Invito a Lesbia Cidonia ed altre poesie/Sonetti varj

Sonetti varj

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I sonetti Epigrammi
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SONETTI VARJ.

Per una allodola uccisa a Fontanella dall’abate Ottavio Nardi.

Fatto estemporaneamente ad inchiesta del conte Pietro di Caleppio.

(1783).


A che impegno mi metti, o caro Conte?
Per celebrare il gran valor del Nardi,
Che sempre ammazza gli augellin più tardi:
Ne pensieri non ho, nè rime pronte.
Leggiadra allodoletta aveva a fronte,
E vi teneva immobilmente i sguardi:
Così già in Francia i Paladin gagliardi
Fulminava cogli occhi Rodomonte.
Tre volte il colpo misurò: tre volte
Il can dello schioppetto in vano scese;
E nella mano i plausi ci trattenne.
Fiammeggiò d’ira: al foco delle folte
Faville sue la polvere s’accese,
E tutte n’arser le infelici penne.


In morte d’un cane del dottor Quarenghi.

(1782.)


Destin tre volte e quattro empio e nefando,
Anzi ben più di sette e più di nove,
Per te dagli occhi un ruscellin mi piove,
E vado il pelo coll’età cangiando.
Anzi mi vo’ dal capo il crin tirando.
E maledico Marte e Isacco e Giove;
E vo’ precipitarmi e non so dove,
E vo’ proprio ammazzarmi, e non so quando.
Chè m’han morto il mio cane, il mio Contino,
A cui tanto piacea la carne e l’ossa.
Ahi ria maledettissima ferita!
Così piange il dottor gramo e tapino:
Di che quell’ombra tanto n’è commossa,
Che volentieri tornerebbe in vita.


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Epitaffio di nobile cavallo della marchesa de’ Belcredi.

(2 aprile 1788.)


L’agil destrier che disdegnar parea
La man stessa d’Orlando e di Gradasso,
E sol veniavi mansueto e basso,
E sol, Donna, da voi legge attendea;
Quel che disciolto, il Zefiro potea
Lasciarsi a tergo superato e lasso;
E altier compose il portamento e il passo,
Sotto l’incarco di sua bella Dea;
Oimè qui giace; d’atro assenzio e fele
I precordi gli sparse invida Parca,
E rinchiuse sua gloria in poca terra,
Or sotto l’ombre vi sarà fedele,
E sdegnerà Proserpina e il Monarca;
Chè intatto è il cor che si portò sotterra.


SUL GIUOCO DE’ TAROCCHI.

(1783.)


Che venir possa il canchero negli occhi,
E cada sì, che il collo, e il cul s’ammacchi,
E nido sia di cinquecento acciacchi.
Chiunque loda il gioco de’ tarocchi.
Gioco da scioperon, gioco d’allocchi,
Che la mia borsa malamente intacchi.
Va al diavol: che i sonagli alcun t’attacchi,
Poichè m’hai rovinato ne’ bajocchi.
E tu, speranza, che sempre agli orecchi,
Susurri le promesse a’ mammalucchi,
Di rifar con vittoria i danni vecchi;
Che l’ancora di mano alcun ti spicchi:
L’àncora vana, colla qual ci cucchi;
È sopra quella a ciel seren t’impicchi.


PER IL PROPOSTO DI TAGLIUNO1.

(1786.)


Tu ch’entrar per quest’uscio t’apparecchi,
Sappi che quivi con pochi bajocchi,
Fece un museo, qual mai non vider occhi.
Don Crispino, a cui il ciel salvi gli orecchi.

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Crini di mulo e penne, ossa di becchi,
Cenere, e sabbia, e sterco di ranocchi.
Vetri, corna, carbon, denti d’allocchi,
Pelle, peli, peluria, e fichi secchi:
Queste son tutte orrende stregherie,
Con cui le maliarde, nella cuna,
Storpiano i parti delle donne pie.
Furon trovate al lume della luna,
Negli orti, nelle stalle e nelle vie;
E poich’ebbe il buon uom tanta fortuna,
Non ne perde pur una;
E vuol riporle in vasi di majolica
Per illustrar la storia dïabolica.


Essendo stato stampato BRIXIENSIS invece di BERGOMAS sull’Orario 1778, per l’Università di Pavia, non so per sbaglio di chi, ed essendo io stato accusato di vergognarmi della patria.


Son Borgamasco, e non me ne vergogno;
E chi Bresciano m’ha chiamato ha torto:
E in pubblico il dirò, se c’è bisogno,
Se c’è qualcun che non se n’era accorto.
Cangiar patria con Londra io non agogno;
Più d’un million fa Bergamo a dir corto:
Bergamo cara, di te parlo e sogno;
Te nel cor sempre, e sulla fronte porto.
Bergamaschi ci son pel mondo intero;
E più degli altri è un Bergamasco nato,
Chi ride e chi sostien che non è vero.
Un antico geografo diceva,
Che da due bergamaschi ognuno è nato:
Credo volesse dir d’Adamo, e d’Eva.


Risposta del conte Girolamo Fogaccia.


Son Bergamasco io pur; e mi vergogno
Che tu derida nostra patria a torto.
Se di farti schernir hai tu bisogno.
Io di seguirti non son tanto accorto.
Ad un nome immortal io non agogno:
Troppo il mio ingegno e l’intelletto è corto;
Ma per la patria (non è ciancia o sogno)
Di morir anco in cor impresso porto.
Mascheroni ci son pel mondo intero,
E in varie foggie ognun di loro è nato;
Ma sempre informe è il lor aspetto vero.

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Son mille e i mascheroni, io ti diceva;
Ma dal lignaggio d’onde sei tu nato
Si modellò lor primo Adamo ed Eva.


A MOMO.


Più non mi dir che chi d’Euclide apprende
Con facil occhio le famoso carte
Mal di moral ragiona, e non intende
Del doppio Foro la difficil arte.
E in vano de’ teologi pretende
Arcani entrar co’ sacri ingegni a parte;
Poichè sovra natura non si stende
L’egro vigor che il senso a lui comparte.
So perchè odiar Geometria tu dei:
Hai falso in testa l’un e l’altro polo;
Dal quadro a tondo non sai far divario.
Ma se tu fai nel tuo vocabolario
Matematico e sciocco un nome solo,
Il sommo matematico tu sei.


AL PROF. ALESSANDRO BARCA C. R. S.

(l784.)


Mentre col lume di Geometria
Cupole ed archi a visitar m’affanno;
Che in qualche parte non patiscan danno,
Cadendo al suol per la più corta via:
Io godo, egregio Barca, in casa mia
Un fratel matto, che vi fa il malanno;
I cui varianti umor studiar mi fanno
Argini sempre nuovi alla pazzia.
E pur Geometria così m’alletta,
Ch’io vivo col pensier nel Vaticano;
E del Duom Viscontèo salgo la vetta.
S’io non potessi col favor di lei
Talor da casa mia correr lontano,
Matto, per Bacco, anch’io diventerei.


I PALLONI.


Se teco, borsa, mi lagnava pria
Che per la tua mancanza di Luigi,
Non potessi veder Londra e Parigi;
Or per non fatta la querela sia.
Trovata ho l’arte, o cara borsa mia,
D’oltrepassare ancor Senna e Tamigi;
Teco oltre l’Indo sognerò vestigi,
E vedrem California e Barberia.

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Or che per don di chiari ingegni accorti,
Pel vasto cielo le volanti palle,
Portano agli astri il fiero ardire umano;
Vuota come tu sei, vo’ all’aria esporti;
E a te attaccando penzolon le spalle,
La terra andrem varcando e l’Oceano.


Li 5 gennajo 1783 nella merenda data a’ Nobili Signori Deputati della Misericordia del signor conte cavalier Fermo Grumelli, Ministro, si presentò il giovinetto signor Giovanni Locatelli col seguente sonetto:


Nobile Presidenza, a voi m’inchino,
E vi rinnovo i miei ringraziamenti;
Chè farmi cancellier foste contenti,
Mentre studio pur anco il buon latino.
Ma se non posso ancora a tavolino
Stender Parti, Scritture ed Istrumenti,
A tavola per altro ho buoni i denti,
E so distinguer ben l’acqua dal vino.
Però pensando che di sostituto
Qui non ho alcun bisogno, i vostri onori
A godere in persona son venuto.
Dell’onorato uffizio a me commesso,
Se vi degnate, Nobili Signori,
Così sta sera prenderò possesso:
E sarà questo stesso
Un argomento della diligenza,
Che a suo tempo userò nell’incombenza.


All’illustr.o e rever.o signore

CONTE CANONICO CAMILLO AGLIRDI

(1785.)


Quella tavola vostra, signor Conte,
Fatta si bene, così sveltamente,
Che si raddoppia, così facilmente
Come i suoi avventor, persone pronte:
Mi sembra un’invenzione d’oltremonte
D’un qualche Matematico eccellente;
Io l’ho studiata molto attentamente.
Ma il problema mi fa sudar la fronte.
Se voi non mi menate sopra loco
A prender le misure un’altra volta,
Io non ve ne so dir punto nè poco.
Aiuterovvi prima a scaricarla
Poi daremo al coperchio la rivolta
Quando ciascuno suole abbandonarla.

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A me incresce lasciarla;
Poichè mi piace quel divino ordegno,
D’ogni alta riverenza e d’amor degno.
E benchè e’ sia di legno,
Credo che brami ch’io torni a vedello,
Avendo in me trovato un buon fratello:
Un problema novello,
Un contrapposto delle glorie sue;
Un convitato che mangia per due.


AL NOBILE SIGNORE GIOVANNI PEZZOLI.

(1785.)


Ah! Ahi! che all’atto son di partorire;
E partorisco ahi! ahi! cupole ed archi;
E i fianchi miei ne son si tesi e carchi,
Che se presto non fo, rischio morire.
Maledetto il brucior di divenire
Autor d’un libro, che il mio nome marchi:
Se avvien che in tal imbroglio io più m’imbarchi
Mi possa al parto il canchero venire.
Que’ che non sanno che dir voglia un parto
Mi chiamano misantropo selvaggio;
E chieggon se la luna ha fatto il quarto.
La società mi scusi se la schivo;
In pubblico sgnaolar non ho coraggio:
La servirà mio figlio, se sta vivo.
Io so bene a chi scrivo,
Signor Giovanni egregio e senza pari,
Che m’avete trovati anco i Compari:
Cavalier degni e rari,
Che con voi stanno a darmi apparecchiati
Un’ottima panata di ducati.
Or prego solo i fati.
Che essendo già maturo il parto vostro,
Venga in luce ad onor del secol nostro.
Fin dall’Elisio chiostro,
Dolce si lagna il Lirico Romano,
Che l’anno nono è già passato in vano,
Dacchè ei, cigno, Toscano,
Fatto per almo don di vostra Musa,
Ancor non può veder Sorga e Valchiusa.
Nessun timor vi scusa.
L’opra del secol d’oro avendo il pregio,
Avrà del secol d’oro il privilegio:
Con un novello fregio,
E senza duol di chi l’ha concepita,
Vedrà le lucid’aure della vita.


Note

  1. Era il reverendo don Pier Luigi Borella.