Il vero amico/Nota storica
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NOTA STORICA
«Quando Goldoni copia, egli sempre onestamente lo confessa, anche se si tratta di commedie dell’arte». Recisa sentenza di Antonio Valeri (Carletta. Intorno a una commedia di Goldoni. Fanf. d. domen. 2 giugno 1901), dal Vero amico recisamente contraddetta. L’a. bensì, presso agli ottanta, affermava che un aneddoto storico gliene aveva fornito l’argomento (Memorie, II, c. X ). Ma la lotta tra l’amicizia e l’amore, e la gara di generosità tra due amici sono da tempo immemorabile soggetti cari alla letteratura, prima nella novella, poi nel dramma. Anche la presente commedia, meglio che rispondere a un fatto sorpreso nella vita, ha in sè tutte le caratteristiche della tradizione letteraria. Il Goldoni questa volta non inventa, non ritrae immediatamente la realtà, ma segue con grande fedeltà uno scenario di Luigi Riccoboni dal titolo La force de l’amitié, recitato dai comici italiani a Parigi il 6 febb. 1717. L’a. dell’Histoire anecdotique et raisonnée du théàtre italien (Paris, 1 769), dato il riassunto dello scenario, annota: «cette pièce interessante fut jouée avec beaucoup de succès; on en fit imprimer l’argument, dont j’ai tirè cet extrait: elle a été remise par Veronese en 1748» (ibid. vol. I, p. 163; l’estratto è anche nel Dictionnaire des théàtres de Paris [Paris, 1756]. T. II); e si recitava ancora nel 1758 (D’Origny. Annales du théâ. ital. 1788, p. 284). Il Gold. conobbe il soggetto stesso, o l’argomento soltanto? In ogni caso l’affinità tra scenario e commedia è così stretta, che non si può non ammettere la derivazione di questa da quello (cfr. E. Maddalena. Sul «Vero amico» di C. G. Fonti ed aneddoti. Ateneo Veneto, maggio-agosto, 1896). Il soggetto, che è già in una novella del Decameron (settima della dec. giorn.) e si ritrova, sempre variamente modificato, in gran numero di drammi italiani, spagnuoli e francesi, prima e dopo il Goldoni, era entrato nel dominio della comm. dell’arte col Fido amico di Flaminio Scala (Il Teatro delle favole rappresentative, ecc. Venezia, 1611; è il XX della raccolta), donde, con mutazioni non lievi, il Riccoboni tolse il suo.
Procedimento non insolito al Goldoni è il fondere insieme, a dispetto di un’unità intesa con pedantesco rigore, due azioni, una dominante, l’altra secondaria. La figura dell’avaro crea scene tra le più vive della commedia e ne tempera con opportuna comicità il carattere troppo sentimentale. Ma nel disegnare il nuovo personaggio, il poeta, stretto dal tempo incalzante (l’anno delle sedici!) segue più la tradizione drammatica che la propria fantasia. Ottavio, salvo tratti originali e felicissimi momenti (A. III, sc. XV; cfr. Schmidbauer. Das Komische bei G. München, 1906, p. 37), ricorda il classico Euclione e tutta la bella serie degli avari d’imitazione plautina sino ad Arpagone. Ma più originale che generalmente non si conceda - tanto rispetto all’Aulularia (Franchetti. Rass. teatr. Nuova Antol. nov. del 1874) che a Molière (Lüder, C. G. in seinem Verhaltnis zu M. Berlin, 1883, pp. 34,35) - lo giudicano invece il Reinhardstottner (Plautus, Lipsia, 1886, p. 324) e il Merz (C. G. in seiner Stellung z. franz. Lustsp.). I tratti nuovi sembrano meschini e disgustosi al Ruth (Uber G. Literarhistorisches Taschenbuch. Hannover, 1846, p. 307) e al Rabany tutta la figura non piace, perchè, a creder suo, un precetto drammatico novissimo vieta a un avaro d’essere in scena personaggio episodico e non altro (C. G. ecc., p. 268; ribattè il curioso appunto E. Masi in Scelta ecc. vol. I, p. XXVI).
Perchè la figura del ricco avaro si legasse meglio con l’azione, alla dote di Rosaura è fatta una parte non meno importante che alle sue qualità fisiche o spirituali che fossero. Mentre Florindo s’invaghisce della fanciulla d’un amore disinteressato, Lelio bada solo al proprio interesse. La prende se ricca, senza dote, no. Così cessa ogni vera gara di generosità tra i pretendenti e il trionfo dell’amicizia è solo nel sacrificio che fa del suo amore Florindo. Anzi trionfa solo l’interesse. Mal s’intende perchè Florindo induca Rosaura a nozze senza amore e come essa si presti al sacrificio. Spesso il Goldoni, preoccupato di mostrare quanto possa malvagità o virtù in qualche sua creatura, eccede ogni logica misura. Più bella e più sana la chiusa del Riccoboni, che guida alla felicità chi s’ama. Ma peggio ancora finiva il V. a. nella prima lezione a stampa (V. Appendice; nella primissima redazione che non consta sia a stampa, il protagonista, avverte la premessa nell’ediz. Paper. [IV, p. 168], parlava veneziano), perchè là Florindo sposava, senza amore, la sorella di Lelio e i matrimoni disgraziati erano due. Seguiva il Goldoni così esattamente la chiusa del Fido amico, ch’egli dunque assai probabilmente conobbe quanto la commedia del Riccoboni. Nella lezione presente (di cui le Mem. non tengono conto), il G. ebbe pietà del suo eroe. La lima benefica risparmia anche all’avaro una morte troppo repentina (vedi Appendice) e costringe Florindo a maggior concisione ne’ suoi freddi ragionamenti, onde Rosaura sposi Lelio.
Il V. a., ancora vivo sulle scene nella prima metà del secolo scorso (Costetti. La C. R. S. Milano, 1893, p. 21) è scomparso ormai del tutto dal teatro, né il rimprovero di tale abbandono mosso di recente ai nostri comici (V. Malamani in Ateneo veneto, 1907: num. goldon., p. 41) appare giustificato. Quel Florindo innamorato più dell’amico che di Rosaura (A. II, sc. VII), Rosaura che «da buona ragionatrice più che da innamorata» (Momigliano. Il mondo poetico del G. L’It. moderna, 15 III 1907, p. 481; Brognoligo. Il cavaliere e la dama. Il Rinascimento. Foggia, A. II, vol. 30, p. 146) con impagabile disinvoltura passa da un fidanzato all’altro, la chiusa in lotta aperta col buon senso, non consigliano davvero l’esumazione di questa commedia. Vi scorge si anche il Roux (Hist. d. l. littér. contemporaine en Italie. Pcuis, 1874, p. 25) «de jolis détails», ma causa l’assurdo terz’atto non la riteneva «susceptible d’ètre remise au théàtre». L’a. l’ebbe tra le sue figliole predilette (Mem. l. cit.) e con gli affetti di padre non si discute. L’accolse anche il pubblico con plauso ( «s’ha fatto dell’onor più d’un poco el Vero amigo». Foffano. Due docum. goldon. N. Arch. ven. 1899). e torna certo ad onore di spettatori cresciuti ai lazzi della commedia improvvisa, aver gradito un lavoro che poggia quasi tutto sul giuoco dei sentimenti e tradisce cure innegabili di esecuzione. Ricordano con lode il V. a. altri studiosi del teatro goldoniano, quali il Meneghezzi, che comprende questa tra le commedie classiche (Della vita e delle op. di C. G. Mil. 1827, p. 132); il Carrer, cui sembra «bella e perfetta» (Saggio sulla vita e le op. di C. G. Ven. 1824, I, p. 105); il Pròiss, approvando che l’a. la ritenesse «una delle sue commedie migliori» (Gesch. d. neueren Dramas, I 2, p. 320). Fra le più note e le migliori la scorge anche l’olandese A. S. Kok (C. G. en hel italiaansche Blijspel, 1875, p. 96); il Galanti la giudica seria, bella per intreccio e carattere, e rallegrata da molti accidenti (C. G. ecc. Padova, 1882, p. 212). Ma Dom. Cavi vi nota difetti assai (C. G. e la comm. Mil. p. 121); R. Nocchi la dice «viziata dal sentimentalismo» (Comm. scelte di C. G. Fir. 1856, p. XVII); per Augusto Franchetti e «la decima e non certo l’ottima delle sedici» (artic. cit.) e al Rabany pare commedia innocua (Kotzebue, sa vie et son temps. Paris-Nancy, 1893, p. 188).
Due altre volte fece appello all’acume de’ critici il lavoro nelle libere imitazioni che ne diedero Alberto Nota col suo Filosofo celibe (1811 ) e Paolo Ferrari con gli Amici e rivali (Franchetti, art. cit.). La prima delle due, giudicata una delle cose migliori del suo autore, encomiata dal Paradisi e dal Monti (cfr. Salfi, Saggio stor. crit. d. comm. it., Mil. 1829, pp. 76, 77; Roux, op. cit., p. 25) restò a lungo ne’ repertori dei nostri comici ed ebbe cittadinanza anche in Germania, in un rifacimento di Carl Blum (Ich bleibe ledig, 1835).
Il V. a. venne tradotto tre volte in tedesco (Laudes [?] 1766, Saal 1767, Kalau 1891), due volte in francese (nel 1758 dal Deleyre, col disperato proposito d’infirmare le accuse di plagio mosse al Diderot; poi da un M.r de R****a Brunsvick, s. a.), e ancora in portoghese, spagnuolo, danese e olandese. Al di là dell’Alpi e oltre Oceano questa commedia, per i buoni intenti morali ond’è animata, venne offerta in edizioni adatte anche agli studiosi della nostra lingua (Il v. a. mit Anmerkungen von G. Sommer. Lipsia, 1823; id. with introduction. notes and vocabularìy by J. Geddes and Freeman M. Josely. Boston, Heath, 1902). Anche ne’ numerosi florilegi di cose goldoniane, compilati fuori d’Italia, quasi sempre a scopo didattico, il V. a. è assai frequente. Bastava il titolo a consigliarne l’ammissione. (V: Scelta delle comm. di C. G. ecc. unite insieme da I. G. Fraporta. Lipsia, 1801; Scelta di alc. comm. del G. ecc. Ediz. curata da Bellingeri, Parigi, Fayolle, 1824; Comm. scelte di C. G. Parigi, Theriot, 1852).
Grande notorietà venne al V. a. in Francia e in tutta Europa dal plagio che, senza pur accennare al Goldoni, ne fece Dionigi Diderot (dietro l’ediz. Paperini) nel suo Fils naturel (1757), quando il commediografo italiano a Parigi era ancora poco o punto noto (cfr. Toldo. Se il D. abbia imitato il G. Giorn. stor. d. lett. it. 1895, p. 350 segg.; Maddalena, artic. cit.). Elia Freron, avversario acerrimo degli enciclopedisti, rese pubblico il plagio dando nella sua rivista (Année littéraire, 1757, IV, p. 289 segg.) un resoconto minuto della commedia goldoniana, senza fare il nome del Diderot. Corse tosto alla difese l’a. tacitamente accusato. Ma perchè le modificazioni da lui fatte alla commedia italiana non bastavano a rendere il Fils naturel lavoro originale, come gli tornava comodo credere, accusò a sua volta il Goldoni d’aver plagiato il Molière per il suo Ottavio e denigrò bassamente tutta l’opera sua (De la poesie dramatique [1758]). Quest’autodifesa parve al Grimm (Correspondance Paris, 1878, voi. IV, pp. 55-58) «aussi noble que simple». Più semplice davvero non poteva essere dal momento che l’enciclopedista, ammessa dapprima l’imitazione, finisce col negar ogni cosa. Nobile? Che ne sapeva l’autore d’un articolo, dove le insolenze diderotiane su Goldoni e il suo teatro si ribadiscono a morsi d’idrofoba rabbia? Il Fréron ribattè con spietata dialettica punto per punto le meschine ragioni del Diderot (Année littéraire 1761, V, pp. 15, 16). Altri parecchi vennero in aiuto chi al plagiario, chi al derubato, in Francia e fuori (De La Porte. Observations in Diderot. Théatre. 1771 e Journal encyclopédique, 1758, VIII, pp. 123, 124 [danno tutte le ragioni al Did. e rincalzano gli insulti]; in difesa del Goldoni Mém. secrets, cit. dall’Assézal nella premessa al Père de famille. Did. Oeuvr. compl. Paris. Garnier, 1875, vol. VII). A Vienna Josef Sonnenfels, un Baretti extra muros, scrivendo del V. a. che si recitava colà nel 1768, non nega il plagio troppo evidente, ma il lavoro del Nostro gli sembra un pezzo di marmo del quale un malcapitato scalpellino abbia cercato indarno di fare una Venere, mentre il dramma diderotiano e per lui una statua perfettissima da adorare nel tempio di Guido (Briefe über die Wienerische Schaubühne [1768]. Wien, 1884, p. 58). In Francia neanche oggi i pochi costretti a trattare del plagio, sanno essere imparziali. Ammette il Rabany (op. cit. p. 335) che Diderot debba al Goldoni solo l’idea del suo dramma. Meno ancora concede l’Assézat (Did. ediz. e loco cit.) citando a sproposito lo stesso autore del V. a. a prova che plagio non vi fu. Anzi, per tagliar corto, con impagabile disinvoltura avverte: «Nel 1758 il G. non era per il D. altro che uno straniero che gli opponevano e ch’egli, secondo i suoi oppositori, aveva derubato; e non aveva ragione alcuna d’esser amabile con lui». Ossia con gli stranieri, ci sieno ragioni o no, è sempre lecito esser villani.
Le Memorie (p. III, cap. V) , più recisamente che la Premessa (l’A. a chi legge), lasciano intendere che l’accusa di plagio non era infondata. Dionigi Diderot era morto nell’84! Là il G. descrive la sua visita all’enciclopedista, che a questi dovette parere (e altro non era) un atto di deferenza, sa Dio quanto fuor di luogo, e ad altri sembrò anche un’abile mossa diplomatica. (Toldo. Did. e il «Burb. ben.» Aten. Ven. 1907, num. gold., p. 67). Più tardi Did., a proposito del Burbero, trattò il Nostro, sempre da maestro a scolare, s’intende, ma coi modi che la buona educazione consiglia (Neri. Aneddoti contemporanei intorno al B. ben. Bibl. d. scuole it. 1893; Toldo. artic. cit.). Si vedano in proposito anche le buone osservazioni di Maria Ortiz [Giorn. stor. 1908, voi. LII, p. 150] che rimprovera al Toldo soverchia cortesia verso l’enciclopedista.
Non fu il grande strepito causato dal plagio diderotiano che consigliò al G. il silenzio sullo scenario del Riccoboni da lui sfruttato? Nella premessa dell’ediz. Paperini (vol. IV, p. 68) avverte che la folla degli affari non gli concedeva di diffondersi a ragionare del V. a. Forse con la consueta sincerità avrebbe rimediato nell’Ediz. Pasquali o nelle Mem., ma scoperto il plagio del Fils naturel, confessando egli a sua volta, non avrebbe dato agli avversari ottima occasione di ritorcere le accuse? In ogni caso va notato che l’identità della favola tra la Force de l’amitié e il dramma del Diderot non era sfuggita né al compilatore dell’Histoire du th. it. (cit., voi. I, p. 169), né al Cailhava, il quale riproduce tutto l’estratto (De l’art. de la comédie, 1772, vl. VI, cap, IV, p. 317).
Men noto e di minore importanza è un altro plagio a danno del V. a., opera dello scrittore croato Matija Jandric nel suo Lyubomirovich ili priatel pravi (1821), scoperto e minutamente analizzato da Gjuro Surmin (Vienac, Zagabria, 24 nov. 1° dec. 1894; ancora Gudel. Stare Kajkavske Drame. Zagreb, 1900, p. 19 e Archiv f. slavische Philologie. Vol. 26, p. 286).
Giovanni Venceslao conte di Purgslall, l’unico tedesco fra i dedicatari del teatro goldoniano, n. nel 1724 a Graz, m. nel 1785, s’acquistò meriti insigni verso l’agricoltura del suo paese, fu cultore delle scienze e amico dei letterati. Ne’ suoi viaggi in Italia, di cui parlano i suoi biografi, incontrò il Goldoni? Dalla lettera di dedica sembra che tra loro siano corsi solo rapporti epistolari. Notevole assai in questa l’accenno alla fortuna delle commedie goldoniane a Vienna, dove già nel 1751 (se non prima) si stampavano e recitavano. Si pensi che il Nostro appena in quell’anno col trionfo delle sedici rende forte e sicura la sua fama. Questa grande notorietà raggiunta quasi d’un subito in paesi lontani, d’altra lingua, in un tempo in cui lettere e viaggiatori si movevano con meravigliosa lentezza, è un fatto veramente degno d’esame.
E. M.
Questa commedia uscì la prima volta dentro l'anno 1753, nel t. IV dell’ed. Paperini di Firenze, ma senza più il dialetto e le maschere che erano nel testo, quando fu recitata: e di qui fu riprodotta a Bologna (Pisarri, Corciolani, 1754), a Pesaro (IV, ’54). a Torino (Fantino Olzati, V, ’56). Ricomparve nel 1765nota con alcune mutazioni e correzioni a Venezia, nell’ed. del Pasquali (t. VII), e poi in quelle del Savioli (II, ’70). dello Zatta (cl. I, V, ’89). del Garbo (V, ’95); e ancora a Torino (Guibert-Orgeas, VII, ’73), a Livorno (Masi, '88), a Lucca (Bonsignori, ’89) e altrove nel Settecento. - La presente ristampa seguì principalmente il testo più curato del Pasquali, ma reca in nota a pie di pagina le varianti, e in Appendice le scene modificate o soppresse delle precedenti edizioni.