Istoria delle guerre gottiche/Libro primo/Capo XXIV

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CAPO XXIV.

Lettera di Belisario a Giustiniano Augusto. — Presagio nella caduta dell’immagine di Teuderico re dei Gotti. — Oracolo sibillino.

I. Belisario scrisse del tenore seguente a Giustiniano Augusto: «Arrivammo in Italia giusta il tuo commandamento, ed assoggettatane gran parte avemmo eziandio in poter nostro, fatta sgombrare dal nemico, Roma, il cui prefetto Leuderi di novello ti ho inviato. Se non che, messo presidio ne’ luoghi forti della Sicilia e dell’Italia per noi occupati, sommava il nostro esercito soli cinquemila combattenti quando fummo assaliti da altri barbari non minori in numero di cencinquanta mila1. E dapprincipio nel riconoscere le cose al fiume Tevere venuti fuor d’ogni nostro desiderio nella necessità di combattere per poco non rimanemmo dal primo all’ultimo vittime delle possenti aste nemiche. I Gotti poscia investirono da ogni banda e con tutte le truppe e macchine di che poteano disporre queste mura, e pur allora non andaron lunge dall’insignorirsi di noi e della città, e vi sarebbon riusciti se una prospera fortuna non ci avesse tolto d’impaccio, volendosi meritamente attribuire a Dio e non ad umano valore e coraggio gli avvenimenti superiori alla natura. Quanto sino ad ora mercè della fortuna e dell’animo nostro fu [p. 116 modifica]operato si rimane a fè mia in ottima condizione, e così amerei che le nostre future imprese valessero ad accrescere il poter tuo. Non passerò quindi con silenzio ciò che a me si conviene dire ed a te fare, incontrastabile essendo che le umane vicende per nulla traviano dal volere del Nume, e che di tutte le imprese unicamente da quelle eseguite per loro stessi aver sogliono i duci vituperio o lode. Metti adunque a disposizion nostra armi e soldati in tal moltitudine che da quinci innanzi possiamo con forze eguali combattere il nemico: mal consigliandosi chi ripone il tutto nell’aiuto e nella perseveranza della fortuna, più che avversa dal correr sempre la medesima via. Pensa teco stesso, o Augusto, che se ora il barbaro avesse trionfato ci andrebbe dalla tua Italia discacciando colla perdita di tutto l’esercito, e con molto nostro disonore per avere condotto malamente la guerra. Qui non rammenterò che trascurando noi in qualche parte di mettere un argine alla rovina de’ Romani, cui l’antica fedeltà verso l’imperial tua persona ed i prosperi successi ottenuti dalle armi nostre hanno sin qui apportato salvezza, e’ per certo lascerebbonci gravissimo argomento di dolore. Che se prima di tornarne al possesso noi fossimo stati respinti dalle mura loro, dalla Campania ed in epoca molto anteriore dalla Sicilia, l’unico nostro cordoglio si volgerebbe sul minore di tutti i mali, quello, intendomi, di non esserci potuti arricchire con beni posti nelle altrui mani. Devi inoltre considerare attentamente che neppure con un presidio di molte miriadi sarebbesi potuto conservare [p. 117 modifica]lungo tempo Roma in causa della sua vastità e della agevolezza con cui a motivo della molta distanza dal mare possonlesi impedire tutti i bisogni della vita. Ora a non dubitarne i Romani sono amici, ma se le molestie loro protraggansi, è chiaro che alla prima congiuntura non istaranno in forse dall’accogliere un migliore partito, insegnandoci la consuetudine che gli amici di recente data proseguono ad esser fedeli non mai pe’ disagi cui vengono suggettati, sì bene pe’ beneficj di che rendonsi partecipi: e innanzi tutto la fame costrignerà il popolo a fare molte cose dalle quali vorrebbesi astenere. In quanto a me, consapevole di andar debitore della vita alla Maestà tua, nessuno potrà discacciarmi vivo da questo luogo; ma considera qual lode sarà per venirti da un tal esito di Belisario.» L’imperatore conturbato da sì pressante lettera senz’indugio ragunò truppe e navi, commettendo a Valeriano e Martino di sollecitare l’andata loro. I quali già sul fare del solstizio vernile eransi partiti con altre truppe dirigendo la navigazione alla volta dell’Italia; se non che dimoravano tuttavia a svernare nell’Etolia e nell’Acarnania, rattenuti pel cattivo tempo dal proseguire il divisato cammino. Giustiniano Augusto di poi col partecipare al suo condottiero i fatti provvedimenti inspirò coraggio ed allegrezza non meno in lui che in tutti i Romani.

II. Accadde tra tanto in Napoli un fatto di tal natura: Aveavi nel foro un’imagine di Teuderico re de’ Gotti formata di minute pietruzze, e quasi tutte dissimili nel colore. La sua testa in epoca più lontana, [p. 118 modifica]vivente ancora il re, scomparve in causa d’uno spontaneo slegamento di que’ sassolini, nè guari tempo dopo Teuderico passò di questa vita. Trascorsi otto anni, sconnessi in un subito i piccoli elementi che rappresentavanne il ventre, di botto venne a morte Atalarico nipote per femminile discendenza del prefato re. A simile, dopo qualche tempo caddero le pietruzze all’intorno del sesso, e mancò ai vivi Amalasunta figliuola di Teuderico. Andate così per allora le cose, nel mentre che i Gotti assediavano Roma vennero meno le rimanenti parti dell’imagine, dai femori alle estremità dei piedi, di qualità che più non ebbevi segno della effigie nella parete. Laonde i Romani traendone vaticinio dichiaravano fermamente che l’imperiale esercito uscirebbe della guerra vincitore, essendo mestieri intendere per le piante di Teuderico i Gotti da lui governati, e così destavansi di dì in dì a speranze maggiori.

III. In Roma similmente alcuni patrizj spacciavano oracoli della Sibilla, e come predizione di lei che alle romane sciagure darebbe fine il mese di luglio, tenendo per certo che nel suo periodo creerebbesi un nuovo imperatore sotto cui la città non avrebbe più nulla a paventare dai barbari. Conciossiachè, andando la fama essere costoro di getica prosapia, l’oracolo componevasi delle seguenti parole: Nel mese quintile Roma non temerà niente di Getico. Ed asserivano accennato luglio col nome del quinto mese tanto coloro che si partivano dall’epoca in cui ebbe cominciamento l’assedio, o dir vogliamo dai primi di marzo, dal quale mese pigliando il computo luglio è in effetto il quinto nella [p. 119 modifica]serie; quanto gli altri che sapevano innanzi al regno di Numa presso de’ Romani racchiudere l’anno soli dieci mesi, e con marzo appunto avere il suo principio, donde luglio si disse quintile: ma erano tutte vane ed inutili ciance. Imperciocchè nessuno fu nella preconizzata epoca eletto a imperatore de’ Romani e l’assedio era tuttavia per durare un anno; di più, quando Totila ebbe la monarchia de’ Gotti Roma tornò a cadere negli stessi pericoli, come dimostreranno i susseguenti libri. Io poi son d’avviso che il vaticinio per nulla accennasse alla presente spedizione de’ barbari, ma ad altra o di già trascorsa, o ancora una qualche volta da effettuarsi. Nè per verità sembrami nei limiti dell’umana intelligenza il comprendere gli oracoli della Sibilla prima ch’essi abbiano avuto il compimento loro; e me ne dà motivo quanto ho letto co’ miei occhi, e che prendo qui ad esporre. La Sibilla non presagisce tutte le cose con ordine e seguitamente, ma fatto appena cenno degli africani sinistri balza di botto in Persia; quindi, menzionati i Romani, trasporta subito il discorso agli Assirii, e volto altra fiata il vaticinio ai primi predice le stragi della Bretagna. Di guisa che addiviene impossibile di conoscere i suoi oracoli prima degli avvenimenti per essi adombrati. Laonde è forza che il tempo medesimo, accadute le vicende e riconosciutane coll’esperienza la predizione, sia l’accurato loro interpetre. Ma di tale argomento giudichi ognuno a suo beneplacito; ed io torno a bomba.

Note

  1. Egio, sessantamila.