontrarsi ovunque in Gotti o in preda al sonno o sbandati in piccolo numero (com’è moltissime volte il caso ne’ grandi eserciti, richiedendolo o le bisogna della vita, o la necessità di pascolare cavalli, muli, ed ogni maniera di bestiame destinato a nutrirci) li uccidessero, e, di fretta spogliatili, al primo sentore di più forte nemica sorpresa mettessersi a precipitosa carriera, essendo tal gente veloce, per natura, del piede, priva di gravi armadure, ed assuefatta a prevenire colla fuga i disastri. Il perchè gran popolo migrò senza molestia da Roma, riparando chi di essi nella Campania, chi nella Sicilia, e chi altrove, come avvisossi ciascuno per lo migliore. Il duce imperiale osservò in quella non avervi proporzione tra il novero delle sue truppe e la circonferenza delle mura, di qualità che poche essendo le prime, come ho detto, non potea sempre tenerle sotto le armi, o supplirne quando fossero pigliate dal sonno, tributo incontrastabile alla natura umana, con altre le funzioni. Vedeva in pari tempo la massima parte della plebe alle prese colla miseria e con la fame; ne v’ha a meravigliarne considerando la bassa origine degli artieri e il consueto viver loro alla giornata, cosicchè in allora costretti a languire nell’ozio mancavano dei mezzi necessarj al proprio sostentamento. Egli adunque commosso da sì gravi circostanze aggregò parte del volgo alla milizia, e tra loro divise le guardie assegnando ai plebei una determinata giornaliera mercede, e distribuendoli di modo in compagnie che fossevi ognora l’occorrente per dare lo scambio alle sentinelle, e per affidare in giro a ciascuna delle compagnie la custodia della mura: così Belisario provvide ai bisogni d’entrambi.
II. Tra questo mezzo l’imperial duce rilegò nella Grecia Silverio vescovo di Roma, caduto in sospetto di parteggiare coi Gotti, innalzando non guari dopo Vigilio al pontificato. Vennero similmente da lui per la stessa cagione banditi alcuni senatori, fattili ripatriare nullamanco dopo lo scioglimento dell’assedio e la partenza del nemico; ed erane del numero quel Massimo, il cui progenitore, Massimo anch’egli, diede morte a Valentiniano Augusto. Ad evitare inoltre ogni frode per parte dei custodi delle porte, o che dal di fuori si tentassero e corrompessero gli animi loro col danaro, due volte al mese spezzavano tutte le chiavi per quindi mutarne gl’ingegni: così pure assegnava nuova stazione, e dall’antecedente ben lontana, ai custodi, ed ogni notte mandati a riposare i duci delle guardie sulle mura sostituivane altri coll’incarico di perlustrare in giro qualche tratto di esse, e di trascrivere nei repertorj i nomi delle scolte, ed ove ne mancassero di surrogarli tantosto, riferendogli col venturo giorno i caduti in fallo per sottoporli al meritato gastigo. Durante le ore notturne di più ordinava ai musici dell’esercito di sonare i loro stromenti presso delle mura, ed inviava al di fuori manipoli di soldati, Maurusii di preferenza e provveduti di cani, acciocchè attendessero alla fossa, volendo anche da lontano scuoprire chiunque tentasse insidiosi macchinamenti.
III. Tali de’ cittadini intanto forzate le porte cimentaronsi ad aprire il tempio di Giano. Fu questo il primo degli antichi Dei chiamati dai Romani col proprio idioma Penati; ed avea tempio rimpetto alla Curia, un poco di sopra alle tre Fate, nome solitamente da quel popolo dato alle Parche. La sua cappella è tutta di bronzo, di forma quadrata, e grande sì che appena giugne a cuoprire il simulacro del Nume pur esso di bronzo, lungo per lo meno cinque cubiti, e nel resto tutto simile ad uomo; se non che ha il capo bifronte, e coll’uno de’ suoi volti mira ad oriente, coll’altro ad occaso. Di contro poi ad ambo i prefati volti hannovi porte dello stesso metallo dagli antichi Romani solite chiudersi in tempo di pace e della massima prosperità, e riaprirsi ov’e’ tornassero alle armi; se non che passati quindi a professare la cristiana religione, e addivenuti zelantissimi al maggior segno di lei, neppur furiando la guerra non le dischiudevan più. Ora impertanto fermo tuttavia l’assedio alcuni cittadini, imbevuti a mio credere dell’antica superstizione, tentarono celatamente di spalancarle; messo quindi mano all’opera, riuscirono solo ad allontanarne così un poco le imposte, che l’una meno di prima aderisse all’altra. Gli autori della trama rimasero occulti, nè si pensò ad inquisizioni sopr’essa in quel grande trambusto di cose, non essendo in ispecie giunta alle orecchie de’ magistrati, ed avendovi ben pochi nello stesso volgo consapevoli del fatto2.
Note
- ↑ Così o Maurosii nomavansi dagli Elleni, Mauri dai Romani. V. Strabone, lib. XVII, fog. 19.
- ↑ Numa Pompilio secondo re de’ Romani edificò questo tempio nell'Argiteto, o sia nel luogo ove gli artigiani aveano principalmente le officine loro, e dall’epoca in cui venne eretto sino a quella dell’imperatore Augusto solo due volte fu chiuso; l’una sotto il consolato di Tito Manlio dopo la prima guerra punica, l’altra dopo la guerra d’Azio.