Introduzione per la prima sera dell'Autunno dell'Anno 1755
Questo testo è stato riletto e controllato. |
INTRODUZIONE
per la prima sera dell’Autunno dell’Anno 1755.
Ottavio, Florindo, Celio.
Ottavio1. Eccoci qui di bel nuovo, signori compagni carissimi, eccoci qui. Gira, rigira, tornasi poi ogni anno a respirar quest’aria felice, tanto per noi proficua, tanto per noi onorevole.
Florindo2. Grazie al cielo, quest’anno non è morto nessuno della compagnia nostra; non ci presenteremo al popolo come l’anno passato, con una introduzione patetica, ripiena di piagnistei3.
Celio. Saressimo troppo fortunati, se ci presentassimo questa volta senza qualche nuova disgrazia.
Ottavio. Che! abbiamo a essere noi la calamita delle disgrazie?
Celio. Il cuore mi presagisce qualche cosa di stravagante.
Florindo. Caro signor Celio, le predizioni del cuore sono malinconie; sono fantasmi impressi nell’animo dalle disavventure passate, che ne fan temere di nuove.
Celio. Voglia il cielo che i miei timori non sieno che fantasmi vani, ma ho qualche ragione per dubitare.
Ottavio. Se sapete qualche cosa, ditelo, confidatelo; preveniteci, signor Celio.
Celio. No, quando non sia, non vo’ nemmeno che se ne parli. Sapremo or ora la verità. Il signor Pantalone nostro, che è a parte anch’egli de’ miei sospetti, è andato ora per assicurarsene. Sarà qui a momenti da noi.
Florindo. Ma non potreste farci almen la finezza di dirci intorno a che s’aggirino i sospetti vostri?
Celio. Dispensatemi per ora; ve lo domando in grazia.
Ottavio. Per me vi dispenso. Aspetterò di saperlo, quando vi parerà di dirlo; ma se vi fossero qui delle donne, guai a voi se non diceste ogni cosa. Non potrebbono resistere alla curiosità.
Florindo. Questa volta ne ho tanta io della curiosità, che le donne non ne possono avere di più.
Celio. Contenetevi per poco ancora. Il signor Pantalone non può tardare a venire.
Florindo. Certamente non può tardare; manca poco all’ora della commedia.
Ottavio. Che vuol dire che non viene al solito a favorirci il signor Giammaria dalla Bragola?4
Celio. Non so. Ho de’ sospetti anche sopra di lui.
Florindo. Vorrei ripassarmi la parte di questa sera, ma con questa pulce nel capo non mi ci so mettere.
Celio. Ecco il signor Pantalone.
Florindo. Lodato il cielo.
Pantalone.
Pantalone5. Patroni reveriti.
Florindo. Che novità ci portate, signor Pantalone?
Pantalone. Cattive nove, sior Celio, pur troppo xe vero quel che avemo sentio a dir dal barbier.
Celio. Ah, il cuore me lo diceva.
Florindo. Ma che cosa mai è accaduto?
Pantalone. Una piccola bagattella! La prima donna co so mario i ha tolto le viole6 e i se l’ha battua7.
Ottavio. La prima donna?...
Florindo. Andata via col marito?
Ottavio. Quando?
Florindo. Come?
Ottavio. Perchè?
Florindo. Raccontateci.
Pantalone. No gh’è bisogno de altro. I xe andai, e correghe drio, se podè.
Ottavio. Si diceva che forse se ne sarebbono andati8; ma non mi sarei mai creduto, che ad onta di una scrittura di quattro anni, in una stagione in cui non si possono ritrovar comici da rimpiazzare, volessero cagionare alla compagnia un simile precipizio.
Florindo. Come mai la prima donna, ch’era la miglior femmina di questo mondo, ha avuto cuore di abbandonarci così?
Celio. Che potea fare la poverina? Ella ha dovuto condescendere al marito suo.
Florindo. Ed egli perchè intraprendere una sì violente risoluzione?
Pantalone9. Per paura de no andar altro. Ghe premeva de no perder un’occasion. I omeni, co i ha fìssa, i xe persi. Co no i se conseggia che con se medesimi, i xe soggetti a fallar. Basta, i xe andai, pensemo al remedio, e no se perdemo inutilmente a parlar de lori. El cielo ghe daga bona fortuna. Auguremo a lori del ben, e procuremo de averghene anca per nu. Finalmente el mondo no xe cussì scarso de zente, che no se possa remediar alla perdita; el mal mazor xe per st’anno. Semo zotti10, ghe vol pazenzia. Agiutemose tra de nu. Che tutti fazza quello che i pol; per mi son qua, farò da zane e da burattin. Son el più infelice de tutti, ma de volontà, de cuor, de coraggio no la cedo a nissun. Procuremo almanco che tra de nu ghe sia l’amor, la concordia, la pase, perchè dirò come dise el poeta:
«Da unita forza ed armonia sincera
«Tutto si può tentar, tutto si spera.
Ottavio. Dite benissimo: la pace, l’armonia ci sarà; io spero che ora cervelli torbidi nella nostra compagnia non ne abbiamo; ma senza due personaggi come potremo noi supplire? Manca la prima donna, non manca un personaggio che conti poco.
Pantalone. La signora Clarice, che è la seconda donna11, non potrà ella assumere degnamente il carico della prima?
Ottavio. Sì certamente; ma ciò non basta ancora...
Florindo. Eccola che viene; sentiamo che cosa dice.
Clarice.
Clarice. Serva, signori.
Ottavio. Avete saputo, signora...
Clarice. Lo so pur troppo, e non mi sarei creduta una cosa simile.
Celio. Non parliamo di quel che è stato; parliamo ora di quello che deve essere. Manca una donna, signora Clarice, e siccome è mancata quella che il grado sosteneva da prima, vuol la giustizia, l’interesse nostro ed il vostro merito, che a voi si offerisca un tal carico.
Clarice. Io prima donna? no certo, signor Celio; disingannatevi voi, e si disingannino tutti, ch’io questo carico non lo voglio. Non lo merito, e non lo voglio.
Florindo. Eh via, signora, superate la modestia vostra...
Clarice. Non crediate, signor Florindo, ch’io voglia affettar modestia con animo di farmi pregare. Parlo col cuor in mano; colla maggior sincerità del mondo. Sinora sono stata compatita per mia fortuna nel carattere di seconda donna; non so quel che di me possa essere, se avanzo il passo. Ne ho veduti parecchi di questi esempi. Quante altre donne di me più meritevoli assai, passate a grado maggiore, hanno sentito dirsi: faceva meglio restar dov’era. Mi preme assaissimo il compatimento che ha per me dimostrato questa città adorabile, questo popolo generoso, clemente; e non vorrei perder la grazia sua per mostrar di pretendere più di quello mi si convenga. Pregovi dunque di dispensarmi; lasciatemi nel mio grado, e disponete in quello di me, dello studio mio e della mia scarsissima abilità.
Pantalone. Ma cara siora Clarice, no la vede in che tempo, in che congiunture che semo? Dove vorla che adesso se trova una prima donna? Pur troppo ghe ne xe carestia de donne bone de sto mestier; e se ghe n’è qualcheduna, adesso le xe tutte impiegae, e nissuna vuol far la trista figura de lassar la so compagnia, per passar adesso alla nostra.
Clarice. Non vi sono nella compagnia nostra delle altre donne?
Ottavio. La serva non si può togliere dal suo carattere.
Florindo. La signora Eleonora, che è terza donna12, ha detto cento volte che in casi simili non vuole uscir dal suo posto.
Celio. Come faremo dunque?
Pantalone. Qualcheduna ha da far seguro. Me poderave esibir mi, se no gh’avesse la barba.
Ottavio. Basterebbe che voi poteste fare le vecchie, che facevansi da quello che se n’è andato.
Pantalone. Per quelle me inzegnerave; ma ghe sarà chi le poderà far meggio de mi. Ghe xe el mio collega Dottor che le fa pulito.
Florindo. È verissimo, ha fatto per necessità donna Rosimena, e si è portato benissimo.
Celio. Eccolo appunto. Sentiamo anche il parer suo sopra l’importante articolo della donna.
Il Dottore13.
Dottore. Gran cosa! ogni anno qualche disgrazia nuova!
Ottavio. L’avete saputa, eh?
Dottore. L’ho saputa certo. L’ho intesa ora, che stava ragionando con il poeta nostro14.
Ottavio. Che dice egli di questa bellissima novità?
Dottore. Sapete il suo naturale; ei prende tutte le cose con una pacatezza di animo particolare. Mi dispiace, disse, ma non mi voglio scaldare il sangue. Buon viaggio a chi va, salute a chi resta.
Pantalone. Certo, l’ha fissa sta massima de no voler andar in collera de gnente. El vuol star san più che el pol; scriver e devertirse; rider de tutto, e no voler tor gatti da pettenar.
Dottore. Mi consolo, soggiunse, che i due che sono partiti, non potranno dire d’averlo fatto per cagione mia. Sa tutto il mondo quel che ho operato per loro. Ma lasciamo andare questo proposito, signori miei, noi abbiamo bisogno di un’altra donna.
Clarice. Di una prima donna, volete dire.
Dottore. Una prima donna dove s’ha da ritrovarla? L’accidente mi ha fatto imbattere in un comico amico mio, che per essere stato vari mesi malato, trovasi qui colla moglie a spasso. Egli ve la offerisce per quello che può valere. Ho creduto bene di farla venir qui subito. Capiterà a momenti; vedremo che cosa è, e se ne valeremo al bisogno nostro.
Celio. Avete fatto benissimo.
Clarice. Le daremo il posto di prima donna.
Celio. Non signora, questo posto si è offerto a voi, e se voi lo ricusate, resterà indeciso per ora, e per tutto l’anno se occorre.
Clarice. Io vi torno a dire, non lo voglio assolutamente.
Argentina.
Argentina. E qui una signora che non so chi sia.
Dottore. Sarà la donna di cui vi dissi. Una dorma che il caso mi ha fatto ritrovar senza impiego. Argentina. Salisce ora le scale. Voglia il cielo che riesca al bisogno nostro. Si è sparsa la voce della nostra perdita, e si senton cose che fanno raccapricciare. La gente dice che siamo rovinati, che non faremo niente; che la compagnia è disfatta, che non vedranno più Curcuma, Donna Rosimena, Donna Rosega15, e che so io? Ho procurato di dire ad alcuni che il mondo non è finito per questo, ma la prevenzione è ostinata, e non v’è rimedio.
Dottore. Ecco la donna che viene. Facciamole animo, per amor del cielo.
Clarice. Sarò io la prima ad incoraggirla.
Angiola.
Angiola. Serva umilissima di lor signori.
Clarice. Serva sua. Favorisca. (tutti la salutano)
Angiola. Perdonino. Son confusa veramente. Mi si offerisce un onor ch’io non merito.
Ottavio. Perchè confondersi, signora mia? Noi siamo comici come gli altri; e se ella ha recitato altrove, può francamente intraprendere a recitare con noi.
Angiola. Eh, signore, vi è una bella differenza dal recitare che ho fatto sinora a quello che si fa qui! Le disgrazie di mio marito m’hanno fatto essere nelle piccole compagnie; e questo è un mondo nuovo per me.
Clarice. Niente, signora. Troverete tanta bontà nel popolo generoso di questa illustre città, che vi darà animo a tutto. Prendete pure coraggiosamente il grado di prima donna...
Angiola. Io prima donna? Scampo via che non mi trovate mai più. Non è poco ch’io mi offerisca servirvi per seconda, per terza, per quarta e per meno ancor, se volete.
Celio. Orsù, signore mie, l’ora si fa tarda e qui conviene risolvere. Non si parli nè di prima, nè di seconda. Il bisogno nostro per ora vuole che ognuno faccia quello che può, e quello che gli verrà assegnato di fare.
Clarice. Bene, a questo patto mi sottoscrivo.
Celio. E voi, signora? (ad Angiola)
Angiola. Disponete pure di me; ma avvertite bene, che se mi metterete in impegni, sarà peggio per voi. Signori, mi raccomando a voi. Abbiate di me quel compatimento che merita il caso mio. Vi giuro che tremo da capo a piedi; ma non so che dire; ci sono e ci devo stare. Il cielo mi assisterà, (parte con il Dottore)
Clarice. Ella trema, ed io sudo. Mi fido della bontà che hanno per me. Spero che mi compatiranno almeno... Chi farà il complimento al popolo?
Celio. O voi, o nessuno.
Clarice. Nessuno dunque. Ve l’ho detto e ve lo torno a dire: io non voglio essere la prima donna. (parte)
Argentina. lo faccio la mia serva e mi basta così. Non è poco che sia compatita nel mio carattere. Se occorrerà, per bisogno qualche altra cosa farò, ma senza idee, senza pretensioni. Siamo tutti compagni, aiutiamoci l’un l’altro; viviamo in pace, se mai si può. Ma ho paura che non si potrà. (parte) Pantalone. Per mi fazzo tutto. Stassera fazzo una parte da servitor. No m’importa. Ghe ne vegnirà un’altra, che me poderò far onor. (parti)
Celio. Ed io non recito, e per questo? non mi preme niente. Faccio tutto, sto a tutto, e ve lo dico di cuore. (parte)
Florindo. Io non ho altro puntiglio che questo. Trovar dopo la recita una buona cassetta, e vedere la platea piena, e che si senta batter le mani. (pari)
Ottavio. Voglia il cielo che sia così quest’anno, e che alle perdite nostre riparar possiamo con qualche merito. Signori, preparate gli animi a compatirci, e discorrete fra voi sull’Introduzione nostra, frattanto che si prepara la scena per la commedia, alla quale vi preghiamo di attendere con umanità e con silenzio, (parte)
Si cala la tenda.
La Introduzione, o sia apertura di Teatro per la prima sera dell’Autunno dell’Anno 1755, fu stampata in testa al t. V del Nuovo Teatro Comico dell’Avv. C. G. (Venezia, F. Pitteri), nel 1758. - In una lettera a S. E. Franc. Vendramin, che è della fine del settembre 1753, o del principio di ottobre, C. Goldoni scrive: «Non volevo far introduzione, ma sentendo dal S.r Campioni che V. E. bramerebbe si facesse, e desiderandolo anche alcuno dei comici, domani vedrò di farla» (C. G. e il Teatro di S. Luca, per cura di D. Mantovani, Milano, 1885, p. 74). Si ricongiunge alle Introduzioni dei due anni precedenti (voll. X e XI della presente ed.), ma vi manca il personaggio più vivace, sior Zamaria. La compagnia del teatro di S. Luca vi si mostra in fatti un po’ turbata per la partenza improvvisa di Teresa Gandini, prima donna, e di Pietro Gandini, caratterista (sior Zamaria). - Le note a piè di pagina segnate con lettera alfabetica appartengono al commediografo.
- ↑ È l’attore Francesco Majani: vedasi vol. X, p. 16, n. 3.
- ↑ L’attore Francesco Falchi: v. vol. IV, 86 e X, 16, n. 1.
- ↑ Vedasi l’Introduzione dell’anno 1754, nel volume precedente.
- ↑ V. vol. X, 14 sgg.; vol. XI, 208 sgg.
- ↑ L’attore Pietro Rosa: v. vol. XI, 209.
- ↑ Sono fuggiti. [nota originale]
- ↑ I coniugi Pietro e Teresa Gandini, che andarono a recitare a Dresda: v. vol. X, p. 14, n. 2 e p. 13, n. 3 e 4.
- ↑ Vedasi la lettera del Goldoni a S. E. Francesco Vendramin, dei 2 agosto 1733.
- ↑ Pietro Rosa: vol. XI, 209.
- ↑ Zoppi. [nota originale]
- ↑ L’attrice Caterina Bresciani: v. vol. X, 12, n. I.
- ↑ Vittoria Falchi, moglie di Francesco (Ottavio): v. vol. X, p. 13. n. I.
- ↑ Guseppe Lapy, bolognese, che fu poi molti anni capocomico nel teatro di S. Luca: v. Bartoli e Rasi. Scriveva il Goldoni al patrizio Frane. Vendramin sulla fine, pare, del sett. 1753: Mi dicono che Lapy faccia bene la vecchia: lo vedremo» (Mantovani, C. G. e il t. di S. Luca ecc., Milano, 1883, p. 74).
- ↑ Il Goldoni stesso.
- ↑ Parti sostenute dal Gandini