Istituzioni di diritto romano/Introduzione/Sezione II
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Sezione 2.ª
idee dei giureconsulti romani sul diritto, sulla giustizia e sulle distinzioni principali del diritto.
Ist. Lib. I. Tit. I De Justitia et Jure — Lib I. Tit. II. De Jure Naturali Gentium et Civili. — Dig. Lib. I. Tit. I. De Justitia et Jure.
§. 24. La parola, che i Romani adoperavano ad esprimere ciò che noi esprimiamo con la parola Diritto, è la parola Jus, voce sincopata che deriva da Jussum comando, ordine, regola generalmente prescritta, cioè a dire Legge.
Laonde il Diritto non era per i Romani, da primo, se non che un Ordine imperioso. E bene questo significato etimologico della parola si addice all’indole primitiva del Diritto in Roma.
Formula tecnica e rigorosa, arme aristocratica, il Diritto non doveva nè poteva essere espresso, se non che con una parola che suonasse il comando, l’ordine inflessibile del potere; con una voce che appellasse non alla ragione, ma alla autorità.
Ed è notevole, che le lingue moderne abbiano usato una parola certamente di differente derivazione. Infatti le voci Diritto degli Italiani, Droit dei Francesi, Right degli Inglesi, Recht dei Tedeschi e via discorrendo, hanno tutte la stessa radice, ma ben diversa, e distinta dalla radice della parola Jus.
Ai popoli moderni pare repugnasse, usare a significare il Diritto una parola, che implica Comando. Ma anche in Roma, nell’epoca classica della Legislazione, i Giureconsulti tali ci danno definizioni del Diritto, che chiaro addimostrano quanto si fossero dilungati dal significato etimologico della parola Jus.
§. 25. Nelle Istituzioni di Giustiniano non si trova definito il Diritto, e questa lacuna è stata giustamente rimproverata ai compilatori di quest’opera; per altro nelle Pandette troviamo riferita la definizione che del Diritto dava il Giureconsulto Paolo, il quale lo diceva: id quod semper aequum ac bonum est, f. 11. Dig. De Justitia et Jure I. 1. come pure quella che ne dava Celso: Ars boni et aequi (fr. I. prin. Dig. De Justitia et Jure I, 1.) È il buono e l’equo, ciò che costituisce il Diritto, è una idea morale che lo informa. Ed altri celebri Giureconsulti nelle Pandette stesse invocano il bonum e l’aequum come ragione del Diritto, che deve trionfare perfino della Legge Scritta (fr. 14. 15. 25. 39. Dig. De Legibus I, 3. — fr. 9. e 183. Dig. De regulis juris. L. 17.) Conseguenza di questa idea, che si formavano del Diritto i citati Giureconsulti, si è quella di inalzare la professione loro alla dignità di Sacerdozio, di chiamare coloro che lo esercitavano Sacerdoti (Sacerdotes) (fr. 1. Dig. De Just, et Jure I, 1.). come Ulpiano stesso li appella.
Il Diritto adunque nell’epoca classica era in senso astratto, tutto ciò che è buono ed equo; ed in un senso obiettivo, l’arte di ciò che è buono ed equo. Era confuso con la Morale; e quando si parla di Diritto da costituirsi, di Diritto Naturale, quest’opinione che esso sia tutto uno con la Morale, è opinione che non ha guari fu difesa e sostenuta. Ed anche noi dicemmo, che se non è tutt’uno con la Morale, pure come derivante da essa debba essere considerato. Ma dalla Morale bene vuole essere distinto. E di vero i Precetti della Morale sono assai più estesi di quelli del Diritto; la Morale non soltanto ci vieta di nuocere al nostro simile, ma ci comanda di giovargli; oltre i Doveri verso il prossimo, essa ci impone Doveri verso Iddio, e verso noi stessi. Essa esige che adempiamo i Doveri da lei imposti, non per forza o per considerazioni di interesse, ma per amor del bene; addimanda la buona intenzione, l’amore della virtù e della giustizia, e non si contenta, come il Diritto, della esteriore conformità delle azioni nostre al prescritto della Legge. Non ha, come il Diritto, la Coazione al suo servizio, ed ha una sanzione soltanto nella coscienza.
§. 26. Quando del Diritto in senso pratico i Giureconsulti Romani favellavano, ne davano delle nozioni molto simili alle nostre.
a) Allora intendevano per Diritto un complesso di più leggi della stessa natura, come quando parlavano del Diritto Civile Romano.
b) Oppure una facoltà sanzionata dalla Legge, come quando indicavano l’Jus hereditatis etc.
c) La voce Jus adoperavano perfino talvolta ad esprimere il luogo ove si amministrava la Giustizia. In Jus vocare significava infatti, chiamare in giudizio, e Ambula mecum in jus era la formula che usavano per intimare a comparire dinanzi al Magistrato. I Giureconsulti Romani pretendevano che la voce Jus derivasse da Justitia. Ciò almeno è asserito da Ulpiano (fr. 1. Dig. De Justitia et Jure I, 1; ivi: est autem a justitia appellatum.) Sbagliata etimologia, imperocchè jus è evidentemente parola radicale di justitia, e non derivata da quella, è la voce Justitia che dovè derivare da Jus.
§. 27. La Justitia è infatti definita nelle Istituzioni di Giustiniano e nelle Pandette, come la costante e perpetua volontà di dare a ciascheduno il suo Diritto, Constans et perpetua voluntas jus suum cuique tribuendi. (Vedi Ist. De Just. et Jure I. 1. — Dig. fr. 10. eod. I. 1.) Ora quando si dice che Justitia è la volontà di accordare a ciascuno Jus suum, all’idea di Giustizia si presuppone l’idea di Gius. E logicamente (come abbiamo sopra dichiarato) l’idea di Giustizia deriva dall’idea di Gius. Con la definizione ora riferita della Giustizia, cominciano le Istituzioni Imperiali. Forse ivi fu premessa questa idea a qualunque altra, per dimostrare che la Giustizia è lo scopo di tutte le Leggi, il fine che si propone il Legislatore, il centro cui convergono tutte le Discipline del Diritto; faro luminoso che deve guidare il Giureconsulto ed il Magistrato.
Questa definizione, che le Istituzioni danno della Giustizia, e che è quella che ne dava Ulpiano, rappresenta la Giustizia come una Virtù. Evidentemente qui il Giureconsulto ha inteso parlare della Giustizia Morale, ed avendo considerato il Diritto come la Morale, il considerare la Giustizia come una Virtù, non è strano nè incoerente. Ma questa definizione non sarebbe esatta, se si intendesse che il Giureconsulto avesse voluto definire la Giustizia Civile, quella Giustizia della quale si contentano le leggi Civili e Positive, che il Legislatore terreno esige, e della quale è sodisfatto. I Legislatori nostri in vero, si contentano che il Cittadino si conduca conformemente alle Leggi emanate da loro, nè investigano se ciò dipenda dall’amore puro del bene e della Virtù, o piuttosto dallo interesse o dal timore delle pene. La definizione, che esaminiamo, più all’Etica che al Diritto si conviene. Per questa definizione la Volontà di dare a ciascheduno il suo, deve essere costante (constans) cioè ferma, invincibile nella sua resistenza, irresistibile nella sua forza. Deve di più essere perpetua cioè durevole, non cessare mai, non essere intermittente. Ma quale è la ragione, per la quale in questa definizione si richiede la perpetuità nella volontà? Comunemente si ritiene, che l’adjettivo di perpetua sia adoperato invece dell’avverbio perpetuamente, talchè il senso della definizione sia: che la Giustizia è la costante volontà di dare perpetuamente a ciascuno il suo, vale a dire in tutte le circostanze, in tutte le emergenze. Non si potrebbe considerare come uomo giusto, dicono i sostenitori di questa opinione, chi si astenesse dal male soltanto fino al momento in cui potesse commetterlo impunemente; finchè non gli si presentasse l’opportunità di violare gli altrui Diritti, con speranza di successo. Giusto, concludono, è chi vuole il bene perchè è bene, e lo vuole sempre, in qualunque emergenza. Ciò non pertanto non è da disprezzare l’opinione di chi crede, quella qualifica di perpetua essere stata adoperata nella definizione in esame, in conseguenza del principj della Stoica filosofia, del quali era imbevuto Ulpiano, (cui quella definizione appartiene) alla pari di molti altri dei classici Giureconsulti Romani. Per gli Stoici infatti, ogni virtù doveva essere una costante e perpetua volontà, per essi era sempre malvagio chi lo fosse stato una sola volta. Ora la Giustizia essendo considerata da Ulpiano come Virtù, naturalmente egli le ha apposto la caratteristica delle Virtù tutte, nelle parole sacramentali constans et perpetua voluntas.
Alcune lezioni invece della parola tribuendi, con la quale termina la definizione della Giustizia, da noi riferita, hanno la parola tribuens. Ma questa variante non è buona, perchè la volontà non attribuisce, non dà, ma fa si che si attribuisca e si dia; non è esatto dunque dire voluntas tribuens, ma è meglio e più vero parlare di una voluntas tribuendi; tanto più che taluno può avere la volontà di dare a ciascuno il suo, (voluntas tribuendi) e per ignoranza o per errore non darlo, e così la volonta non riuscire tribuens.
§. 28. Ulpiano definì la Giurisprudenza dicendola: Divinarum atque humanarum rerum notitia, justi atque injusti scientia (ved. Istit. Lib. I. Tit. 1, §. 1. Pand. Lib. I. Tit. 1. fr. 10, §. 2.). Questa definizione fu criticata, come quella che apparisce addicevole più alla Filosofia, che alla Giurisprudenza. Per giustificarla fu detto, che Ulpiano volesse con la medesima esprimere essere necessaria al Giureconsulto almeno una notitia delle cose umane e divine, per acquistare la scientia del giusto e dello ingiusto. Tuttavolta a questa interpretazione mal si presta la naturale giacitura della definizione riferita, non esistendo in essa quella relazione, che vogliono vedere, fra la prima sede e la seconda della medesima. Vi fu chi opinò avere Ulpiano dato quella pomposa definizione della Giustizia, mosso dalla gara, dalla emulazione, che esistevano ai suoi tempi fra i Filosofi ed i Giureconsulti, i quali cercavano di abbassarsi a vicenda, e di esaltare la scienza che respettivamente coltivavano; Ulpiano, è stato detto, volle mostrare come le tanto vantate prerogative della Filosofia convenivano anche alla Giurisprudenza. Ma non è da ammettersi di leggieri, che un solenne Giureconsulto come Ulpiano, nel dare una definizione tanto importante, si lasciasse trascinare da puerili puntigli. Piuttosto potrebbe osservarsi, che la definizione di Ulpiano è coerente alle idee che quel Giureconsulto aveva del Diritto e della Giustizia. E valga il vero, se egli riteneva con Celso che il Diritto fosse la Morale, e la Giustizia una Virtù; non è strano che alla Giurisprudenza desse gli attributi della Filosofia.
§. 29. Queste idee del Diritto, della Giustizia, della Giurisprudenza, che stanno scritte nelle Istituzioni e nelle Pandette, sono l’espressione della teoria, del sistema razionale dei Giureconsulti Romani quanto al Diritto considerato astrattamente, al Diritto cioè, quale si concepisce prima che il Legislatore abbia agito sul medesimo, quando è nella sua fase psicologica. Ma in pratica avevano idee sul Gius, sulla Giustizia, sulla Giurisprudenza analoghe alle nostre.
§. 30. Tre, dicevano i Romani Giureconsulti, essere i Precetti del Gius: Honeste vivere; - neminem lædere; - suum cuique tribuere (Ved. Istit. Lib. I. Tit. I. §. 3. Ved. Pand. Lib. I. Tit. I. fr. 10. §. 1.) Evidentemente sono questi, tre precetti di Morale, ma fondamento di regole giuridiche.
a) Infatti, come ha osservato il Savigny (Cap. I. Vol. I. Sistema di Diritto Romano) il primo precetto honeste vivere impone in Diritto l’obbligo, all’uomo, di conservare la sua morale dignità negli atti esteriori. Da questo precetto derivano in Diritto Romano il divieto al fratello di sposare la sorella, il divieto della poligamia, il divieto alla vedova di passare a seconde nozze prima dello spirare dell’anno del lutto ec. Ed una pena in Diritto Romano viene applicata a chi non rispetta questi divieti, derivanti dalla regola honeste vivere.
b) Il secondo precetto è: neminem lædere. Da questo precetto discendono tutte le regole giuridiche, che vietano di offendere altri nella persona e negli averi, che impongono la lealtà e la sincerità nelle contrattazioni, che puniscono la frode, che obbligano a indennizzare colui, cui un danno sia stato cagionato o per dolo o per colpa.
c) Finalmente il terzo precetto: suum cuique tribuere, è quello che più degli altri tutti, è fonte di regole giuridiche, perocchè contiene la sanzione del Diritto di proprietà cui tutto il Diritto Privato di riferisce e fa capo.
Se questi tre precetti si considerano dallo aspetto puramente Morale, il primo è il più importante degli altri, anzi li comprende; perchè all’honeste vivere è condizione essenziale il neminem lædere, ed il suum cuique tribuere; ed il secondo è più importante del terzo. Se invece si considerano per l’importanza loro come scaturigini di massime giuridiche, l’ordine è precisamente inverso; vale a dire il terzo è più importante del secondo, e questo più del primo.
L’osservazione che i Romani Giureconsulti enumerano tre precetti di Morale come precetti di Gius, precetti Morali che sono effettivamente la base di regole giuridiche importantissime, è una ragione confermativa per convincersi, che il Diritto in queste generalità, è considerate da Ulpiano in un senso largo e filosofico, come Diritto di Natura, cioè nello stadio in cui è un puro ente di ragione.
§. 31. La principale distinzione del Diritto, che occorre nelle Istituzioni Imperiali, è quella di Diritto Pubblico e Diritto Privato. (a) Publicum jus, dicono le Istit. Imp., est quod ad statum rei Romanæ spectat. (b) Privatum quod ad singulorum utilitatem pertinet (Istit. §. 4. de Just. et Jure L. I. - fr. 1. §. 2. Dig. eod. I. 1). Quel che differenzia il Diritto Pubblico dal Privato, secondo le Istituzioni di Giustiniano, è dunque questo: che il Diritto Pubblico riguarda dirittamente tutto il Corpo Sociale, e dei privati si occupa soltanto come di oggetto secondario. II Privato all’opposto, si occupa esclusivamente degli interessi e relazioni dei singoli cittadini fra loro. È questa la distinzione, che fra Diritto Pubblico e Privato fanno eziandio i Giureconsulti odierni, come altrove fu detto. Nei primi tempi di Roma grande fu l’importanza del Diritto Pubblico, perchè l’amministrazione della cosa pubblica era in mano del popolo, che si reggeva a forme repubblicane. Si aggiunga che l’Jus Sacrum era parte del Gius Pubblico (Ved. fr. 1. §. 2. Dig. de Just. et Jure I. 1) Cessato il Governo Popolare, succedutagli la Dominazione Imperiale, il Gius Pubblico sminuì d’importanza. L’Imperatore, capo supremo dello Stato, comandò in modo assoluto ed arbitrario. Da lui dipesero i Magistrati, ed i privati non ebbero altrimenti parte nell’Amministrazione Governativa. Laonde nelle Istituzioni Imperiali del Gius Pubblico si ricorda appena la nozione, per non parlarne mai più.
§. 32. Il Gius Privato secondo Ulpiano, e le Istituzioni Imperiali che lo copiano, è tripartito, o meglio, consta di tre elementi:
(a) Di precetti di Gius Naturale;
(b) Di precetti di Gius delle Genti;
(c) Di precetti di Gius Civile.
Di queste tre maniere di precetti si occupa il Tit. II Lib. I. delle Istit. Imp., che ha per rubrica: de Jure Naturali, Gentium et Civili, e i fr. 1. - 6. delle Pandette Lib. I. Tit. I. de Just. et Jure.
a) Jus Naturale, ivi è detto, è quello quod natura omnia animalia docuit. Questo Diritto, si seguita a dire, non è proprio ai soli uomini, ma comune a tutti gli animali, che vivono sulla Terra, nel Cielo e nel Mare. Da esso deriva l’unione sessuale, il Matrimonio; da esso la procreazione e l’educazione della prole. Gli animali si conformano a questo Gius, come se lo conoscessero.
b) Jus Gentium è quello: quod naturalis ratio inter omnes homines constituit. Questo Diritto si dice delle Genti, perchè è osservato presso tutti i popoli.
c) Jus Civile è quello: quod quisque populus ipse sibi constituit; è esclusivamente proprio dei membri della Città, e perciò si chiama Civile.
§ 33. È da notare che Gajo nelle sue Istituzioni non riconosce questi tre elementi nel Gius Privato, ma invece due soltanto: 1. Il Gius delle Genti 2. II Gius Civile. Egli pure definisce il Diritto Civile, id quod quisque populus ipse sibi constituit, e il Gius Naturale id quod naturalis ratio inter omnes homines constituit. (Vedi Gajo Ist. Com. I. §. 1.) Egli omette dunque di parlare del Diritto Naturale. Egli considera soltanto il Diritto comune a tutti gli uomini, jus gentium, e lo dice anche naturale: e il Diritto speciale proprio dei Romani, jus civile. Il Diritto comune agli uomini ed agli animali, jus naturale, non ha da quel Giureconsulto menzione speciale.
Questa bipartita classazione di Gajo è razionale, ed era quella dominante fra i Giureconsulti Romani; la tripartita è un tentativo di classazione più completa fatto da Ulpiano, ma non accolta generalmente. In fatti nelle Compilazioni Giustinianee non se ne parla che due o tre volte, mentre la classazione bipartita ricorre ad ogni istante ed è adottata da Modestino, Paolo, Marciano, Florentino, e dal maggior numero dei Romani Giureconsulti, i quali adoperano come sinonimi le due espressioni Jus Naturale, Jus Gentium.
La tripartita classazione di Ulpiano è stata criticata come quella che introdusse un Diritto Naturale, cui quel Giureconsulto diede una nozione siffatta, da fare sembrare che egli attribuisse Diritti e Scienza di Diritto, anche agli animali. Il Savigny opina che Ulpiano facesse quella classazione triplice, sulle seguente ipotesi: Che vi fosse un tempo nel quale le relazioni reciproche fra gli uomini fossero presso a poco quelle degli animali, l’unione sessuale, la procreazione, la educazione della prole; che a questa epoca ne succedesse una seconda nella quale lo Stato, la Proprietà, le Obbligazioni contrattuali fossero regolate uniformemente fra gli uomini tutti; che finalmente in una terza epoca, in ogni Stato fossero create delle Istituzioni speciali adattate ai particolari bisogni, e così sorgesse un Diritto particolare per ogni popolo. Che nella Prima epoca regnasse il Diritto Naturale, nella Seconda il Diritto delle Genti, nella Terza il Diritto Civile. È per avventura più esatto dire, che quella triplice divisione del Diritto significhi, che i principj del Diritto prendono origine parte dalla natura animale dell’uomo, parte dalla sua natura razionale, parte dal carattere proprio di ciascun popolo, e dai suoi speciali bisogni. Questa spiegazione tanto più sembrerà sodisfacente ove riflettasi, che la Filosofia degli Stoici, della quale Ulpiano era imbevuto, considerava l’uomo sotto questi tre aspetti: di animale, di essere libero ed intelligente, di cittadino. Che poi Ulpiano non riconoscesse nei bruti animali nè Diritti nè Doveri, è fuori di dubbio; perchè Egli in un frammento riferito nelle Pandette, dichiara che il Diritto non può essere in un modo imputabile violato da un bruto animale: quod sensu caret (fr. I. §. 3. Dig. si quadrupes pauperiem fecisse dicatur IX: 1.) Ivi è detto: Pauperis est damnum sine injuria facientis datum, nec enim potest animal injuria fecisse, quod sensu caret. È giuoco forza dunque che quel Giureconsulto intendesse dire, sebbene esprimendosi poco felicemente, che a certe Leggi Naturali, poste dalla Divina Provvidenza per la conservazione della specie e dell’individuo, obbedisce anche il bruto animale, e che queste Leggi o norme compongono nel loro insieme un Diritto, comune agli uomini ed agli animali.
Egli non pensava già, che i bruti animali conoscessero o avessero la intelligenza di cosiffatto Diritto, ma che obbedissero a certe regole o norme, che negli uomini sono fonte di Diritto. Esempigrazia l’unione sessuale è una Legge comune agli uomini ed agli animali, e negli uomini è di Diritto Naturale. Ma checchessìa di questa opinione di Ulpiano, egli è certo, vuolsi ripetere, che per la maggiore e più sana parte dei Giureconsulti Romani, si distingueva il Diritto Privato in Diritto delle Genti e Diritto Civile; il primo, quello: quod quisque populus ipse sibi constituit; il secondo, quello quod naturalis ratio inter omnes homines constituit.
§. 34. È necessario far grande attenzione al significato che alle parole Diritto Civile, Diritto delle Genti, davano i Romani Giureconsulti, e non confondere cotale significato con quello che alle parole stesse danno gli odierni Giureconsulti.
Gli odierni Giureconsulti per Diritto delle Genti intendono il Diritto Internazionale, e non già quello quod naturalis ratio inter omnes homines constituit. E per Diritto Civile intendono:
a) Talora il Diritto Positivo in contrapposto al Diritto Naturale,
b) Talora il Diritto dei cittadini in generale, ossia il Diritto Privato, in contrapposto al Diritto Pubblico.
c) Talora il Diritto dei cittadini non commercianti, in contrapposto al Diritto Commerciale.
d) Qualche volta le leggi della Società Civile, in contrapposto alle Leggi Canoniche; mentre i Giureconsulti Romani per Diritto Civile intendono: quello quod quisque populus ipse sibi constituit, oppure il Diritto proprio dei soli Romani.
Il Diritto Civile assumeva anche il nome della città ove era costituito; così Diritto Civile degli Ateniesi dicevasi quello costituito per le Leggi di Solone, o di Dracone; Diritto Civile Romano o Jus Quiritium, quello dei Quiriti. Ma quando i Romani parlano di Gius Civile senza altra indicazione, intendono riferirsi al Diritto Civile Romano, quasi al Diritto per antonomasia; come quando si rammentava il Poeta, dai Greci intendevasi Omero, e Virgilio dai Latini. (Vedi Ist §. 2. tit. 2. Lib. 1.)
§. 35. Le Istituzioni Imperiali nell’ultima sede del §. 2 tit. 2 Lib. I, avvertono che non tutti i principj del Diritto delle Genti, sono conformi e coerenti alle regole della ragione naturale. Così la Servitù e la Schiavitù, sono ivi riconosciute come contrarie al Diritto Naturale: sunt juri naturali contraria; jure enim naturali ab initio omnes homines liberi nascebantur.
Di quì gli interpreti del Diritto Romano derivarono la distinzione scolastica, fra Diritto delle Genti Primario, e Secondario.
a) Primario dissero quello suggerito a tutti i popoli dalla retta ragione, e questo è il Diritto che anche oggi chiamiamo Naturale. b) Ma i popoli antichi avevano accolto generalmente certe istituzioni, le quali sebbene; stessero in opposizione con la ragione naturale, pure per l’opinione di loro necessità o utilità di fronte alle condizioni dei tempi, erano comuni a tutti. Quindi una altra specie di Diritto delle Genti, che talora stava in opposizione con principj quod naturalis ratio inter omnes homines constituit, e che gli interpreti dicono Diritto dalle Genti Secondario.
Per bene intendere il passo ora citato delle Istituzioni, e sul quale questa distinzione si fonda, bisogna ritenere, che sebbene i Romani Giureconsulti d’ordinario confondessero insieme e adoperassero come sinonimi, le due espressioni: Diritto Naturale, Diritto delle Genti; davano talvolta al Diritto Naturale un significato corrispondente a quello che gli diamo oggi giorno; lo consideravano cioè come un Diritto assoluto, indipendente dalle convenzioni dei popoli, e discendente dalla Legge Morale p. e. nel fr. 14. Dig. De condictione indebiti. XII, 6. ed in questo significato i principj del Diritto delle Genti, cioè adottati da tutti i popoli di quell’epoca, potevano diversificare da quel Diritto Naturale e perfino contradire al medesimo.
§. 36. Il Diritto Romano, considerato quanto alle sue fonti, si distingue in Diritto Scritto e Non Scritto.
a) Diritto Scritto, proveniente cioè: da 1. Leggi. — 2. Plebisciti. — 3. Senatusconsulti. — 4. Costituzioni dei Principi — 5. Editti dei Magistrati. — 6. Responsi dei Prudenti.
b) Diritto non Scritto, cioè quello che chiamano Consuetudinario, e del quale la Consuetudine e l’uso sono la manifestazione.
Secondo alcuni la distinzione fra Gius Scritto e Non Scritto non va intesa nel senso grammaticale delle espressioni, cioè non è la Scrittura o la mancanza di Scrittura sulla quale quella distinzione riposa. Diritto Scritto, secondo essi, vuol dire Diritto promulgato, stabilito per volontà espressa del Legislatore, Diritto non Scritto, Diritto introdottosi per consuetudine o per tacito assenso del Legislatore medesimo.
Il Savigny ritiene invece, ed a ragione, che questa distinzione di fronte al Diritto Romano vada intesa nel senso grammaticale, sebbene sia vero che l’altra intelligenza, che a questa distinzione danno specialmente i Moderni Scrittori di Diritto Romano, sia in astratto più logica.
§. 37. Le sorgenti di Diritto ora enumerate, e che dalle Istituzioni di Giustiniano sono definite negli ultimi paragrafi del Tit. II. Lib. II, non coesistono tutte insieme. Lo vedremo nella Istoria Esterna del Diritto Romano, di cui dando un rapido cenno, parleremo di ognuna di quelle fonti in particolare.