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— Va bene, profferì il principe. Accomodatevi.
Rosa obbedì perchè il principe la guardava. Ma appena egli ebbe rimessi gli occhi sulla carta che si ritrasse tutta vergognosa.
Il principe finiva la sua lettera; e intanto il can levriero era andato di faccia a Rosa, e l’aveva fiutata e accarezzata.
— Ah! ah! fece Guglielmo al suo cane, si vede bene ch’ell’è una tua compatriotta; tu la riconosci.
Poi rivoltosi verso Rosa, e fissando su lei i suoi sguardi scrutatori e velati ad un tempo.
— Vediamo, figlia mia, cominciò egli.
Il principe aveva appena vent’otto anni. Rosa diciotto o venti al più; avrebbe detto meglio: sorella mia.
— Figlia mia, disse con un accento stranamente imponente, che gelava tutti quelli che lo avvicinavano, non siamo che tra noi due, discorriamo un poco.
Rosa cominciò a tremare da capo a piedi; contuttochè fosse dipinta sul viso del principe una tal quale benevolenza.
— Mio Signore, ella malamente espresse.
— Avete un padre a Loevestein?
— Sì, mio Signore.
— Che l’amate?
— Non l’amo tanto, quanto una figlia dovrebbe amare suo padre.
— È male di non amare suo padre, mia ragazza, ma è bene di non mentire al suo principe.
Rosa abbassò gli occhi.
— E per qual ragione non amate tanto vostro padre.