Il tulipano nero/Parte seconda/XIV

XIV - Quando Van Baerle cominci a dubitare a qual supplizio sia riserbato.

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Alexandre Dumas - Il tulipano nero (1850)
Traduzione dal francese di Giovanni Chiarini (1851)
XIV - Quando Van Baerle cominci a dubitare a qual supplizio sia riserbato.
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XIV


Quando Van Baerle cominci a dubitare a qual supplizio sia riserbato.


La vettura trottò per tutta la giornata; si lasciò Dordrecht a sinistra, traversò Rotterdam, toccò Delft: alle cinque di sera erano state percorse almeno venti leghe.

Cornelio diresse qualche interrogazione all’officiale che servivagli a un tempo di guardia e di compagno; ma per circospette che fossero le sue dimande, egli ebbe il cordoglio di vederle restare senza risposta.

Cornelio rimpianse di non aver più a fianco suo quella guardia così compiacente, che parlava almeno senza farsi pregare.

Colui senz’altro avrebbegli prodigato intorno a questa singolarità, che sorvenivagli nella sua terza avventura, dettagli così graziosi e spiegazioni così precise come intorno alle due prime. [p. 271 modifica]

Si passò la notte in vettura; l’indomani alla punta del giorno, Cornelio si trovò al di là di Leida, avendo a sinistra il mar del Nord e a diritta il mare di Harlem. Tre ore dopo entrava in Harlem.

Cornelio ignorava affatto l’accaduto in quella città, e noi lo lasceremo in questa ignoranza, finchè non ne sia tratto dagli avvenimenti.

Ma non può essere così del lettore, che ha il diritto di essere messo in corrente delle cose prima del nostro eroe.

Abbiamo visto che Rosa e il Tulipano come due fratelli e due orfani erano stati lasciati dal principe Guglielmo d’Orange presso il presidente Van Herysen.

Rosa non ricevette nuova alcuna dello Statolder dalla sera del giorno che avealo visto di persona.

Verso la sera un officiale venne da parte di Sua Altezza in casa di Van Herysen, per invitare Rosa a portarsi al palazzo comunale, dove, in una gran sala di consiglio introdotta, trovò il principe che scriveva.

Egli era solo e aveva a’ piedi un gran levriero di Frisia, che guardavalo fisso, come se il fido animale si volesse ingegnare di fare quello che non era dato neppure all’uomo: leggere nel cuore del suo padrone.

Guglielmo continuò a scrivere per un altro momento; poi alzando gli occhi e vedendo Rosa ritta presso la porta:

— Accostatevi, ragazzina, disse senza lasciare di scrivere.

Rosa fece qualche passo verso la tavola.

— Mio Signore, diss’ella arrestandosi. [p. 272 modifica]

— Va bene, profferì il principe. Accomodatevi.

Rosa obbedì perchè il principe la guardava. Ma appena egli ebbe rimessi gli occhi sulla carta che si ritrasse tutta vergognosa.

Il principe finiva la sua lettera; e intanto il can levriero era andato di faccia a Rosa, e l’aveva fiutata e accarezzata.

— Ah! ah! fece Guglielmo al suo cane, si vede bene ch’ell’è una tua compatriotta; tu la riconosci.

Poi rivoltosi verso Rosa, e fissando su lei i suoi sguardi scrutatori e velati ad un tempo.

— Vediamo, figlia mia, cominciò egli.

Il principe aveva appena vent’otto anni. Rosa diciotto o venti al più; avrebbe detto meglio: sorella mia.

— Figlia mia, disse con un accento stranamente imponente, che gelava tutti quelli che lo avvicinavano, non siamo che tra noi due, discorriamo un poco.

Rosa cominciò a tremare da capo a piedi; contuttochè fosse dipinta sul viso del principe una tal quale benevolenza.

— Mio Signore, ella malamente espresse.

— Avete un padre a Loevestein?

— Sì, mio Signore.

— Che l’amate?

— Non l’amo tanto, quanto una figlia dovrebbe amare suo padre.

— È male di non amare suo padre, mia ragazza, ma è bene di non mentire al suo principe.

Rosa abbassò gli occhi.

— E per qual ragione non amate tanto vostro padre. [p. 273 modifica]

— È cattivo.

— In qual maniera si mostra la sua cattiveria?

— Maltratta tutti i prigionieri.

— Tutti?

— Tutti.

— Ma non maltratta particolarmente più qualcuno che gli altri?

— Mio padre maltratta particolarmente più Van Baerle, che...

— Che è vostro amante.

Rosa fece un passo indietro.

— Che io stimo, mio Signore, rispose con alterezza.

— Da molto tempo? dimandò il principe.

— Dal giorno che l’ho veduto.

— E l’avete veduto?...

— Il domani del giorno, in cui furono così terribilmente messi a morte il gran pensionario Giovanni e Cornelio suo fratello.

Le labbra del principe si chiusero, la sua fronte impallidì, e le sue palpebre abbassaronsi in modo da nascondere per un istante i suoi occhi. Dopo un momentaneo silenzio, ei riprese:

— Ma che vi giova amare un uomo destinato a vivere e morire in prigione?

— Se non ad altro gioverammi ad aiutarlo a vivere e morire.

— E voi accettereste la condizione d’essere la moglie di un prigioniero?

— Io sarei la più fiera e la più felice delle creature umane essendo la moglie di Van Baerle; ma... [p. 274 modifica]

Ma che?

— Non l’oso dire, mio Signore.

— Avvi un sentimento di speranza nel vostro accento, che sperate voi?

Alzò i suoi begli occhi sopra Guglielmo, occhi così puri e di una intelligenza così penetrante, che andarono a ricercare nel fondo di quel cuore cupo la clemenza addormentatavi di un sonno simile alla morte.

— Ah! capisco!

Rosa sorrise giungendo le mani.

— Voi sperate in me, disse il principe.

— Sì, mio Signore.

— Ehi!

Il principe piegò la lettera che aveva scritta, e chiamò un suo officiale.

— Van Deken, disse portate a Loevestein quest’ordine, di cui prenderete lettura, e eseguirete ciò che vi riguarda.

L’officiale salutò, e s’intese rimbombare sotto le volte sonore della casa il galoppo di un cavallo.

— Mia figlia, seguitò il principe, domenica è la festa del tulipano, e domenica è posdimani. Fatevi bella con questi cinquecento fiorini; perchè voglio che quel giorno sia per voi un gran giorno di festa.

— Come vuole l’Altezza Vostra che io sia vestita? mormorò Rosa.

— Prendete il costume delle spose frisone, disse Guglielmo, che vi starà molto bene.