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Parte I - Salvini non è nato a Guittalemme

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Parte I - In Guittalemme Parte I - La Guittalemme storica
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Salvini   non  è  nato  a  Guittalemme.

(Illustrazioni di F. Scarpelli).

Aneddoti autobiografici.


UU LLA, egregio Liberati, vorrebbe mettermi tra i Dondini, i Vestri, lo Zacconi, il Novelli e la Duse, tutti nati come dice lei, nell’alma città di Guittalemme.

Ora, lasci dire a me che ho sulle spalle 45 anni d’esercizio drammatico, che nè io, nè. Vestri, siamo nati nel nobile paese de’ guitti.

E dico questo aggiungendo subito che è vera gloria per i Dondini, per il Novelli, per la Duse [p. 27 modifica]e per lo Zacconi, di essere da umile stato saliti al grado elevato in cui sono al presente.

Io non posso vantarmi di tanto.

La mia carriera ebbe principio con una Compagnia distinta, della quale faceva parte F. A. Bon, Berlatfa, e la famosa Luigia Bon, a niuna seconda nella commedia, che — in società con mio padre Giuseppe — percorsero, per anni, le prime città d’Italia, e i primissimi teatri.

Ventura questa che a’ suoi guitti^ non è capitata!

E nè tampoco nacqui in Guittalemme perchè, quando ero a balia, mio padre trovavasi con la celebre Internari a Parigi nel disgraziato anno 1830 in 31.

Oh, creda, vorrei poter dire il contrario; ma, per sventura mia, non è cosi!

Quindi, nessun aneddoto posso raccontare ai lettori sulla vita de’ guitti ch’ella si prepara a illustrare.

Se desidera, e se a’ lettori del suo libro non dispiace, le conterò qualche fatto mio ... disgraziatamente però già vecchio. Vuole? [p. 28 modifica]

All’età di 17 anni, faceva parte della Compagnia romana e mi trovavo al teatro detto del «Cocomero», oggi «Niccolini» di Firenze.

Una sera si rappresentava una commedia del Duca di Ventignano, intitolata: Dopo 27 anni. Nel terzo atto, la scena figurava il ritrovo di una società moderna in una sala illuminata, nella quale gli artisti della compagnia cantavano al pianoforte delle canzoni arie e duetti.

Mentre stavo emettendo la più bella nota che m’avessi, una candela della lumiera, che stava appesa nel centro della sala, cade sopra un avanzo di velo che avvolgeva la corda a cui la lumiera era appesa; e il fuoco se ne impadronisce, salendo fino alla soffitta^ nella quale si trovavano avvoltolate delle scene di carta.

Il pericolo d’un incendio era imminente, e uno spavento generale s’impossessò del pubblico e degli artisti che, subitamente, si posero a gridare:

— Al fuoco,, al fuoco! —

In un lampo, montai sopra una sedia, spiccai un salto, m’attaccai alla lumiera, che il peso del [p. 29 modifica]mio corpo fece cadere, trasportando con sè il velo infocato.

Riportai qualche scottatura a’ polsi e alle mani, che i guanti non poterono tutelare; ma il pericolo era scongiurato; in tutti rinacque la tranquillità, la sicurezza, la quiete, e io potei ricominciare la mia romanza intitolata: La settimana d’amore^ che, a causa delle bruciature che mi facevano soffrire, potevasi intitolare: La settimana d’ardore!

Ebbi la modestia di credere che i fragorosi applausi datimi, fossero diretti assai più al pompiere^ che non al cantore...

In quel medesimo [p. 30 modifica]anno, al vecchio teatro «Re» di Milano, ora «Manzoni», rappresentavo la parte di Mortoiner nella Maria Stuarda dello Schiller.

Nella prima scena del quarto atto, Mortoiner, vedutosi scoperto e tradito si uccise dandosi un colpo di pugnale al cuore. L’arma che io adoprai non aveva nè punta, nè taglio; ma fu sì violento il colpo, che, oltre a traforarmi l’abito di velluto — una camicetta a piccole pieghe inamidate — e la maglia di seta che tenevo sul corpo, penetrò fra mezzo la quarta e [p. 31 modifica]la quinta costa d'un buon pollice, non toccandomi il cuore che per l'altezza d'una moneta da 5 lire. In quel momento, la scena scende davanti a me, e si prosegue l'atto: caduto, non avevo fiato per chiedere soccorso: vedendo che non mi rialzavo, alcuni addetti alla scena vennero a sollevarmi, e mi trovarono in una pozza di sangue. La notizia del pericolo per la mia vita si diffuse tosto in tutto il teatro, e gli spettatori non vollero che proseguisse lo spettacolo.

Venni trasportato a casa mia sopra una poltrona, quasi fuor de' sensi, fra due ali di persone che, al mio passaggio, mi compiangevano; e avevano forse ragione di compiangermi, credendo ch'io forse andassi a perdere la vita si stupidamente! Per sette giorni, rimasi in dubbio dell'essere, o non essere, respirando con grande difficoltà, e con la molestia della ferita procuratami dal mio non imitabile entusiasmo.

Un altro fatto, che mi conturbò non poco, avvenne al «Teatro degli Italiani» ⅜ a Parigi l'anno 1857, rappresentando l'Otello dello Shakespeare. L'attore che faceva la parte di Jago si chiamava [p. 32 modifica]— -32Lorenzo Piccinini, artista distinto, coscienzioso e ricco di mezzi fisici, e in quella parte egli s’ebbe elogi ben meritati dalla stampa o dal pubblico parigino. Egli era però di un carattere rivoltoso, e, arrischierò dire, indisciplinato, sebbene riconoscesse il dovere di sottomettersi alle esigenzo dell’effetto scenico.

Ebbene, nel punto in che Otello, nella esuberanza dello sdegno e della passione, geloso, atterra Jago, l’istinto naturale del Piccinini si ribellò. Era la prima volta che rappresentavo l’Otello a Parigi: consolidavo la mia riputazione artistica: si figuri il lettore la tensione de’ miei nervi in quella sera!

Jago doveva cadere in quel dato punto, a quella data parola: non c’era questione, doveva cadere! Ecco, che, proprio in quel momento, sento sotto le mio braccia un’anima ribelle, la quale, in luogo di obbedire al concertato, e di lasciarsi gettare a terra, cerca di resistermi per rialzarsi. Oh no! L’effetto era perduto, e dovetti usare tutta la forza fisica per ottenere il mio intento: il Piccinini (Jago) cadde... ma, mio Dio, in qual maniera! Il suo corpo rimbalzò due volte sulle tavole della scena: di qui una assoluta immobilità.... lo credetti morto!.... E [p. 33 modifica]mentre il pubblico si alzava come un sol uomo applaudendo freneticamente, io pensavo in quell'istante di essere un involontario omicida! M'avvicinai a quel corpo immobile, e, sollevandolo, gli domandai sotto voce se si era fatto male! Egli mi rispose con voce affannosa e soffocata: «Non sono io; sei tu che me lo hai fatto... il male!»

Si potè terminare la scena a stento; e, finito il terzo atto, non so dire quante parole di scusa adoperai per lenire al mio compagno d'arte le ammaccature delle sue povere spalle! Sentii un profondo rammarico dell'accaduto; ma, in compenso, nelle repliche susseguenti, ebbi un obbediente e sommesso Jago.

E destino che tutte le più singolari contrarietà devano succedere a un artista, quasi sempre nel primo esperimento d'un suo elaborato studio. Leggendo il fatto che narrerò, non credo sia anima gentile, che, immedesimandosi nel sentimento d'un artista, non provi senso di commiserazione, e direi quasi di orrore! Nel paese dei comici disperati.

Nel paese dei comici disperati 3
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A Bologna era morto un valente artista tragico, chiamato Lombardi, che, tanto nella parte di Oreste, quanto in quella di Orosmane nella tragedia del Voltaire, Zaira, aveva lasciato nel pubblico un ricordo incancellabile. Da qualche tempo io aveva studiato con vera passione questo carattere; o, dietro ripetute istanzo, mi lasciai persuadere a rappresentarlo nel campo stesso dell’estinto mio antagonista.

L’Orosmane, a Bologna, in quel Teatro del Corso, era per me come per Cesare il passaggio del Rubicone!

Venne la gran sera: armato di coraggio, sorretto dalla profonda conoscenza della parte, e corredato da un vero, ricco, elegante costume orientale, mi presento a fronte del mio giudice, non implacabile, ma rigorosamente giusto. A mano a mano che l’aziono si svolgova, l’interesse andava crescendo, sino a che il pubblico e gli artisti salirono a un grado d’ontusiasmo, che ben difficilmente si uguaglia o si ripete nel periodo di lunghissimi anni.

Era un vero delirio!

La soddisfazione d’aver vinto una si difficile battaglia mi faceva fremere i nervi, bollire il sangue nello veno: mi sontivo la forza di [p. 35 modifica]superare le geste d’Èrcole e di Sansone... ero, infine, ubbriaco di gioja! Arrivo, tutto trionfante, al quarto atto nel quale Orosmane, credendosi tradito, ordina al suo confidente Corasmino di andar a uccidere sull’istante l’infida Zaira con queste parole: «Va, corri, amico mio: va, corri, reca all’indegna questo foglio iniquo, e poi ... cadi svenuta ... (se non che, pentendosi, aggiunge) ma prima di eseguire ... Odimi! ... (Corasmino non l’ascolta) ... Aspetta!».

Questo «aspetta», detto con tutta la vibrazione dell’anima e della voce, fece si che si spezzasse la cintura che teneva costretti i miei larghi calzoni alla vita, e, piano piano, giù ... giù, me li sentii calare fino al collo de’ piedi.

Che dirti, o mio lettore? ...

Ero perduto! ... Causa l’ingombro de’ calzoni non mi potevo muovere, e dovevo pur finire latto e uscire da quell’orribile posizione! ... Se il teatro, in quel momento, mi fosse crollato sul capo, ne avrei provato meno dolore ! Che fare?! Mi trascinai a piccoli passi, e come meglio potevo, fino al divano, posto in mezzo della scena: mi misi a sedere, e, prendendo una pelle di tigre che si trovava a terra, me la posi a traverso il corpo, a ciò facesse l’ufficio [p. 36 modifica]de’ calzoni caduti. Il pubblico non fiatò: non il menomo mormorio; non il più piccolo indizio d’ilarità ... Ah, in quel punto lo avrei baciato dalla riconoscenza!

Fini l'atto quarto ed ero costretto a starmene seduto, sputando veleno dalla bocca, dagli occhi, dagli orecchi, e da tutti i pori della pelle ... [p. 37 modifica]


Ripetei la tragedia e alcuni pretesero che mai più avrei rappresentato quella scena con maggiore intensità di rabbia e di furore. E anch’io ne sono convinto! Se non son morto in quella circostanza, c’è da scommettere che non morirò, certo, sulla scena!

Le bastano?

Io credo di si...

Ora, lasci che glie ne conti uno del quale fui spettatore a Padova.

Ero con Gustavo Modena a un teatro chiuso, mentre all’«Arena» recitava la Compagnia Ferri.

Facevano, quel giorno, il dramma popolare Boeumundo d’Altemhurgo. All'ultimo atto si presenta un padre, che, cadente per l’età, e per le sofferenze di una lunga prigionia, vien liberato, e riconosce la figlia.

Un certo Dorati, abilissimo artista, ma mezzo pazzo, che fini poi per suicidarsi in un camerino del teatro «Carcano» a Milano, rappresentava quella parte. [p. 38 modifica]

Era, figuratevi, uno smemorato senza raffronto

e a tutto pensava fuorché a quello che

veramente gli dava da vivere. Mentre il teatro andava riempiendosi di pubblico, Dorati girava tranquillamente per il paese. I suoi compagni, il capocomico, disperati per non sapere come ripiegar la parte^ sguinzagliarono per tutta Padova gli addetti al teatro, alla ricerca del Dorati. Finalmente, riuscirono a scovarlo, e a condurlo all’„ Arena! „ Quivi lo vestirono alla meglio: chi gli metteva il soprabito all’antica; chi cercava d’infilargli le maglie; tutti intorno a lui per accomodargli sollecitamente il vestito. Bisognava provvedere alla truccatura^ e il nostro eroe aveva la testa calva, come la palma della mano... Niente paura!... II Dorati afferra la bottiglia della gomma liquida, e se ne spande una certa quantità sul capo; poi, in mancanza di altro, a sostituir la parrucca, si fa dare della bambagia e del cotone floscio, che, bellamente, a piccoli pezzi, si appiccica sul cranio, facendosi cosi una artistica testa di vecchio. [p. 39 modifica]39

E cosi truccato esce tremolante (doveva esser vecchio) in iscena. Tirava un vento indiavolato, e recitavano, ve 1’ ho detto, allo scoperto. Dorati, dopo qualche altra scena, arriva a quella più vibrata del riconoscimento della figlia.

Era il pezzo più forte della sua parte. Con foga giovanile, egli comincia la scena, gridando, scotendo la testa, e ponendosi di¬ speratamente le mani ne’capelli... pretesi. In tanto, il vento compiva un’ opera infer¬ nale: riconduceva al pristino stato il lucido cranio, facendo volare per l’aria i fiocchi della bambagia, malamente ingommata... [p. 40 modifica]

Quello che accadde non si ridice:!’«Arena» era affollata di studenti, che cominciarono a ridere sgangheratamente ...

Il pubblico segui gli studenti, e fu un chiasso generale.

Il povero Dorati, che continuava a recitare con sempre maggior passione, non riusciva a spiegarsi quell’ilarità cosi rumorosa.

— Ridere cosi sgangheratamente, mentre egli dava tutta l’anima sua, a una scena cosi comuiovente, cosi... da piangere? —

Dorati non era tipo da inghiottirla!

Saettò d’irati sguardi gli spettatori, e, poi, arrabbiatissimo, abbandonò la scena... una vera e propria scena da... Guittalemme,

Con la quale, saluto Lei, e i lettori del suo libro.

Tommaso Salvini.