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Clarice.
Clarice. Serva, signori.
Ottavio. Avete saputo, signora...
Clarice. Lo so pur troppo, e non mi sarei creduta una cosa simile.
Celio. Non parliamo di quel che è stato; parliamo ora di quello che deve essere. Manca una donna, signora Clarice, e siccome è mancata quella che il grado sosteneva da prima, vuol la giustizia, l’interesse nostro ed il vostro merito, che a voi si offerisca un tal carico.
Clarice. Io prima donna? no certo, signor Celio; disingannatevi voi, e si disingannino tutti, ch’io questo carico non lo voglio. Non lo merito, e non lo voglio.
Florindo. Eh via, signora, superate la modestia vostra...
Clarice. Non crediate, signor Florindo, ch’io voglia affettar modestia con animo di farmi pregare. Parlo col cuor in mano; colla maggior sincerità del mondo. Sinora sono stata compatita per mia fortuna nel carattere di seconda donna; non so quel che di me possa essere, se avanzo il passo. Ne ho veduti parecchi di questi esempi. Quante altre donne di me più meritevoli assai, passate a grado maggiore, hanno sentito dirsi: faceva meglio restar dov’era. Mi preme assaissimo il compatimento che ha per me dimostrato questa città adorabile, questo popolo generoso, clemente; e non vorrei perder la grazia sua per mostrar di pretendere più di quello mi si convenga. Pregovi dunque di dispensarmi; lasciatemi nel mio grado, e disponete in quello di me, dello studio mio e della mia scarsissima abilità.
Pantalone. Ma cara siora Clarice, no la vede in che tempo, in che congiunture che semo? Dove vorla che adesso se trova una prima donna? Pur troppo ghe ne xe carestia de donne bone de sto mestier; e se ghe n’è qualcheduna, adesso le xe tutte impiegae, e nissuna vuol far la trista figura de lassar la so compagnia, per passar adesso alla nostra.
Clarice. Non vi sono nella compagnia nostra delle altre donne?
Ottavio. La serva non si può togliere dal suo carattere.