Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte II/Capitolo VI

Capitolo VI

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Parte II - Capitolo V

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CAPITOLO VI.


Fu perciò che il popolo beneventano, aspirando ad una completa indipendenza, non attese che il re Liutprando nominasse [p. 238 modifica]un nuovo duca, e nè tampoco si piegò ad eleggere il rampollo dell’antica casa ducale, il giovane Gisulfo, poichè ritenne che questi educato alla cor le di Pavia non avesse a cuore l’autonomia del ducato, e scelse a duca un distinto cittadino chiamato Godescalco, dando a divedere apertamente di non voler più riconoscere alcuna dipendenza. Il nuovo duca naturalmente si alleò coi nemici di Liutprando, cioè col papa e con Trasimondo. Costui nel decembre del 739 penetrò nel ducato di Spoleto con un esercito romano e secondato, come pare probabile, dal duca di Benevento. Ed anche nella duchea di Spoleto si ridestò allora lo stesso desiderio che in Benevento di riacquistare la propria indipendenza dal regno. Le sorti della guerra si volsero propizie a Trasimondo, poichè, morto in battaglia il nuovo duca Ilderico, acquistò in breve tempo l’intero ducato.

A resistere a questa nuova alleanza, fu astretto Liutprando a dar di piglio nuovamente alle armi. Egli, a vero dire, non orasi proposto che solo di sottoporre i ducati ribelli; ma siccome anche l’Esarca Eutichio erasi confederato coi duchi e col pontefice, così credette indispensabile di aprirsi per forza d’armi un varco per quei territorii. Egli nell’anno 740 si spinse nel Ravennate, insieme al nipote Ildebrando che si avea associato al governo, mentre nel medesimo tempo i confini del suo regno erano infestati da continue scorrerie.

In mezzo a queste fortunose vicende trapassava il pontefice Gregorio IV nel novembre dell’anno 741, e poco dopo anche Carlo Martello. E Zaccaria, che fu eletto a suo successore nel decembre di quell’anno, uomo di preclari virtù, accorgendosi che vi era assai poco da sperare nei lontani aiuti della Francia, e che le forze del re Liutprando avanzavano di molto quelle degli alleati, seppe intendere meglio del suo predecessore la vera condizione dei tempi in cui era asceso al pontificato, e ponendo in non cale gli antichi alleati, seppe acquistarsi l’affetto e la stima di Liutprando a tal segno che questi non ebbe difficoltà di restituirgli le città espugnate, dopo di che Zaccaria, addivenuto alleato dal re, acconsentì che le truppe romane avanzassero contro Trasimondo.

[p. 239 modifica] Liutprando nell’anno 742 mosse con tutte le sue forze contro Spoleto, ma Trasimondo non osò resistergli e gli si arrese. Il re, non potendo riporre in lui alcuna fiducia, lo costrinse, secondo l’indole dei tempi, a rendersi sacerdote, e in vestì di quel ducato Ansprando, altro suo nepote, dopo di che si condusse celeramente coll’armata in Benevento. Il duca Godescalco divisò tosto di provvedere al suo scampo fuggendo in Grecia su qualche nave; ma in quella insorsero contro di lui gli antichi e fidi partigiani di Gisulfo, e, inseguendolo, l’uccisero nell’atto che ascendeva su d’un naviglio; però alla sua sposa riuscì di prender la fuga, menando seco i suoi tesori.

In Benevento fu allora da Liutprando eletto duca Gisulfo figlio di Romoaldo II, che, venuto su negli anni, dava belle speranze di sè. E in tal modo Liutprando coll’esaudire i desiderii della maggioranza dei cittadini, che in quella occasione erasi chiaramente manifestata favorevole a Gisulfo, s’impromise con ragione che i buoni accordi tra il regno e il ducato di Benevento non sarebbero stati in menoma guisa alterati durante il governo del nuovo duca.

Gisulfo regnò solo nove anni (742 751) e il primo atto del suo governo consistette nel dichiarare devoluti alla corona i beni del suo predecessore, e nel profondere poi le sue entrate in opere pie, e soprattutto in istituzioni religiose, tranne poca parte che fu divisa tra coloro che gli si erano serbati fedeli nella sventura. Egli si attirò subito la simpatia del Clero e della chiesa romana col dotare con rara munificenza il celebratissimo monastero Cassinense; imitando in ciò il suo avo Gisulfo che fu prodigo di grandi possedimenti col monastero di S. Vincenzo. E per ammenda del male cagionato al pio luogo da Zotone, recatosi in compagnia della moglie Scauniperga a Montecassino, dono alla badia tutte le terre che estendevavansi sino a Frosinone, e che d’altra parte aveano per confine il Serigliano e i monti di tramontana, con tutte le castella, lo case e le chiese, di cui era sparsa quell’estesissima contrada. Questa donazione fu espressa da Gisulfo in tre privilegi, i cui originali andarono dispersi, ma [p. 240 modifica]con tutto ciò credo che si possa ben dare del menzognero al cronista casfinese che negava un tal fatto, per essere stato in ogni epoca ritenuto da tanti illustri scrittori. E ne fa fede sopratutto il grande storico Giannone con le seguenti parole: «Succedè nell’anno 742 Gisulfo II di questo nome, il quale per emenda del sacco di Zotone arricchì il monastero di Montecassino di molti poderi, e d’immensi doni accrebbe quel luogo. Furongli allor donati quei luoghi e terre dello Stato di S. Germano».

Nè è a stupire di questo largheggiare di Gisulfo verso i monaci di Montecassino, poichè, scrive il Tosti, i longobardi di Gisulfo non erano più quelli di Zotone.1 Raumiliati quegli spiriti feroci erano venuti cristiani, e non è meravigliare che in sul primo fervore di tanto si facessero donatori verso coloro che essi credevano mezzani per ottenere la salute eterna. E quelle pietose offerte erano in uso presso i longobardi, in guisa che è comandato nelle leggi del re Liutprando doversi rispettare le donazioni fatte per la salute dell’anima. La donazione di Gisulfo nell’anno 748 fu confermata dal pontefice Zaccaria, che portava grande amore ai monaci benedettini, e quelle donazioni si giudicarono quasi inviolabili per popolari decreti.

E, non pago di ciò e dei ricchissimi doni largiti ad altre chiese, eccitò i più distinti beneventani a seguire il suo esempio, e gli riuscì assai bene con un certo Scaldai beneventano detto comunemente Saraceno. Costui non avendo prole nè dipendenti, tranne molti schiavi che fece liberi, riedificò a sue spese la chiesa di S. Cassiano nel territorio della città di Alife, che, a secondare i desideri di Petronace abate di Montecassino, fu conversa in un monastero di [p. 241 modifica]monache col titolo della beatissima Vergine, non senza però la cooperazione e l’aiuto del duca e della sua piissima consorte, che avanzava tutti nello zelo della cattolica religione. E oltre i sussidii in denaro fece dono Gisulfo alla Badia della chiesa di S. Croce posta in quel distretto con tutte le sue adiacenze, con condizione però che vi fossero elette badesse tre donne, chiamate Gausana, Pancrituda e Goriberga, le quali, sdegnando le mondane grandezze, elessero di vivere in quella solitudine; e poco dopo il duca donò pure all’ordine dei benedettini il territorio della Gentiana, ed altri beni di non lieve valore.

Gisulfo ebbe sempre intime relazioni con Liutprando, ma questi tuttavia non altro conseguì in Benevento che solo di poter riannodare gli infranti legami tra il re ed il duca, poiché niente fu rinnovato rispetto alle condizioni delle terre del ducato. E dopo la morte di Liutprando tanto ducato di Benevento che quello di Spoleto riacquistarono la loro antica indipendenza.

A Liutprando successe nel regno il nepote Ildebrando; ma fu deposto (744) e gridato re dalla nazione Rachi duca del Friuli.

I duchi di Benevento e Spoleto, amendue congiunti alla caduta famiglia reale, nutrivano sentimenti ostili ai novello monarca, e per questo trassero profitto di tale elezione per sottrarsi a qualunque dipendenza dal regno. Laonde nell’anno 746 Spoleto e Benevento furono dal re medesimo disegnati come paesi nemici e stranieri, e si promulgo una legge che vietava sotto pena di morte di spedire messi a Roma, Ravenna, Spoleto e Benevento; nonché nel regno dei Franchi e degli Avari senza l’ordine del re.

Rachi dopo venti anni di concordia col papa si levo in armi per ignota cagione, contro di esso, assoggettando la Pentapoli, oggi Marca d’Ancona, e stringendo d assedio Perugia. Il papa Zaccaria avea aperte pratiche con Pipino re di Francia per averlo soccorritore in quelle angustie, ma non [p. 242 modifica]ricevendo ascolto, si recò di persona a trattare di pace con Rachi, e questi si tolse tosto da quell’impresa.

Per un tal fatto, e per le sue ricche largizioni ai monasteri, si attirò Rachi lo sdegno dei longobardi, sicchè vedendosi incorso nell’odio del suo popolo, gli prese un fastidio delle cose umane, e, rinunziando alla corona, si recò in Roma dal pontefice Zaccaria, il quale lo sacrò chierico, e poi, per secondare il suo pio desiderio, gli destinò a stanza la badia cassinense. A Rachi successe il fratello Astolfo, uomo di spiriti bollenti e di vasti disegni, il quale, annuendo alle brame del suo popolo, imprese la conquista delle provincie greco-romane, e condusse una tal guerra con tanta alacrità che nel 751 la stessa Ravenna, tutto l’Esarcato e la Pentapoli caddero in suo potere.

Gisulfo si sarebbe forse trovato alle prese con Astolfo, se non fosse morto nel 751 in assai giovane età.

Gli ultimi anni del governo di questo duca furono spesi interamente in opere di pietà cristiana. Egli prodigò donativi al Monastero di S. Sosia in Ponticello fondato dall’abate Zaccaria, ornò d’immagini e suppellettili preziose il tempio di S. Pietro Apostolo; e infine edificò il mirabile tempio di S. Sosia in Benevento, monumento di fama mondiale, che non potè ridurre a perfezione per la sua morte prematura, ma che fu mandato a fine dal celebre Arechi, il primo principe di Benevento.

Gisulfo non lasciò superstite che un sol figlio minore a nome Liutprando, nome che gli fu apposto per la memoria del gran sovrano. E che in Benevento non si fossero per niente innovate le antiche usanze si rileva anche dall’essere stato Liutprando il successore del padre. Costui, per la età minore, divise nei primi anni la cura del regno colla sua genitrice. Noi di questa epoca del suo governo possediamo a vero dire molta copia di titoli di donazioni tanto a pii stabilimenti che a persone private; ma ci fa difetto qualsiasi notizia per desumere che anche da parte dei beneventani fossero state in quel tempo riprese le ostilità contro il territorio romano. È assai probabile per altro che nell’anno 752 i [p. 243 modifica]beneventani avessero conquistato Ceccano nella Campania romana meridionale, il qual fatto sarebbe stato contemporaneo alle imprese del re Astolfo.

Questi, compiuta la conquista delle provincie orientali, volse le sue armi vittoriose contro il ducato romano, e pose il campo sotto le stesse mura di Roma, chiedendo che i romani pagassero un tributo annuale, e che riconoscessero la sua suprema autorità. Il papa Stefano II, successore di Zaccaria, non potendo rimuovere Astolfo dai suoi divisamenti, mosse per la Francia, ove acquistatasi la benevolenza di Pipino, coronandolo re, lo indusse a discendere in Italia per proteggerlo dalle armi di Astolfo, e si fece promettere la restituzione de’ patrimonii della chiesa, che erano stati occupati dai longobardi nelle diverse contrade d’Italia, senza escludere nelle sue pretese, nè l’Esarcato e la Pentapoli, nè il ducato di Benevento.

Astolfo, vinto agli sbocchi de’ passi di Susa, e stretto dì assedio in Pavia, invocò la pace dal vincitore, promettendo di riconoscere la supremazia dei branchi, di rendere Ravenna e le altre città al Pontefice, e di non più invadere il territorio romano. Ma tuttavia non disanimato dal primo insuccesso, appena Pipino rivarcò le Alpi, si negò di eseguire il trattato, e di restituire al papa le città romane; ed anzi nella primavera dell’anno 756 allestì il più numeroso esercito che gli fu possibile; e mosse su Roma, bramoso di espugnarla, e dar fine alla guerra col menare il papa prigioniero in Pavia.

Anche i beneventani presero parte a quell’impresa, e mentre il re assediava dal lato orientale la città, i beneventani si accamparono a mezzogiorno, e propriamente davanti le porte di S. Paolo e S. Giovanni. Ma, tuttochè i suoi dintorni fossero devastati, la città di Roma non. cadde nelle mani di Astolfo. Questi dopo tre mesi ebbe a levare l’assedio per difendersi da Pipino, che, incitato dal papa, avea nuovamente superate le alpi. Astolfo, vinto nuovamente, in battaglia, tornò a chiudersi in Pavia, ove, vedendosi assediato aspramente da Pipino, promise per la seconda volta di [p. 244 modifica]consegnare al papa le città per le quali si combatteva, e Pipino che dubitava della sua fede, deputò Fulrado, abate di S. Dionigi, a far eseguire in sua presenza la restituzione al pontefice delle città occupate; di che Astolfo, vedendo dileguate tutte le sue speranze, prese tanto dolore che ne morì. (756).

Il ducato di Benevento fu probabilmente, durante il governo di Liutprando, ridotto a una più visibile dipendenza dal regno, e ciò si suppone non solo per avere Benevento mandate alcune truppe in aiuto di Astolfo alla malaugurata impresa di Roma, dalla quale non potea derivarle alcun vantaggio, ma anche perchè in una causa di gran rilievo, discussa in quel tempo in Benevento, fu prodotto appello al re che emise la finale sentenza.

Liutprando che, appena eletto duca, aveva acconsentito che, attesa la sua età minore, la madre moderasse la cosa pubblica, cominciò solo dal 756 a reggere da sè lo stato; ma pare che assai presto si desse interamente in balia del suo antico educatore Giovanni, dal quale, in verità, fu sovvenuto di saggi consigli, ed esortato sempre a nobili imprese.

Ma la morte di Astolfo, e le interne agitazioni che ne seguirono, infusero ben tosto nell’animo suo il desiderio di frangere qualsiasi legame di dipendenza dal reame longobardo. Fu allora che Desiderio duca della Tuscia tentò di ascendere al trono longobardo, ma gli si levò contro il monaco Rachi che dalla solitudine del suo convento si mostrò nuovamente cupido del regno; e, riprese le insegne reali, trovò molto favore appo i grandi longobardi. Se non che Desiderio usò l’astuzia, e seppe accortamente rendersi favorevole il pontefice col promettergli che, se lo avesse aiutato a torgli dinanzi quell’ostacolo, gli avrebbe restituite tutte le città toltegli da Astolfo, e che, non ostante le promesse, non erano state mai rendute.

Stefano III accettò la profferta, e spedì il prete Stefano con lettere a tutti i principali longobardi, ammonendoli di dover riconoscere per loro re Desiderio, poiché un frate non poteva essere eletto re, e ingiunse a costui di riprendere il [p. 245 modifica]saio di monaco, mentre avea già quasi riacquistato il potere. Rachi ubbidì, e Desiderio ebbe la corona. Questi non mantenne la promessa al Papa, poichè restituì le sole città di Faenza, Gavello e Ferrara; sicchè Stefano III, avvedutosi del suo mal talento, e agognando che niuna delle contrade confinanti col ducato romano fosse dipesa dal regno longobardo, stimolò Alboino duca di Spoleto, e Liutprando di Benevento a ribellarsi apertamente al loro sovrano, e a ridursi di nome sotto il protettorato di Pipino, il quale, perchè lontano, avrebbe meglio rispettata la loro totale indipendenza.

Di ciò prese grande sdegno Desiderio, che, giovandosi della morte accaduta in quel tempo del pontefice Stefano, e rompendola all’intutto col nuovo papa Paolo I, succeduto a Stefano, armò in fretta un poderoso esercito, e nell’anno 757 si spinse a gran furia contro Spoleto e Benevento, e traversando l’Esarcato e la Pentapoli, diede il guasto a molte città che erano state sottomesse alla Chiesa. Ai duchi non apparecchiati alla difesa mancò il tempo per congiungere le loro forze e combattere uniti il re Desiderio, per cui a questo riuscì agevole di prendere di assalto Spoleto, e far prigione Alboino. Indi mosse contro Benevento, e a Liutprando non bastò l’animo di difendere la metropoli del ducato, ma si ritrasse in Otranto, città marittima, lusingandosi di potersi sostenere in questa città. Desiderio la strinse d’assedio, ma avendo difetto di navi, la campeggiò inutilmente, e deluso levò indi a poco l’assedio.

Ma però nel marzo o aprile dell’anno 758 Desiderio nominò duca di Benevento Arechi, sua creatura, dandogli per moglie una delle sue figlie detta Adelperga,e in quel mentre chiamato a sè da Napoli Giovanni Silenziario, fece per suo mezzo proporre un’alleanza all’imperadore dei Greci, promettendogli di aiutarlo a ricuperare Ravenna, e le altre città dell’Esarcato e della Pentapoli già conquistate da Astolfo, ma a condizione che l’imperadore, fatta espugnare Otranto dalla sua armata navale, mettesse in sua mano Liutprando, di cui voleva ad ogni modo vendetta. Il greco imperadore gradì l’offerta, e fu compilato una specie di trattato, nel quale si statuì che [p. 246 modifica]alcuni greci navigli doveano dalla Sicilia spedirsi ad Otranto per insignorirsene di accordo coi longobardi; che la città dovea sottoporsi al dominio greco, e che Liutprando ed il suo confidente Giovanni doveano essere consegnati al re. Per siffatto modo Otranto addivenne città greca, e col volgere del tempo gli imperadori greci se ne avvalsero per estendere novellamente il dominio nella parte Sud-Est d’Italia.

Arechi II resse 30 anni circa il ducato di Benevento, ma dei primi sedici anni del suo governo intercorsi sino alla conquista del regno longobardo operata da Carlo Magno, la Istoria non ci ha tramandato che scarse e incompiute notizie. Sul principio del 764 intraprese la guerra di Napoli, e la condusse con tanta saviezza; che, a detta di non pochi scrittori, la città di Napoli aderì pel suo meglio a rendergli un annuo tributo, e ad affidargli per ostaggio Cesario figliuolo del duca Stefano. E quantunque non tutti gli storici siano in ciò concordi, non pare tuttavia di poterne dubitare, imperocché un tal fatto risulta provato da alcuni versi incisi sulla sepoltura di Cesario, e che furono riportati dal Capaccio. Indi ampliò lo stato dalla parte dei piacentini, che sono i popoli della provincia, nota più secoli dopo col titolo di Principato Citra, la quale per lo innanzi non dipese mai dai duchi di Benevento. E infine prese a fortificare d’ogni parte la città di Salerno, costruendovi molte torri d’intorno; poiché molto era vago di possedere una fortezza di primo ordine sul mar Tirreno, e ivi costruì ancora un palagio che fu annoverato tra i più sontuosi dell’età di mezzo, e dove si piacque assai spesso di abitare.

Quando Carlo Magno nel 774, assecondando l’invito di Adriano I, superò le Chiuse ed espugnata Pavia diede fine al regno dei longobardi in Italia, conducendo prigione in Francia il re Desiderio, le parti principali del regno longobardo nell’Italia superiore si arresero di buon grado al conquistatore, il quale ne tenne il supremo potere; ma per lo contrario non tentò neppure di soggiogare i floridi ducati di Spoleto e di Benevento.

In tutto quel tempo Arechi, genero del re Desiderio, [p. 247 modifica]seppe assodare per modo la sua potenza, che non fu menomata nè con la caduta del re, che lo avea investito del ducato, nè con la ruina del regno, del quale fece parte Benevento. Arechi elevò Benevento alla dignità di principato indipendente, unico avanzo del regno longobardo, e prese il titolo di principe, e le insegne di sovrano signore, facendosi coronare dai vescovi in una dieta de’ suoi grandi.

In quanto alla forma della incoronazione, essa rilevasi da non pochi documenti riportati da varii scrittori di antichità, e se ne legge la minuta descrizione negli scritti di Landolfo seniore. E a me basterà accennare che appartenendo i re longobardi ad una nazione guerriera, non riconoscevano la loro autorità che dalla forza e dalla volontà della nazione armata, e conservarono per lungo tempo il rito nazionale di essere sollevati sugli scudi dai guerrieri. E una tale usanza, che allettava la baldanza militare, e lusingava le ambizioni pretoriane, non fu trasandata da Arechi, il quale adottò per sè la doppia forma, cioè la nazionale degli scudi e l’itallana della incoronazione.

E, per non venir meno a tutti gli atti di un sovrano, colloco la sua effigie in ogni chiesa ad esempio degli imperadori, serbò a sè il dritto di dichiarare la guerra, e di stipulare trattati di alleanza e di pace, coniò monete, e riformò l’amministrazione dello Stato, che divise in provincie dette contadi, a ciascuna delle quali presiedeva un Gastaldo, che poteva essere rimosso a grado del principe. Ma dopo qualche tempo fu conferito ai detti Gastaldi tale ufficio a vita, e potè trasmettersi il governo delle contee o de’ Gastaldati ai primogeniti, donde ha origine in queste provincie la feudalità baronale.

Le contee più insigni che appartennero a Benevento furono quelle di Taranto, di Cosenza, di Larino, di Lucania ovvero Pesto, di Montella, di Salerno, di Capua, il Gastaldato di Boiano che poi passò a Molise e si dimandò contado di Molise, e le contee di Telese, di S. Agata, di Avellino, di Acerenza, di Bari, di Lucerà e di Siponto.

E infine Arechi emanò molte leggi che, secondo le usanze [p. 248 modifica]dei re in quei tempi, disse Capitolari, alle quali erano astretti ad uniformarsi coloro che rendeano giustizia, e ordinò che in tutti i suoi decreti fosse adoperata la formola che usavano gli Augusti: Scriptum in sacratissimo nostro palatio.

E così ha termine la storia del ducato, e da questo punto piglia le mosse l’altra del principato di Benevento; ma non è a tacere che non riuscì mai ad Arechi di conservare una compiuta autonomia rispetto a Carlo Magno. Ed anche ai suoi successori fu necessita di riconoscere la supremazia del ricostituito impero occidentale. Però il legame tra il ducato e l’impero franco fu debole in modo che non ne veniva offesa la dignità e l’indipendenza del principato, e le relazioni interne del territorio beneventano furono sempre scevre da qualunque influenza o ingerenza straniera. Laonde lo Stato di Benevento, che fu sempre quello che si tenne meno unito al regno longobardo ed ebbe un più libero svolgimento, fu quello pure che conservò inviolate le usanze, le tradizioni, e le istituzioni dei longobardi ne’ secoli successivi.




Fine del primo volume.



Note

  1. I longobardi, tratti dalle loro tane, vennero come spade taglienti, uscite dalla guaina, c sovra i nostri capi s’inebriarono di sangue: l’umana generazione, la quale in questa terra era come biada spessa, che non potevasi numerare, fu guasta ed uccisa, le città posta a sacco, i templi arsi, le castella atterrate, e tutta questa contrada de’ suoi abitatori nuda e fatta deserta, sicchè le bestie occuparono i luoghi nei quali gli uomini soleano soggiornare.» (Gregorio Magno)