Inni omerici/Introduzione
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In questo volume gl’Inni Omerici sono disposti in una maniera un po’ differente dalla solita. Ai primi cinque inni maggiori ne ho uniti altri due: «Dioniso o i Pirati» e «L’Inno a Pan», che, insieme con quelli, formano un nucleo che ha vera entità d’arte e di poesia; e ho separati, in un altro gruppo, gli altri, che ne presentano poca o nessuna.
L’indole degl’Inni è tale, che ciascuno di essi vuol essere considerato e discusso separatamente; e perciò, a ciascuno dei maggiori ho premessa una breve introduzione. Tuttavia, non sembrerà superflua qualche osservazione d’indole generale.
La raccolta degli Inni, su per giù quale ora la possediamo, esisteva già ai tempi di Cicerone. Gl’Inni, almeno separatamente, erano già conosciuti dagli Alessandrini, perché Callimaco palesemente li imita. Tucidide conosceva l’Inno ad Apollo Delio, ed esplicitamente lo dichiarava omerico.
Ma, a parte la paternità omerica, la varietà di lingua ed anche di colorito, che intercede fra i varii inni, rende poco verisimile l’ipotesi che siano d’un solo poeta.
È bensí vero, e conviene rilevarlo, che, accanto alle divergenze, è facile ravvisare negl’Inni talune analogie. Alcune formali, come, per esempio, quella, certo di poco rilievo, della chiusa, e la disposizione della materia come in tante grandi lasse. Altre sostanziali, come la predilezione per i lunghi elenchi geografici (vedi le singole introduzioni); o per certi brani caratteristici, che presentano una certa aria di famiglia, quali la pittura, nell’Inno ad Apollo Delio, delle fanciulle mime, o quella delle Trie e della vita e morte delle Ninfe, negli Inni ad Ermete e ad Afrodite; o per le leggende relative alla nascita e all’infanzia di Numi o d’eroi (Apollo, Ermete, Pan, Celeo): onde una bella vena di poesia dell’infanzia, non troppo comune nella letteratura greca.
Se non che, tutte queste analogie possono derivare, o da limiti e direttive segnate a questo genere dalla tradizione, oppure da reciproche dipendenze artistiche, le cui tracce si possono tuttavia sicuramente ravvisare. E la ipotesi piú probabile sarà ancora quella di Ottofredo Müller, che essi appartengano ai secoli trascorsi fra l’epoca d’Omero e le Guerre persiane.
Ma qui si deve arrestare lo scetticismo critico. È certo che parecchi luoghi degl’Inni sembrerebbero accennare ad una età anche piú bassa, e ad una minore serietà d’arte; ma sono sempre, quasi sicuramente, interpolati. Ed espunti che siano, il complesso degl’Inni ne risulta, pur sempre, egregia opera d’arte.
E su questo punto conviene specialmente insistere.
Una delle piú nefaste conseguenze della ipercritica razionale in genere, e della critica omerica in ispecie, fu quella d’avere estirpata dal cuore degli uomini la piú divina poesia che fiorisse mai su la terra.
L’Iliade e l’Odissea, dissero i filologi, non sono opere d’un sommo genio, bensì conglomerati poco piú che casuali, di canti diversi d’età, d’autore, di tendenze. — Ma allora, il buon senso dei non filologi concludeva che poemi composti in simil guisa non potevano essere capolavori, anche se tutti i filologi del mondo seguitassero a protestare un’ammirazione tanto sospetta quanto poco autorevole.
E poi, non tutti protestavano. Uno di loro, il piú famoso di tutti, uomo tanto ricco di dottrina quanto povero di senso estetico e di sana logica, Ulrico di Wilamowitz, il cui solo nome fa tremare le vene e i polsi a tutti i filologi del mondo, sentenziò che i poemi omerici erano composizioni sganasciate, e che valevano meno di certa poesia di Corinna ultimamente rinvenuta, e che, davvero, farebbe sbadigliare i sassi1.
E allora, concludeva il buon senso, se i poemi d’Omero valgono tanto poco, figuriamoci che merito potranno avere gl’Inni, che, per comune consenso, sono ad un livello d’arte molto inferiore.
Bisogna dunque dire ben forte che, se i poemi d’Omero rimangono sempre, per rinnovato consenso universale, la piú alta poesia del mondo, anche gl’Inni vanno compresi tra le opere che onorano l’ingegno dell’uomo, e che sono fonte perenne di poesia e di diletto. Questa pare che sia anche l’opinione di Gabriele d’Annunzio, il quale ne trasfuse parecchi brani nella sua «Laus Vitae». E non dubito che anche i miopi, vedendone quei luminosi riflessi, comprenderanno qual fonte di godimento estetico e d’ispirazione, anche per l’arte moderna, possano essere questi antichi documenti della poesia greca.
Se poi vogliamo considerarli in confronto coi poemi omerici, vediamo che essi svolgono, in forma singolarmente felice, una quantità di tèmi e di spunti mitici che nei poemi troviamo abbozzati, o anche semplicemente accennati. E formano come un gran fregio istoriato dintorno a quel quadro meraviglioso. Il fregio non è, o almeno non è in ogni sua parte, di mano del maestro. Ma, ispirato alla sua opera, e condotto sul suo stile da scolari abilissimi, serve pur tuttavia ad integrare mirabilmente l’opera centrale. E chi lo distruggesse, arrecherebbe, sia pur di riflesso, dànno a quell’opera.
Note
- ↑ Da haben wir ein Gegenstück zu dem jonischen Epos, besser zu seiner gesungenen Vorstufe. Das Epos, schon rezitativ, als er herüberkam, hat diese Poesie zurückgedrängt, so dass sie bei den Frauen Zuflucht fand, deren Erzeugnisse uns sehr viel besser behagen als die ausgeleierten Rhapsoden Werke, die unter die Namen Homer und Hesiod treten. «Berliner Klassikertexte», pag. 55. Un ammiratore italiano obiettò che il Wilamowitz intendesse parlare dei poemi ciclici. Ma nessuno ignora che questi poemi sono andati perduti sino alle briciole. E per quanto io non ammiri eccessivamente la logica del Wilamowitz, non lo suppongo capace d’istituire un confronto, per ricavarne un giudizio estetico, fra una poesia di Corinna e dei titoli di poemi perduti.